Angelo Giacomino, il capitano dei campioni


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Militare dentro e fuori. E crediamo, per lui, di fargli il più grande complimento. 
Inquadrato sì, per sua stessa ammissione, ma con quella profonda umanità che – ancora oggi – tanto lo ha fatto amare dai suoi (ex) ragazzi. Angelo Giacomino, casertano di nascita e brianzolo di adozione, ha comandato per un decennio la Compagnia Atleti di Milano. Primo amore il calcio. Il ciclismo, a lui sin lì sconosciuto, la passione della maturità. 
Cicloamatore lui stesso, ancora tiratissimo, mi accoglie a casa sua con cortesia e affabilità. Ma siccome puoi tirar via un uomo dal sud ma non il sud da un uomo, dopo una reciproca fase di studio (più mia, da obiettore convinto, che sua) dilaga come un fiume in piena e apre l’album dei ricordi. 
A registratore spento, mi mostra anche quello vero con le immagini di una vita da militare in carriera: dalle foto con i suoi tanti futuri campioni avuti ai suoi ordini a quelle delle missioni umanitarie dei militari italiani in Somalia. Un privilegio aver potuto scorrerle insieme con Giacomino, un duro dal cuore tenero cui il ciclismo italiano deve tanto.

Carate Brianza (Monza Brianza), venerdì 16 marzo 2018

- Angelo Giacomino, lei oggi è un generale in pensione, ma all’epoca, da capitano della Compagnia Atleti, ebbe ai suoi ordini una recluta, Visentini Roberto, che ancora non era… Roberto Visentini.

«No, non era ancora Roberto Visentini professionistama era Roberto Visentini che, prima di arrivare da me come militare, era già stato campione del mondo juniores».

- Nella prima edizione del mondiale di categoria, Losanna 1975.

«Esatto. Quindi, da juniores, arrivavano fino ai 17 anni, poi c’era il salto, da 17, a 18, a 19 anni, quando però c’era l’ostacolo del servizio militare di leva – a quei tempi – obbligatorio. Allora ci fu, nel 1968-70, un accordo tra il Ministero della Difesa e il CONI per cercare di salvaguardare gli “atleti d’interesse nazionale”».

- C’erano anche i famosi PO, i Protetti Olimpici, all’epoca.

«Quelli erano ancora più privilegiati, anche perché erano già in proiezione olimpica. Quando a questi ragazzi si prospettava, a diciannove anni, il servizio militare, a chi aveva fatto un punteggio buono l’anno prima – da juniores oppure da dilettante di Seconda, se qualcuno per motivi di studio aveva rimandato ancora di un anno il militare – ci volevano almeno 50 punti nell’annata precedente per entrare a far parte della Compagnia Atleti. E lì erano un po’ privilegiati perché noi davamo la possibilità almeno di allenarsi tutti i giorni e di andare a correre il sabato e la domenica con le proprie società; quindi era un doppio privilegio. Però il Ministero aveva fatto sottoscrivere al CONI che, anziché dodici, loro facessero tredici mesi. Perché l’ultimo, quello di novembre, quando erano finite le gare, era dedicato all’addestramento militare. 

All’epoca io ero capitano e comandavo la Compagnia Atleti di Milano. L’ho comandata per circa dieci anni, e mediamente arrivavano 100-120 corridori l’anno. Milano raggruppava Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia; Bologna raggruppava Emilia Romagna, Lazio, Marche e Umbria; e Roma raggruppava il resto, dall’Abruzzo in giù soprattutto, perché [quasi tutti] i corridori erano al nord. Giù non c’era ancora tanta tradizione di correre in bicicletta, quindi erano pochissimi e si riusciva bene a raggrupparli tutti a Roma, mentre qui il clou era composto da Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte, più qualche ligure ma di quelli forti-forti. Erano un po’ privilegiati questi ragazzi, però intanto metà giornata la passavano ad allenarsi, perché io li facevo uscire alle otto e mezzo-nove di mattina e rientrare per le due. Benissimo. Gli bastava e gli avanzava. A quei tempi, quando avevi fatto 100-120 km di allenamento al giorno, era già sufficiente, perché le corse dei dilettanti non superavano mai i 120-130 km». 

- Lei li seguiva in allenamento?

«Io la mattina esponevo in bacheca tre percorsi. Uno piatto, uno misto e uno di montagna. Loro, a loro volta, in base alle loro esigenze e a quello che gli diceva la società, sceglievano il percorso. Poi io li andavo a puntare – improvvisamente – per vedere se effettivamente andavano ad allenarsi».

- A sorpresa?

«Eh sì, perché in tanti avevano fatto i punti, erano venuti in Compagnia Atleti, però avevano visto che il salto da juniores a dilettante cominciava a essere importante, tosto. Qualcuno già pensava che non gli sarebbe interessato andare avanti. L’importante, per qualcuno, era togliersi il militare. Allora io puntavo, prendevo la macchina la mattina e andavo, non so, sul Ghisallo, a vedere se passavano quelli del percorso di montagna. Oppure andavo sulla Bevera se passavano quelli del misto. O andavo sul lago a vedere se passavano quelli che avevano fatto il percorso piatto».

