Mauro Vegni: «Non chiamatemi patron»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Toscano atipico, Vegni. Senese di Cetona, classe 1959, antipersonaggio per vocazione più che per scelta. Quella casomai è per l’understatement, profilo basso e competenza alta. Un tecnico, nella migliore accezione. La vetrina quasi la subisce. Non vi si sottrae, perché al ruolo compete, ma non la cerca. Lo aspetto, e lo colgo a guardia abbassata, al ritiro accrediti alla vigilia di una storica Sanremo. Quella vinta da Vincenzo Nibali. Mauro Vegni è dal 2012 direttore Rcs Corse. L'umanità e le buone maniere, quelle son sempre state sue. E qui l'essere corporate non c'entra. Anzi. 

Fabbrica del Vapore
Milano, venerdì 16 marzo 2018

- Mauro Vegni, un fardello pesante ma gratificante, quel fil rouge della tradizione: Torriani, Castellano, fino a lei. 

«Ma sì, anche se ognuno di noi con le sue specifiche particolarità. Mi fa piacere l’accostamento a Torriani, però lui rimane il Patron, tanto è vero che io non ho mai voluto questa investitura. Io credo di fare bene il mio lavoro, avendo con me un gruppo, organizzandolo, per cercare di fare al meglio. Le genialità di Vincenzo rimangono nella storia. Noi, vedremo».

- Quella era un’Italia molto diversa: lui alzava il telefono e parlava in linea diretta coi ministri. Oggi sarebbe improponibile fare una crono su un ponte di barche in piazza San Marco a Venezia. È un altro mondo, non soltanto un altro ciclismo.

«Non è tanto l’alzare il telefono e parlare coi ministri perché comunque il Giro d’Italia ha una sua forza intrinseca e consentirebbe anche questo. È che è cambiato il paese. E quindi mentre prima si faceva tutto molto, come dire, in maniera amicale e quant’altro, oggi con le leggi, con la rigorosità nel rispettarle, resta tutto più complicato. Il vero problema è questo. Poi, il ponte di barche: oggi forse lo potremmo fare anche meglio, volendo. Tutto sta a capire, nel disegno di un Giro, che filosofia c’è dietro».

- Lei è sempre attento anche alle ricorrenze. Nel 2017 si è passati a Sappada trent’anni dopo la storica tappa di Roche e Visentini. Nel 2018 si torna a Cima Sappada e come nel 1987 è arrivo di tappa. C’è una sensibilità particolare per questo tipo di storia, e di storie, del ciclismo?

«Sì. Il Giro è attento agli anniversari del nostro paese. Perché il Giro non è più solo l’evento sportivo. Il Giro è una parte della storia del nostro paese. Il Giro è degli italiani, per cui è anche giusto porre all’attenzione situazioni particolari che il nostro paese, nel bene e nel male, ha vissuto. E credo anche che il Giro, in questo, rappresenti anche la memoria storia del nostro paese».

- È cresciuta molto anche la sicurezza. Pensiamo a quanto successe trentun anni fa, la rivalità fra Roche e Visentini per il famoso, presunto tradimento. Quanto è cresciuta l’organizzazione del Giro per quanto riguarda la sicurezza dei corridori?

«Parliamo proprio di un altro mondo. Oggi il tema sicurezza è talmente forte, in tutte le aziende prima che nello sport, che parlare di sicurezza in un evento che è itinerante, sulle strade, è obbligatorio. E non può prescindere appunto dalla sicurezza. Sicurezza in corsa, quindi. Anche qui, la parte di volontariato che tanto ha aiutato il ciclismo negli anni, oggi è sempre meno possibile, perché si cercano sempre di più figure professionali. Figure che siano all’altezza delle varie situazioni. E in più poi c’è il tema della sicurezza di carattere generale, per cui un occhio di attenzione va posto a tutte le situazioni».

- Oggi una Sappada, con l’attacco di un compagno alla maglia rosa, sarebbe possibile in questo Giro? E soprattutto: “aiuterebbe” il Giro?

«Il ciclismo è cambiato. Oggi è molto più équipe, è molto più di squadra. Oggi i compensi sono più commisurati al ruolo di ogni atleta, per cui ci sono atleti che fanno delle scelte, proprio professionali, legate all’ambito del loro ruolo in una squadra. Ci sono gregari che avrebbero anche le capacità per fare magari i capitani in altre squadre ma che hanno fatto una scelta: bene, io mi accontento di questo, ho un mio ruolo, un mio ritorno economico adeguato. Bene. Una volta era molto più "necessario" cercare di vincere, cercare di essere protagonisti, perché con quello cambiava anche la natura economica dei contratti».

- Per chiudere il cerchio: lei prima parlava di patron. Forse non è più il tempo dei patron. Per eventi di questo tipo serve un maurovegni. Una figura tecnica, del mestiere, e magari meno carismatica nel senso dell’uomo forte da solo al comando.

«Sì, oggi una figura come quella di Vincenzo non avrebbe motivo d’essere. Al ciclismo di allora era funzionale. In più, le sue doti. Queste non gli vanno negate. Oggi è un lavoro di squadra. Non solo di squadra intesa come Rcs, ma di tutto il gruppo che viaggia. Quindi ci deve essere condivisione di obiettivi, condivisione di scelte. E il mio ruolo resta un po’ quello di coordinatore, di controllore, di queste istanze. Oggi una figura-patron non esiste ed è il motivo per il quale ho deciso che nessuno mi deve chiamare patron [sorride]».

- E qual è il sogno ancora inappagato del non-patron Vegni?

«Nel 2018, con la partenza da Israele, un tassellino importante nella storia del ciclismo siamo riusciti a metterlo. Poi qualche ideuzza per il futuro c’è ma me la riservo ancora».

- Lo sa che queste sono delle torrianate, sì? O se preferisce, delle vegniate.

«Eh, lo so. Vabbè, diciamo che comunque sono il sale del ciclismo».

Vegni, vidi, vinsi.

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