Giovanni Bruno: Sappada una fiction diventata realtà


di CHRISTIAN GIORDANO
IN ESCLUSIVA PER RAINBOW SPORTS BOOKS

Giovanni Bruno è un innamorato dello sport. Classe 1956, nel giornalismo ha iniziato a fine anni Settanta nelle riviste Mare 2000 e Yachting italiano. Nel 1982 è in RAI per i tg e l’avventura di Azzurra nella Coppa America di vela. Dal 1988 cura per TeleCapodistria le trasmissioni Sportime e Obiettivo sci. Dal 1991 a Italia 1 fa nascere il notiziario Studio Sport ed è capostruttura Fininvest al Giro d'Italia, per la prima volta non trasmesso dalla RAI. Nel 1997 torna all’emittente di Stato come vicedirettore di Rai Sport, nominato dall'allora direttore Fabrizio Maffei; dal 1999 ne diventa direttore. Nel 2003 è alla direzione di Sky Sport, di cui dal 2007 è il responsabile Eventi speciali. Dal 2013 è di nuovo direttore di Sky Sport, dal 9 marzo 2016 affianca Massimo Corcione come condirettore Eventi Altri Sport, incarico confermato dal successivo direttore Federico Ferri.
Lo incontro nel suo ufficio alla fine di una lunga domenica di sport, quindi di lavoro e - soprattutto - di piacere. Per una mezzoretta buona, lui dimentica di essere il mio direttore e io un suo redattore-inviato. E per quella mezzora siamo solo due colleghi che parlano di ciclismo. Colleghi che più diversi non si può epperò entrambi innamorati del nostro mestiere, del ciclismo, del proprio modo di viverli e di raccontarlo.

Redazione di Sky Sport
Rogoredo (Milano), domenica 14 gennaio 2018

- Giovanni Bruno, il Giro '87 l'hai seguito anche se non da inviato. Se ti dico Sappada, che cosa ti viene in mente?

«Scioccamente, la montagna. E in montagna avvengono situazioni particolari, in tanti sport. Nel ciclismo, nello sci nordico o in altre discipline c’è un gioco di squadra. E invece in quell'occasione nel ciclismo non c’è stato. Quando parli di montagna, la si affronta quasi sempre “in solitario”, perché il ciclismo vuole l’eroe solitario. Quando poi magari non riesci a gestire una situazione “di squadra”.
Di Sappada ’87 ho un ricordo molto forte perché, te lo dico subito, io ho sempre tifato per Stephen Roche. Mi piaceva l’idea di avere dei corridori anglosassoni nel ciclismo. Era una cosa rara. Se chiudo gli occhi e torno un attimo indietro, sì, certo, c’era Andrew Hampsten, ma era quasi coetaneo di Roche [Hampsten è del '62, Roche del '59, nda]. Ma prima ancora, le immagini sono sbiadite: vai a Tommy Simpson, e quindi la prima cosa che ti viene in mente è la sua morte sul Mont Ventoux. Oppure, altre immagini sbiadite, lui in maglia bianca a scacchi [della Peugeot] contro Felice Gimondi. Quindi, vedere un personaggio irlandese - che poi, casualmente, in quegli anni ce n’erano ben due d’irlandesi, molto forti, lui e Sean Kelly -, non so, ce l’avevo dentro di me il tifo. Visentini era un corridore anomalo. Era uno che sapeva parlare. Aveva un certo grado d’istruzione. Alle spalle aveva una famiglia ricca, di conseguenza era corridore non per fame ma per divertimento puro. Però c’era quest’antitesi: mi divertiva vedere un corridore come Roche e anche uno come Visentini. Come tipo di corridore mi piaceva molto di più Roche, lo ritenevo dotato di più classe, rispetto a Visentini».

- Parlavi di maglia bianca a scacchi neri della Peugeot. Roche vi era passato professionista dopo essersi trasferito in Francia da dilettante alla ACBB, società-satellite di consolidata tradizione di corridori anglofoni, la cosiddetta “Legione straniera”: prima Simpson poi, negli ’80, gli inglesi Graham Jones e Sean Yates, gli australiani Phil Anderson e Allan Peiper, lo scozzese Robert Millar e altri. Tutti poi passati professionisti alla Peugeot. A differenza di Roche, però, Visentini aveva le stimmate del predestinato.