- Ha avuto sorprese?

«Sì, tante. Anche loro hanno avuto delle sorprese... Difatti cosa succedeva? Attenzione, faccio un passo indietro: quando loro poi andavano a correre la domenica o il martedì, io gli davo un foglio che dovevano presentare alla giuria, e il presidente di giuria metteva il loro piazzamento e lo firmava. Loro poi mi dovevano riconsegnare il foglio firmato dal presidente di giuria. E questo succedeva da gennaio a luglio. Se da gennaio a luglio c’era scritto “ritirato”, “ritirato”, “ritirato” o “non pervenuto”, io a luglio li impacchettavoe li mandavo nei reggimenti normali. E avevano finito di fare la Compagnia Atleti. Questo era uno sprone anche per gli altri. Anche perché poi uno dice: ma come, io mi alleno, faccio, brigo, quello non fa niente dalla mattina alla sera ed è come me? No. A luglio, andavano via. Io li mandavo via: nei reggimenti normali, e finivano i loro quattro-cinque mesi da militare normale. Ecco, così funzionava».

- C’è qualcuno che è rimasto impigliato in quella rete?

«Sìììì, come no?».

- Anche qualche futuro grosso nome, o i potenziali campioncini già a quell’età erano seri, belli inquadrati?

«Gente già seria, già si vedeva. Anche perché noi come militari facevano una selezione. Una volta l’anno c’era il campionato italiano militare tra le varie Compagnie Atleti, e selezionavo io i migliori, perché era sempre Milano che teneva un po’ il mazzo in mano».

- Quindi era lei che diceva: tu sì, tu no… 

«Certo. E poi ogni due anni c’era il CISM (Comitato Internazionale Sport Militari, nda), il Campionato del Mondo Militare. Ed io selezionavo, nelle varie Compagnie Atleti, la nazionale militare, insieme al tecnico federale».

- Chi era all’epoca, se lo ricorda?

«Sì, certo. C’è stato un periodo, i primi anni, addirittura l’attuale presidente federale Renato Di Rocco, che era maestro dello Sport e poi è stato Segretario federale a Roma, ma lui ha iniziato come maestro dello sport in Compagnia Atleti. Poi è arrivato Sergio Introzzi, un altro appassionato di ciclismo, un maestro dello sport. E poi è arrivato Renzo Zanazzi, che è stato maglia rosa al Giro d’Italia [nelle prime tappe del ’47, nda] nella squadra di Coppi. Nell’89 si è chiusa la Compagnia Atleti perché il militare di leva era finito. Nei miei circa dieci anni di comando sono passati 100-120 corridori l’anno, di cui le posso fare tantissimi nomi, di gente che poi è passata professionista e attualmente fanno i direttori sportivi. I più grandi. Gianni Bugno, due volte campione del mondo, Giro d’Italia. Tre campioni del mondo: Bugno, Moreno Argentin, Maurizio Fondriest. Questi il top, tre campioni del mondo, a prescindere dalle altre gare che hanno vinto. E ne potrei fare cento di nomi: Guido Bontempi, Paolo Rosola, Giuseppe Manenti, Visentini…».

- Di Visentini che ricordo ha?

«Roberto era un po’ un carattere introverso, moltointroverso. Uno che era sempre per i fatti suoi, molto solitario. Però, per come l’ho conosciuto io quell’anno da militare, era un buono. Devo dire questo: che era un buono. Perché le dico questo? Poi parliamo anche d’altro di Roberto. Perché più di qualche volta, quando la sera i ragazzi andavano in libera uscita, c’era, affianco alla caserma, una trattoria il cui padrone era il presidente della GS Baronchelli, Luciano Stìpiti. Mio suocero, che abita qua a fianco a me, è stato quello che ha comandato la Compagnia Atleti prima di me, il generale Razza, Umberto. E lui ha avuto Baronchelli. È stato l’anno dei “dodici secondi”, e Baronchelli era militare da noi in Compagnia Atleti. In caserma abbiamo fatto una gran festa: lui è entrato in bicicletta col cappello piumato, con la fanfara… È stato l’anno [il 1974, nda] del glorioso Giro d’Italia in cui arrivò secondo a 12” da Eddy Merckx».

- Quindi non sempre un atleta, nell’anno da militare, faceva fatica in termini di prestazioni e di risultati.

«Le posso dire che la Compagnia Atleti ha lanciato tanti corridori. Anche perché io li facevo allenare dalla mattina alla sera, quando avevano bisogno. Poi, quando avevano bisogno, e le società mi dimostravano – dai risultati – che il corridore era valido, io gli davo anche qualche licenza in più».

- Così li faceva anche partire con i tempi giusti, così che alle gare non arrivassero già cotti.

