Marco Pastonesi, il cantore dei gregari



di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Ventitré anni in Gazzetta ad arabescare di rugby e ciclismo.

Penna finissima, Marco Pastonesi è più che un maestro. Studi classici, una laurea in giurisprudenza lasciata per fare tanto marciapiede, la gavetta del suo vero mestiere: «Papà, ti ringrazio per avermi appoggiato in questo percorso ma non è la mia strada». Di lì, forse – o meglio, anche – una sensibilità unica nel pescare e raccontare le storie degli umili, dei dimenticati, dei non campioni. 

Genovese, classe ’54, un passato da rugbista in Serie A, ha seguito da inviato quattro Coppe del mondo e diciotto Sei Nazioni di rugby, un’Olimpiade, quindici Giri d’Italia, dieci Tour de France, quattro Giri del Ruanda e uno del Burkina Faso. Lo incontro al termine della presentazione, da lui moderata, di Dodici secondi, l’autobiografia di Gianbattista Baronchelli che a Pastonesi deve il titolo e la prefazione.

Biblioteca Civica “Monsignor Enrico Galbiati”
Verano Brianza (Monza-Brianza), venerdì 16 marzo 2018

- Marco Pastonesi, tu sei il cantore dei gregari. E quindi della devozione, della fedeltà per il proprio capitano. Se invece ti dico Sappada ’87, che cosa ti viene in mente?

«Roche e Visentini. Fu il grande tradimento patito da Visentini, che vide il suo compagno di squdara attaccare e staccarlo, poi non si sentì protetto, non si sentì custodito e quell’episodio cambiò la sua vita. Da allora quel senso del tradimento gli è rimasto talmente dentro che lui si è staccato dal mondo del ciclismo e ha vissuto il ciclismo, i corridori, i giornalisti, insomma tutto l’ambiente, tutto il mondo della bicicletta, come ostile nei suoi confronti. Però è un po’ questo senso della rivalità, a volte anche all’interno della propria squadra, è innato nel ciclismo, che è uno sport stranamente individuale e allo stesso tempo di squadra. Quindi si creano e si consumano delle lotte, a volte, fratricide. Quando Maurizio Fondriest visse il campionato del mondo [a Renaix ’88, nda], Gianni Bugno che era suo compagno di squadra patì così tanto quella vittoria del compagno, e quella sconfitta sua, che tornò a casa n macchina Milletrecento chilometri per tornare a casa in macchina, evitando la compagnia del suo compagno di squadra».

- Mi fai tornare in mente Claudio Chiappucci che non partecipò al tuffo in piscina in hotel dopo il secondo trionfo mondiale di Bugno, a Benidorm ’92. 

«Sì è tutto un… non fingere, o forse agli occhi dell’opinione pubblica sì, ma tenere un decoro e poi vivere la vittoria degli altri come una propria sconfitta. Infatti, il grande merito dei commissari tecnici in una nazionale, e forse anche dei direttori sportivi in una squadra, è proprio quello di riuscire a creare un’armonia, uno spirito di solidarietà, e di comunità che invece non c’è. Ecco l’Italia ultimamente, per quanto abbia pochi risultati, sembra una squadra. Ci sono altre nazionali più forti delle nostre, come la Spagna e il Belgio, dove continuano a farsi la guerra».

- Di Eddy Schepers, gregario fedelissimo di Roche, che se lo portava dietro ai circuiti e l‘anno dopo dalla Carrera alla Fagor, che ricordo hai?

«Un ricordo di un gregario unito al suo capitano. E questa è una cosa che succedeva più spesso una volta che non adesso. C’erano i gregari che seguivano i loro capitani in tutta la carriera. Penso a Marco Zen con Fondriest. Penso agli anni eroici dove c’erano Sandrino Carrera e Ettore Milano con Fausto Coppi. O Giovannino Corrieri con Gino Bartali. C’erano queste piccole comunità che si spostavano di squadra in squadra. E oggi è molto meno facile».

- Una “comunità” che in quella Carrera era una squadra nella squadra, il cosiddetto Team Roche: l’irlandese Stephen, il belga Schepers e il meccanico francese Valcke che Roche si era portato dalla Peugeot. Un nucleo straniero in una squadra in cui lo zoccolo duro era invece di bresciani, compreso il diesse Boifava. Che ricordi ella figura di Boifava in quella Carrera, in quel ciclismo?