«Sì, ma provenendo da una famiglia molto agiata, vivendo già quasi "da capitano", si è seduto sugli allori. Se ne ripercorro la carriera, non ha vinto tanto. È stato una specie di grande fulmine. Certo, ha portato a casa un Giro d’Italia. Però, dopo… Era uno che faceva “poca” fatica. Ha avuto al suo servizio una squadra fortissima, mentre Roche, per assurdo, al di là della vittoria nel Giro d’Italia, di fatica ne ha fatta tanta per vincere il Tour de France. È indimenticabile il suo arrivo, stravolto, distrutto, mentre cercava di conquistare quella caspita di maglia gialla. E lì vedi quel ciclismo che piace un po’ a tutti. Non il crollo, o l’abbandono, ma la tenuta a tutti i costi.
Su Sappada ’87, là ci fu un gioco in un’altra maniera. Roche in quel momento si sentiva molto più forte di Visentini. Se li paragoniamo al ciclismo attuale, basti pensare a Wiggins e Froome al Tour 2012, quando Froome attaccò Wiggins e poi si fermò. Ma lì c’era un atro concetto: c’era la forza del direttore sportivo Dave Brailsford che bloccò ogni velleità di Froome di attaccare, come ha bloccato Mikel Landa nell’attaccare Froome al Tour 2017. È successo anche in altre squadre: il capitano non ce la fa, oppure sta andando molto bene e tu vai meglio del tuo capitano».

- Come valuti quindi il Boifava di allora rispetto al Brailsford di venticinque-trent’anni dopo?

«Boifava forse non ha saputo gestire la cosa. Gli faceva comodo, fondamentalmente, un dualismo Carrera. Perché a quel punto la squadra andava talmente forte che dici: sì, ma facciamo andare ancora meglio tutto se poi il giochino… Lui voleva che vincesse Visentini, ovviamente. Per il concetto dell’italianità, perché era bresciano come lui, perché andava per la doppietta, quindi c’erano tante cose positive. Gli è scappata di mano una situazione gestita da stranieri. Pronti-via è partito Roche in quella famosa discesa e poi, sulla salita, alla fine è riuscito a portar via la maglia a Visentini, che andò in crisi totale di rabbia, di nervi, cercando di gestire la squadra dall’interno, mandando Chiappucci a recuperare tizio o caio. Era ormai in preda a una crisi mostruosa. Se uno si va a risentire la cronaca di quella giornata, neppure il cronista sapeva più come aiutare Visentini. Roche era una specie di fulmine. Era forte, fortissimo, ma non si pensava fosse così forte, in quella maniera. Fu anche accusato di essere cattivo, però a guardarlo tagliare il traguardo, e vedere che il distacco aumentava, con quel suo faccione – perché aveva questa caratteristica, un faccione, non era spigoloso come tanti ciclisti più magri, aveva un fisichetto un po’ tracagnottello – mi faceva quasi ridere».

- Nel ciclismo degli SRM, delle radioline, una Sappada sarebbe possibile? E come verrebbe gestita?

«Sappada sarebbe impossibile, sotto tutti i punti di vista. Perché esistono le radioline, esistono ruoli ben definiti nelle squadre. Esistono più direttori sportivi, lì c’erano solo Boifava e Quintarelli. Oggi ce ne sono tantissimi. In ogni formazione c’è una gestione molto più “moderna”. Sbaglio a dire “professionale”, però mi aiuta a spiegare che una gestione professionale non è più inquadrata esclusivamente su “OK, ragazzi, cercate di attaccare là”. C’è proprio, metro per metro, che cosa devono fare. C’è una pianificazione capillare per tutta la tappa: si sa che tizio deve tirare a quel punto, che caio deve tirare a quel punto, che quell’altro deve controllare quella cosa, quell’altro va a prendere le borracce. In certi tipi di gare mi sono intristito nel vedere Gianni Bugno, gli ultimi anni di carriera, quando indossava la maglia Polti, andare a raccattare le borracce per darle ai compagni. Non si era mai visto. Non me lo potrò mai dimenticare. Non potrebbe mai avvenire che a un certo punto, anche se staccato, un Wiggins o un Froome vada a recuperare le borracce per i compagni: rimane sempre il capitano. Non sarebbe mai successo».

- Alcuni giornalisti britannici sostengono che al Team Sky il plan, il piano, è sacro. Forse l’unico vero limite di questo squadrone è una situazione proprio "alla Sappada", cioè quando qualcosa va storto, o c’è un imprevisto, e il piano salta. È per questo che corridori forse meno irreggimentabili, come Mark Cavendish, Dario Cataldo o Mikel Landa Meana, hanno faticato nel Team Sky, e poi se ne sono andati? E un Roche, oggi, nel Team Sky potrebbe starci?