«No-no-no. Guardi, per le licenze di fine-settimana – perché loro tutte le settimane tornavano a casa per andare a correre –, proprio per evitargli lunghi trasferimenti e via dicendo, io li facevo uscire il venerdì a mezzogiorno e li facevo rientrare il lunedì a mezzogiorno. Di modo che la domenica, dopo aver gareggiato – chi andava in Toscana, chi andava di qua, chi andava di là –, tornavano a casa loro, si sistemavano e il lunedì mattina prendevano il treno e rientravano in caserma. Quindi da questo lato sono stati molto privilegiati. E si allenavano tutti i giorni. Le dirò di più: c’è stato un periodo in cui c’erano anche le gare al martedì…».

- E lì come facevano?

«Li mandavo il martedì mattina a correre». 

- E per l’alimentazione, la preparazione e tutto il resto?

«Noi eravamo una caserma normale, dove c’erano altri ottocento bersaglieri. La Compagnia Atleti era nella stessa caserma, ma in una palazzina a parte, dove c’erano solo loro. E in quella palazzina io avevo creato anche la cucina. Loro non mangiavano insieme agli altri. Io, sempre tramite la federazione e lo stato maggiore, tra i vari personaggi che mi mandavano, avevo anche dei cuochi e dei meccanici ciclisti».

- Eravate come una squadra, a tutti gli effetti.

«Allora: i nostri cuochi, la mattina, che cosa facevano? Due cuochi avevamo noi la mattina. Quando i ragazzi uscivano per andare ad allenarsi – premetto che, prima che uscissero, io pretendevo che facessero le pulizie in camerata…».

- Come i loro commilitoni?

«Certo. Dovevano farsi le loro pulizie. C’era uno schemino: oggi tizio, caio e sempronio fanno il corridoio, quell’altro i bagni, quell’altro la cucina. A rotazione. Quando avevano finito – e avevano premura quindi le facevano bene – alle nove uscivano e fino alle due, due e mezzo, erano fuori. Poi tornavano. I cuochi intanto, la mattina, erano andati a mensa-truppa a prelevare i viveri a crudo, non cotti a mezzogiorno, quando gli altri soldati mangiavano. E quindi quando loro arrivavano, si trovavano un rancio semplicissimo eh – pasta al burro o al pomodoro, bistecca ai ferri e insalata, verdure cotte e frutta. Quello che serviva a un ciclista normale. Quindi arrivavano, si facevano la doccia, andavano in cucina, e il cuoco gli faceva da mangiare subito, al volo: piatto di pasta, bistecca, insalata, frutta e via dicendo, Quindi da questo punto di vista erano dei privilegiati. Certo, non era come… Si dovevano un attimo anche adattare. Poi, la sera, la maggior parte di loro non mangiava in caserma perché lì si cenava alle sei. Quindi, se uno aveva già mangiato alle due-due e mezzo, non andava a mensa alle sei a mangiare. Allora ecco che subentrava questo Luciano Stìpiti, che aveva la trattoria lì vicino alla caserma, dove loro poi alle otto, alle nove, andavano a mangiare. Con questo mi voglio legare a che cosa, tornando a Roberto? La bontà d’animo di Roberto, perché lui non ha mai detto niente, non s’è mai fatto vedere sborone, perché lui è ricco di famiglia, eh».

- Infatti volevo chiederle come era visto Visentini dai commilitoni?

«Adesso ci arriviamo, arriviamo anche a quello. Siccome il papà aveva le pompe funebri, quindi a quei tempi era uno dei ricchi di Brescia e dintorni, più di qualche volta i suoi colleghi ciclisti m’hanno detto che quando lui andava – non sempre, perché lui era un po’ introverso, un po’ schivo –coi suoi colleghi ciclisti a mangiare – pagava lui la cena. Questo me l’hanno detto i ragazzi, non lui eh: attenzione. Non me l’ha detto lui, me l’hanno detto i ragazzi. Sai, capitano, siamo andati a mangiare ieri, c’era anche Visentini – perché Visentini, a quei tempi là, campione del mondo… non è che ce n’erano tanti di campioni del mondo –. Dice: sai, c’ha offerto Visentini la cena, ieri sera ha pagato lui. Ecco, allora io facevo due più due e dicevo: sì è introverso e però è un buono. Era un buono. Ingenuo. Un buono-ingenuo, diciamo. Forse qualcuno se ne sarà anche approfittato».

- Senza forse. Anche per le etichette che poi gli hanno appiccicato: uno più smaliziato magari si sarebbe saputo difendere. Questo vale anche per Gibì Baronchelli.