«Davide Boifava è un grande personaggio del ciclismo, prima da corridore poi da direttore sportivo. Mi sembra che abbia sempre cercato di navigare in una specie di mare mosso, mare agitato, cercando di trovare le soluzioni., Boifava era anche con Pantani. E quelle sono pagine dolorose. Per il ciclismo e anche per la vita, oltre lo sport. E non devono essere stati momenti facili».

- Un Pastonesi che cominciasse oggi il mestiere, di questo ciclismo s’innamorerebbe?

«Credo di sì, perché i giornalisti che erano venuti prima di noi si erano innamorati allora a maggior ragione e più facilmente di un mondo ancora più “bello”, ancora più eroico. C’è sempre una sorta di nostalgia del passato, ma forse è solo la nostalgia della nostra giovinezza, delle nostre emozioni, che erano più forti, che erano meno frenate. Io quindi credo di sì. Oggi chi non s’innamora di Peter Sagan? Sagan è un campione straordinario. Fra cinquant’anni parleremo di Sagan, come oggi si parla di Merckx, o come oggi si parla di Coppi. Qualsiasi gregario, qualsiasi corridore ha una bellissima storia, da raccontare, che è la sua. E queste storie saranno belle anche fra cinquant’anni. Sempre».

- Tu e Claudio Gregori siete forse gli ultimi aedi, degni dei grandi cantori del ciclismo del passato. Non c’è stato un buco generazionale per come il ciclismo è stato raccontato in questi ultimi anni?

«No, c’è stato un cambiamento nei mezzi. E ovviamente del linguaggio. Prima il ciclismo si “vedeva” solo sulla strada e poi si sentiva o si “vedeva” alla radio. Poi alla televisione. Oggi c’è internet. La gente non è più disposta, non è più abituata ad andare sulla strada. Però c’è chi ci va, ancora. E ci sono corse che si “vedono” sulla strada, anche solo per un attimo, anche solo per una salita, anche solo per uno schizzo di pozzanghera o di fango. Penso alla Strade Bianche, una corsa così antica da essere assolutamente all’avanguardia. No, io non credo che sia diverso il modo di vivere il ciclismo. È diverso il modo in cui ci esprimiamo. Però, quelle emozioni lì, sono eterne». 

- Nel tuo cuore oltre al rugby e ai gregari c’è anche la figura, forse anche un po’ poetica, di un Visentini, di un Baronchelli, di un Contini, come una sorta di “terzo polo”, un contropotere alternativo agli “sceriffi” del gruppo. Perché?

«Noi siamo sempre in attesa di vedere, di scoprire dei nuovi corridori, dei carneadi, dei ragazzi che un giorno nella vita sono i migliori di tutti. E quindi sotto sotto, in fondo in fondo, noi teniamo a loro».

- E il tuo Jonah Lomu su due ruote?

«Fabian Cancellara a volte sembrava Lomu. E oggi Sagan sembra, a volte, Lomu. A volte lo sembra Marcel Kittel, no?, nelle volate. Lomu era un trequarti-ala, quindi era un velocista, era un uomo di 1,96 x 119 kg, che correva i cento metri in 10.9”, quindi dei tre che ho citato è Kittel, anche se Kittel, dei tre, è quello che preferisco meno».

- In questa storia di Sappada la parte del cattivo è toccata a Roche, ma non siamo stati noi a dipingerlo così?

«Ovviamente. La storia bisogna guardarla da diversi punti di vista. La verità non esiste. Roche è irlandese. Noi abbiamo cercato di italianizzarlo, chiamandolo Stefanello, lui ha imparato l’italiano, in fondo lo abbiamo anche amato, Roche. Certo, fa parte anche di un periodo un po’ oscuro del ciclismo. Il popolo del ciclismo ama tutti i corridori. È difficile, se non nei casi, di certi dualismi – Moser-Saronni e, lo scopriamo adesso, Moser-Baronchelli – ecco ma solo in quei casi, forse forse, si tifava contro, ma altrimenti il popolo del ciclismo ama tutti. E basta frequentare il fondo di una corsa quanto siano amati gli ultimi, cioè i più fragili, i più deboli, i più "umani"».

- Per te quindi fu tradimento. E tu da che parte stai?

«Dalla parte di Visentini».

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