«Anche Gianbattista, sì-sì, ma siccome aveva con lui il fratello più grande, Gaetano, allora era un pochino più coperto. Roberto non aveva nessuno, era solo un po’ protetto dalla Carrera. C’era lì Boifava ai tempi. E conoscendo il ragazzo lo teneva poi un po’ sotto controllo. Ecco, le racconto un aneddoto di Visentini. Questo lo racconto sempre a tutti, ma per dire anche l’ingenuità del ragazzo. I primi tempi, proprio i primi giorni, dopo il Car[il Centro di Addestramento Reclute, nda] arrivavano in Compagnia Atleti. Una sera mi sento bussare alla porta dell’ufficio e dico: chi è? 
“Sono Visentini”. 
Vieni, vieni. Accomodati. 
“Sa, volevo chiedere una cosa”. 
Dimmi, se posso aiutarti in qualche maniera. 
“Sa, siccome ho una macchina nuova fiammante, volevo chiederle se posso metterla in caserma”. 
Roberto, mi stai facendo una domanda da un milione di dollari [sorride]. Figurati, se dovessimo mettere in caserma le macchine di tutti i militari che arrivano… Ma che macchina hai? 
“Eh, sa, ho comprato una Fulvia Coupé HF…”. 
Guarda, ti do un consiglio, Roberto. Domani mattina, se la trovi, se la trovi ancora… - perché ne rubavano in viale Zani, in viale Sacca, sapendo che erano dei militari e nessuno le controllava; la notte tante volte gli rubavano la benzina, o quello che c’era dentro le macchine –, Roberto, ti do un consiglio da fratello maggiore. Domani mattina, fai una bella cosa, ti do un permesso. Te ne vai a casa con la macchina, la lasci lì e vieni con una Cinquecento, se ce l’hai. Dico: impossibile, una HF nuova di zecca, e tu me la lasci fuori dalla caserma due o tre notti. La prima notte passano, e la guardano. La seconda, eh. La terza, non la trovi più. Lui era arrivato, poverino, sai, ingenuo, diciannov’anni, papà gli aveva comprato l’HF…». [ride]

- Aneddoto meraviglioso: rende Roberto in tutti gli aspetti. L’ingenuità e il fatto che comunque fosse un privilegiato. Le chiedo di un altro aspetto caratteriale del Visenta. Se vedeva un’ingiustizia o qualcosa che lui ritenesse tale, lui saltava su subito. Le è capitato di assistere a episodi del genere? In Compagnia Atleti o in corsa qualche ingiustizia ci sarà stata…

«In corsa, non lo so. Ci saranno state delle ingiustizie, anche in Compagnia Atleti, o che ho commesso io, ingenuamente, e non me ne sono accorto. Però, la riverenza dei corridori nei confronti del comandante era tale da non venire a dire: comandante, ma… C’era anche un po’ di timore, un po’ di paura: se vado là a lamentarmi, può darsi che questo domani s’arrabbia e non mi fa uscire. Ha capito?».

- Lei com’era? Più di polso, come da prerogativa del ruolo, o più portato al dialogo?

«Diciamo che avendo fatto sport, sempre… Io ancora adesso vado in bicicletta».

- Fa ancora quindicimila mila chilometri l’anno?

«Sì, sì. Le faccio vedere. Io dal Garmin mi scarico [i dati] tutte le volte che vado a fare le gran fondo. Dall’inizio dell’anno ho l’agenda: chilometri, altitudine e tempo. Scrivo sempre tutto». 

- Quindi è ancora allenatissimo, in rapporto all’età.

«In rapporto all’età, stacco ancora i quarantenni. Non ho problemi a staccarli ancora, eh! Non voglio vantarmi, ma li stacco ancora i quarantenni… Io ogni anno faccio almeno tre, quattro gran fondo. Io sono del ’52, ho 65 anni». 

- Li porta molto bene, non glieli avrei mai dati.

«Da giovane ho giocato a calcio. Ho fatto gli Allievi con la Casertana, perché da giovane abitavo a Santa Maria Capua a Vetere. Poi, lo posso dire perché non c’è niente di cui vergognarsi, quell’anno mi hanno bocciato a scuola. Facevo il secondo da geometra, e siccome vedevo solo il pallone, sa, ’sti ragazzini a quindici anni…».

- Da ragazzino sognava di diventare calciatore professionista?

«Forse sì, se non era per mio padre, che m’ha richiamato subito a casa perché mi avevano bocciato… L’aveva detto: prima la scuola e dopo il calcio. Mio padre m’ha detto: torna a casa. A Caserta».

- E quanto dista?

«Da Santa Maria Capua a Vetere, saranno 7-8 chilometri».

- E quindi faceva avanti e indietro?

«Sì. Ha detto: prima la scuola. Poi, dopo un anno o due, ci siamo trasferiti a Roma. Lui lavorava al ministero ed è stato trasferito a Roma. E io ho continuato a giocare a calcio, ma a livello interregionale, giocavo col Torre Maura. Il mio allenatore era Vittorio Pavone, ex giocatore della Lazio [3 presenze in campionato nella stagione 1962-63, nda]. Ho giocato sempre a pallone, poi a vent’anni, dopo il diploma, m’ero iscritto ad architettura». 

- La testa ce l’aveva, mancava la voglia?

«Sì, sì, sì… [sorride] Perché non avevo tempo. Mio papà non è che mi seguisse tanto, a dir la verità. Lavorava già a Roma, quindi eravamo solo io e mio fratello con mia mamma. E la mamma, con due ragazzini piccoli… Poi ci siamo trasferiti a Roma e ho continuato a giocare a calcio fino a 19 anni. Però a 19 anni, facendo architettura a Roma – la facoltà di architettura a Roma aveva due sedi: Valle Giulia e Fontanella Borghese – erano gli anni (’66, ’67, ’68) in cui all’università iniziavano i casini, l’occupazione… Andavi là la mattina, picchetto davanti e non entravi. C’erano i comunisti, non ti facevano entrare. Poi, sai, architettura a Roma è un po’ destrorsa… Architettura a Roma è molto destrorsa. Non so perché. Forse gli insegnanti stessi…».

- C’erano scontri?

«Sì-sì-sì. Anche lì, in un anno riuscii a fare solo un esame. E questo mi ha precluso il rinvio del militare. Allora ho detto: papà, senti, non è colpa mia, mi dispiace. C’era ’sto militare di mezzo. Papà mi fa: no, il militare semplice non lo vai a fare, perché con tutti i sacrifici che abbiamo fatto… Vediamo almeno se riusciamo a farti fare il corso di allievi ufficiali. Faccio la domanda, le visite. Tutte a posto perché ero perfetto, preciso. Passo i test e mi prendono a Cesano, a fare l’allievo ufficiale di complemento. Parto per Cesano di Roma, dove c’è una scuola di allievi ufficiali. Dopo sei mesi di allievo, faccio il sottotenente di complemento. Però nell’arco dell’anno o vincevi il concorso o, dopo i quindici mesi, te ne andavi. Allora mi sono messo sotto a studiare, ho vinto il concorso subito, il primo anno, e son passato subito effettivo. I primi due anni li ho fatti al Primo Reggimento Bersaglieri di Civitavecchia, e lì, eravamo già nel ’74-75, essendo fisicamente a posto ho vinto il concorso e sono rimasto a fare l’ufficiale a Civitavecchia. Avendo già dei precedenti sportivi, mi hanno subito selezionato per la squadra di brigata – perché ogni brigata aveva le squadre per fare poi i campionati di brigata, di corpo d’armata e via dicendo –. Mi hanno selezionato per la squadra di pentathlon militare. Nel frattempo giocavo ancora a calcio ma non più per la squadra di Roma, perché non avevo tempo fra addestramento, picchetti… Perché poi l’ufficiale di picchetto va fuori a fare l’addestramento, i tiri…. Ogni caserma aveva però la sua squadra di calcio, e lì giocavo sempre».

- Col ciclismo ancora zero contatti.

«Col ciclismo non avevo niente a che fare a quei tempi. Poi a Roma la cultura del ciclismo non c’era proprio. Ho iniziato a fare le gare di pentathlon: tremila metri di corsa campestre, 50 metri stile libero a nuoto, percorso di guerra, lancio della bomba e tiro a tre posizioni (in piedi, in ginocchio e sdraiato). Il “percorso di guerra” sono 400 metri di ostacoli: arrampicata, a muro, e dovevi stare sotto i due minuti. Io stavo sull’1’58”. Lancio della bomba: c’era un plinto, in cemento, alto così; tu dovevi stare dietro a ’sto plinto, e c’erano quattro cerchi di cui due concentrici: uno a venti metri, uno a venticinque, uno a trenta e uno a trentacinque. Ogni cerchio ti dava dei punteggi. Quello da venti metri ti dava “sei” fuori e “sette” dentro, quello a venticinque ti dava “sette” fuori e “otto” dentro, poi “otto” fuori e “nove” dentro e così via. Dovevi fare il maggior numero di punti possibile e quindi ci voleva un braccio allenato. Andavamo in palestra a fare pesi. Andavamo coi sassi in mezzo ai campi per tirare più sassi possibile il più lontano possibile. Sembra facile, a venti, venticinque, trenta metri, ma è tanta roba. E poi con la bomba in mano…».

- Quanto pesava?

«Non è che pesasse tanto. Forse un etto, un etto e venti. Era la precisione. E poi alla fine c’era il tiro di potenza vero e proprio. In base a quanti metri facevi, ti davano i punteggi. Io arrivavo sui 47-48 metri. Intanto continuavo sia a giocare a calcio con la squadra della caserma, sia a fare altri sport. Il tiro a segno era in poligono: dieci colpi in piedi con la carabina 0.22. Dovevi tenere la posizione. Quello che contava era la respirazione. Non so se lei ha mai tirato…».

- No, io ho fatto l’obiettore di coscienza.

«Se lei fa il puntamento e poi respirando va su e giù… Dovevi guardare, star fermo, e il grillettino è super sensibile, poi in ginocchio e infine sdraiato. Lì ci divertivamo. Facevamo anche tanto addestramento. Poi i bersaglieri, sa, sempre di corsa, sempre di qua e di là…». 

- A un certo punto entra in scena la bici.

«La bici entra in scena quando? Quando da sottotenente divento tenente e c’è il trasferimento. Tenente, atleta. Da Cesano mi mandano a Milano a comandare questa Compagnia Atleti. Perché avevo dei precedenti da atleta, perché mica tutti potevano anda’ a comanda’la Compagnia Atleti... Mica tutti i tenenti e sottotenenti… C’era gente che [di sport] non aveva mai fatto niente».

- C’era concorrenza?

«Eccome se c’era, ma lì lo stabiliva lo stato maggiore. Lo stato maggiore guardava il tuo libretto e decideva: questo ha fatto questo e questo…».

- Il suo curriculum era inattaccabile. 

«Eh sì. Devo dir la verità, sì. Io ero sempre “eccellente”, chissà come mai. Non lo so». 

- La passione c’era, ma il trasferimento non le è stato imposto?

«No, il trasferimento è statoimposto. Io comunque stavo tanto bene a Civitavecchia». 

- Quindi non fu lei a fare la richiesta?

«No, io stavo così bene a Civitavecchia. Abitando a Roma, facevo il signore. Ero casa e bottega». 

- La vita è imprevedibile.

«È vero. Infatti, quando mi chiamarono, una settimana prima di Pasqua del 1977, mi chiama su il comandante, il mio capitano di compagnia, e mi fa: Senti, ti vuole su il comandante. E per andare dal comandante, una volta, dovevi essere accompagnato. C’era una disciplina ferrea. Per andare a parlare col comandante tu mica ti potevi presentare da solo. C’era il tuo comandante di compagnia che ti doveva accompagnare. Dico: “…e lei non m’accompagna?” Dice: “No, no. M’ha detto che poi anda’anche da solo”. Me so’preoccupato. La prima cosa che ho chiesto è: ma ho fatto qualcosa? Io, poi, ci tenevo. Ci tenevo perché volevo affermarmi. Volevo continuare perché mi piaceva. Dico: “Signor capitano, ma ho fatto qualcosa?”. Dice. “No-no, vai tranquillo, non ti preoccupare, non hai fatto niente”. Però, sai, nel tragitto dalla compagnia al comando di reggimento, che era al primo piano in un’altra palazzina, pensavi: chissà cosa ho combinato… Ho pensato addirittura: sarà morto qualcuno a casa e il capitano non m’ha voluto dire… Mai andavo a pensare... Il capitano non me l’ha voluto dire, sarà successo qualcosa a casa… Mica c’erano i cellulari, una volta. La sera, per telefonare a casa dovevi prendere un quintale di gettoni. Vado lì, c’è l’aiutante maggiore e dico: “Il signor capitano m’ha chiamato dal comandante…”. Dice: “Sì, aspetta un attimo e ti faccio entrare”. E lì continui, no, a pensare… Entro, sull’attenti perché c’era la bandiera, e prima, quando entri dal comandante prima devi salutare la bandiera di guerra del reggimento…».

- Che cosa intende con “bandiera di guerra”?

«Che ha fatto la guerra, la bandiera. La bandiera di guerra, medagliata: medaglia d’oro al valor militare. Quindi, prima davanti alla bandiera saluti, stai qualche secondo immobile, di rispetto, poi vai davanti al comandante, saluti il comandante, e lui fa: “Eh, accomodati, accomodati Angelo”. M’ha chiamato Angelo, questo, mi son detto io: è successo qualcosa veramente. Mi fa: Ti devo dare una brutta notizia… “Oh, porco zio”, dentro di me. Mi s’era gelato il sangue, m’è morto qualcuno a casa… Mi s’è gelato il sangue. Dice: “Guarda, è arrivato il tuo trasferimento alla Compagnia Atleti di Milano”. Porca puttana… A Milano?! Non pensavo alla Compagnia Atleti… In quel momento ti dicono Compagnia Atleti a Milano. Milano?! Porca puttana… Dico: ma che, ho fatto qualcosa di male, comandante? Dice: “No, ma guarda che per te è un privilegio, vai a comandare una Compagnia Atleti, non è da tutti… Vedrai che…”. Vabbè». 

- Non si poteva dire di no, vero?

«Nooo, ma non esiste proprio! Quelli so’ ordini. Un ordine va eseguito e basta. Tu puoi fare quello che ti pare. La mattina dopo, bagagli e burattini, tutto in macchina e salgo».

- Subito-subito?

«La mattina dopo. Dovevo partire per Milano». 

- Non aveva famiglia lì, una ragazza?

«Se avevo una ragazzina? Una?! Poi, a Civitavecchia, città di mare, il mare inizia a giugno e finisce a ottobre». [sorride] Noi come reggimento avevamo una spiaggia nostra privata. Come caserma eravamo a Civitavecchia però sul lungomare c’era il lido, che era una spiaggia privata militare, ed era la nostra. Quindi lei immagini quando chiudevano le scuole, da giugno a settembre, le figlie, le mogli dei militari, degli ufficiali, dei sottoufficiali, si riversavano tutte al mare tutti i giorni, perché… e che facevi? Stavamo bene. Lo stipendiuccio era buono, la macchina ce l’avevo. Mangiavo e dormivo in caserma, perché lì avevo la mia stanza, non c’erano costi e quindi lo stipendio era tutto pulito. A casa non dovevo dar niente perché a mio papà non interessava, quindi erano tutti soldi che potevo spendere in divertimenti». 

- Non dev’essere stato facile fare i bagagli così, all’improvviso, e cambiare vita.

«Faccio i bagagli e arrivo a Milano. Mi presento, e mi portano in Compagni Atleti, dove c’era già il comandante, Alfonso Bernardini. Perché io? Perché lui doveva essere trasferito a Roma. Ha fatto il percorso inverso. Sposato, due figli, aveva casa a Roma. Aveva chiesto il trasferimento per avvicinarsi alla famiglia di origine. Lei pensi la sfiga di quest’uomo. Va in pensione al suo paese, lui abitava vicino Tivoli, a Guidonia. Si dedicava al volontariato con la chiesa, stavano montando le luminarie sui pali della luce – la parrocchia doveva fare la processione – ed è caduto da tre-quattro metri. È morto. Una tragedia, appena andato in pensione». 

- Com’è stato l’impatto con la nuova realtà?

«Arrivo a Milano nell’aprile del ’77, era Pasqua. Mi trovo tutta un’altra mentalità. Arrivo in questa struttura nuova, per me era tutto una novità. Questi, in tuta dell’esercito, che loro indossavano solo la mattina, perché i primi tempi, quando ero affiancato, li vedevo all’alzabandiera la mattina, mentre gli altri…».

- Lei andava a comandare gente che aveva pochi anni meno di lei, che ne aveva, quanti?

«Ventitré-ventiquattro io, diciannove-venti loro. E sì, per forza. Infatti c’è stato questo connubio, buono forse anche per loro, eh». 

- Perché c’era più empatia, più affinità, no, nel dover obbedire a uno molto più anziano, che magari non ne avrebbe capito le esigenze, o il modo di pensare, di parlare, di comportarsi?

«Esatto. M’invitavano. Dopo ci siamo un po’ conosciuti, abbiamo preso confidenza. Qualche domenica m’invitavano a vedere le loro gare. Capitano, perché non viene a vedere la nostra gara poi casomai rimane a pranzo con noi, con la società. Qualche volta sono anche andato. Non è mica da vergognarsi. Qualcuno ha cercato pure di portarmi a casa sua a pranzo, ma senza secondi fini. Così, forse anche per bontà, forse perché mi vedevano lì da solo. Perché poi, i primi tempi, ora che ti giri intorno, passano i mesi ora che cominci a capire dove sei arrivato. Poi la mentalità del milanese non è la mentalità di giù. Giù si fa subito comunella. L’amicizia si crea subito. Qui è sempre un po’…».

- Ognuno sulle sue.

«Mooolto sulle sue. Prima di entrare nel giro, è passato anche diverso tempo. E quindi mi sono trovato in questa realtà completamente diversa, di una mentalità completamente diversa. Perché io ho la mentalità del militare, no? I miei uomini, il mio plotone. Quando ero tenente lì, era quella: inquadrato la mattina, alzabandiera, bum-bum-bum! Poi, chi doveva fare le pulizie faceva le pulizie, chi doveva andare a fare i tiri andava a fare i tiri, chi doveva fare addestramento… sempre contrappello la sera, appello la mattina a mezzogiorno, alle due adunata. Qui, no. Qui, quando avevi fatto l’appello la mattina, poi questi uscivano, tornavano chi all’una, chi alle due, chi alle tre, non li vedevi più fino alle due, alle tre di pomeriggio. Poi, quando uno mi ritornava da 100-120 chilometri di allenamento, cosa gli fai fare? Qualche volta li mettevo in aula, perché avevamo un’auletta nostra, a fare due, ma proprio due chiacchierate sull’ordinamento, giusto per non farli stancare. Devo dire che mi son messo anche tante volte contro i miei superiori, che pretendevano che io il pomeriggio li facessi marciare come gli altri militari. No. È inutile che io li mandi la mattina a correre 120 chilometri e poi gli faccia mettere gli anfibi, e gli vengono le vesciche ai piedi».

- Questo i suoi superiori non lo capivano?

«Eh, qualcuno no. Qualche cretino. Ci sono sempre i cretini, in tutti gli ambienti. E allora ho dovuto anche litigare». 

- E così i suoi uomini…

«Mi apprezzavano. Infatti, se lei va su facebook, mi ricordano sempre, mi salutano sempre, mettono le fotografie di quei tempi: questa è dedicata all’allora tenente Giacomino. M’invitano ai raduni. Mi chiamano alle cene».

- E lei ci va?

«Qualche volta sì, se non è lontano. L’anno scorso sono andato a Vigevano, dove hanno fatto un ritorno di tutti quelli dei Settanta-Ottanta. Sono andato con mia moglie. Feste di qua, di là, tutti a ricordare le cazzate che avevano fatto. Loro pensavano che io non le sapessi. Io ho fatto finta: ah, mannaggia, questa qua m’è sfuggita. Mannaggia. Tanto a me non mi fregava nessuno. Anche perché, se li dovevo coprire, dovevo sapere cosadovevo coprire. Non sapevo che poi qualcuno la notte rientrava alle undici, scavalcava il muro didietro perché aveva la fidanzatina là? [ridacchia] Sapevo tutto, io. Sapevo tutto. Sapevo chi si rubava le ruote. Tra di loro. Una volta non c’erano i copertoncini. C’erano i palmer. Se uno forava, a quei tempi un palmer costava già venti-trentamila lire, e che faceva? La mattina si alzava prima, andava in magazzino di picchetto, trun-trun-trun, e si fregava… Loro pensavano che io non sapessi chi s’era fregato il palmer di quello, il palmer di quell’altro…».

- Di Roberto ricorda qualcos’altro in particolare?

«No, Roberto era un tranquillo, tutto sommato».

- Lei aveva capito subito che Visentini era fatto di un’altra pasta rispetto agli altri?

«Posso dirle una cosa? Che forse è quello che mi ha avvantaggiato in tutta la carriera militare – perché, non tutti arriviamo a generale, attenzione, eh – Io ho colleghi che hanno fatto scuole di guerra, hanno fatto gli ufficiali addetti, in Germania, ma che son rimasti colonnelli eh…». 

- Per via del carattere?

«Il carattere. Oppure le “note caratteristiche” durante gli anni. Perché per noi, alla fine dell’anno, c’è un giudizio, sul libretto, del tuo comandante superiore. E ti dice: sì, quest’anno ha fatto questo, questo e questo. Non ha preso punizioni, non ha fatto niente di… e quindi lo giudico “eccellente”. Ma se tu già hai preso uno o due “superiore alla media”, tu non passi più generale».

- Lei mi ha detto che a un certo punto nella sua carriera entra in gioco la bici. Come è entrata in gioco?

«Entra in gioco quando arrivo a Milano e mi trovo questa realtà nuova. E comincio a capire ’sta bicicletta. Comincio ad appassionarmi alla bicicletta. Me ne compro una. E comincio a uscire anch’io in bicicletta».

- Da corsa se l’è comprata?

«Da corsa, certo. E comincio anch’io a uscire in bicicletta. Alterno il pallone in caserma con la bicicletta fuori. E vedo che mi rende». 

- Tanti invece sostengono che nelle due discipline, calcio e ciclismo, lavorino muscoli antagonisti.

«Non è vero. Anche perché tu il muscolo, se corri a piedi e vai in bicicletta, “acquisisci” l’uno e l’altro. Poi, ecco, ci siamo dimenticati che nel mese di novembre, a chiusura delle corse, perché a ottobre le corse finivano con il campionato d’inverno, iniziava il tredicesimo mese: il mese di addestramento. E lì allora via la bicicletta, via la tuta. Anfibi, e incominciamo a fare “uno-due!”, “uno-due!”. Andiamo in poligono, facciamo i tiri, andiamo a Cascina Pelato, a Biella, dove c’è un grosso campo d’addestramento. Noi partivamo la mattina coi pullman, coi camion, andavamo lì a Biella a fare tiri a fuoco, lancio di bombe a mano e si concludeva col plotone a fuoco. Mettevamo delle sagome a 1000-1500 metri e poi si facevano quegli sbalzi – non so se ha visto qualche film – di avvicinamento. Allora: c’era questo plotone di dieci–dieci-dieci. Un plotone di trenta con due mitragliatrici ai lati e davanti tutti i fucilieri coi loro comandanti. S’alzava una squadra e i comandanti – prima io che ero il comandante di plotone, facevo i segni, uno-due, tre-quattro, a seconda del pugno chiuso, giù –, i comandanti di squadra che son stati addestrati da me, quando vedevano il mio segno, uno: la prima squadra, venti metri e giù a terra, e intanto [il plotone] veniva coperto dalle mitragliatrici che sparavano alle sagome. Quando la mitragliatrice iniziava a sparare, io facevo “uno”, venti metri giù; “due”, quella si fermava. È tutto un addestramento, mica facile da fare, eh. E in quel mese facevamo l’addestramento militare vero e proprio. Infatti, i gregari più alti, i passistoni, quelli di 1,90 – Bruno Leali, Guido Bontempi, Paolo Rosola, Eros Poli – quella gente lì, erano quelli che portavano la mitragliatrice».

E il Visenta, col suo metro e settantadue, invece che cosa faceva?

«Visentini era fuciliere. Fuciliere assaltatore. Il bello è che poi c’era anche il giorno che stavi in caserma perché non avevi il poligono disponibile. E allora si organizzavano anche partite di calcio. Questi erano bravi anche a giocare calcio, eh». 

- Tanti corridori hanno cominciato col calcio prima del ciclismo. Chiappucci…

«Infatti: Claudio era uno di quelli che giocavano a calcio. Perché anche lui ho avuto io, eh. E siccome in caserma avevamo un bel campo sportivo, un campo di calcio, facevamo le partite. E ci divertivamo anche così».

Commenti

  1. Ma si tratta della stessa compagnia atleti che frequentai
    nel lontano '87 ?????

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