«Hanno provato ad averlo un Roche, ed era quello che non andava. Nicolas Roche, figlio di Stephen, era al Team Sky ma ha commesso degli errori fondamentali che non andavano bene per la squadra. Ogni tanto partiva, senza controllo, andava ad attaccare in determinati punti dove non era stato detto d’attaccare. Ecco, qui la mancanza di disciplina ha poi comportato l’uscita di Nicolas Roche. Si sono lasciati benissimo, si sono trovati bene, ha fatto delle buone gare ma in quelle che contavano, e su cui si poteva contare su Nicolas Roche, la squadra, a un certo punto, ha dovuto ringraziarlo e mandarlo via. Perché non si è trovata bene. Con un corridore come Stephen Roche messo nel Team Sky – che noi oggi identifichiamo nella perfezione del gioco di squadra – una cosa del genere non sarebbe mai avvenuta. E guarda che l’ultimo corridore di non facile gestione è il Gianni Moscon attuale. Non è facile, però si sta disciplinando proprio grazie alla disciplina della squadra. Perché lui è una specie di cavallo di razza che, per certi versi, va lasciato quasi a briglia sciolta. Un po’ come ha fatto il Ct Davide Cassani al mondiale di Bergen 2017. Invece anche un cavallo di razza può essere ben disciplinato per poi farlo esplodere negli ultimi metri».

- Al di là della pianificazione, e degli strumenti troppo diversi fra le due epoche, si può dire che la Carrera di Boifava fosse una sorta di Team Sky con trent’anni di anticipo? I corridori viaggiavano – ove possibile – in prima classe, c’era grande attenzione al look, all’immagine, ai dettagli (dalla preparazione ai materiali, dalla logistica all’internazionalità dei corridori e del marchio volute dai fratelli Tacchella. Si può dire così o è una forzatura?

«Si può dire così. Se noi abbiamo un’immagine molto forte, attuale, che è quella del Team Sky con le maglie nere – e adesso bianche – che come qualche corridore si girava e vedeva arrivare qualche maglia nera e dietro un’altra maglia nera e un’altra maglia nera ancora, così era negli anni Ottanta per il team Carrera. Aveva un unico sponsor, quindi, anche là, c’era una situazione abbastanza visibile, di riconoscibilità. Lì era una maglia bianca con una scritta rossa, forte. Come un tempo erano la Salvarani o la Scic. Erano maglie uniche. O la Carpano, se vogliamo tornare ancora più indietro negli anni; o la Molteni. Se però per alcune squadre era come rivedere, nella Carrera, la Salvarani, perché nella Salvarani c’erano dei personaggioni come Gimondi, Adorni, Motta, nelle Carrera di Boifava sapevi perfettamente che a un certo punto poteva partire uno che si chiamava Bontempi, o che c’erano giovani fortissimi come Chiappucci, che si è fatto le ossa proprio nel periodo di Visentini e Roche, per poi andare nella loro parte terminale, negli anni novanta, Marco Pantani, ancora con i capelli. Quindi è una cosa che ha visto questo filone decennale di grande forza e di grande immagine da parte della Carrera. Tutti si chiedevano: ma cos’è “Carrera”? Poi cominciarono a identificarla: erano dei jeans, era una marca d’abbigliamento e via di seguito. Stesso concetto per le Cucine Salvarani, le cucine SCIC o la Molteni. Quindi l’identificazione marchio-potenza, ed era una squadra moto ben organizzata e molto ben definita. A dieci-venti km dal traguardo, su una tappa che il buon De Zan diceva “per finisseur”, partiva Bontempi. “Ciclone” Bontempi era un po’ quello che era il primo Armstrong, l’Armstrong prima maniera, se vogliamo rapportarlo a una certa parte degli anni novanta, che partiva… Memorabile la sua vittoria per dedicare la tappa a Casartelli al Tour de France. Partì a venti-venticinque chilometri dal traguardo. Perché avevano questo scatto e la potenza per rimanere davanti. Bontempi era così. Così erano Stephen Roche e Visentini e il gruppo degli stranieri, fortissimi. Ti ripeto: ha tirato su dei giovani come Chiappucci e Pantani. Due nomi che hanno esaltato l’Italia».

- Era all’avanguardia anche in un latro aspetto: era composta da corridori che sarebbero stati capitani, o quasi, in qualsiasi altra squadra. Altra analogia col Team Sky.

«Sì. Anche perché se un’altra squadra voleva magari puntare a vincere tante tappe poteva puntare su Bontempi, ad esempio. Zimmermann era un altro su cui si è puntato subito. Era il perfetto scalatore ma completo, sotto tutti i punti di vista. Dico Bontempi perché era quello anomalo. Sarebbe stato perfetto per la Quick-Step Floors attuale, perché era quello che ti andava a vincere tante tappe nell’arco di un anno. La Quick-Step Floors è una delle squadre che portano a casa più vittorie in assoluto».

- La Carrera riusciva là dove forse non è ancora riuscito del tutto il Team Sky, cioè puntare alla classifica generale e al contempo alle vittorie di tappa o alle classiche.

«Loro avevano questo mix, non erano forti in volata però erano forti negli ultimi quindici chilometri proprio con questi personaggi. Erano forti in salita, nelle classifiche generali, nelle cronosquadre erano molto bene organizzati. E questo vuol dire tanto. E vuol pure dire scoprire i giovani, e qui è il merito di Quintarelli e Boifava, mettere giovani insieme agli Zimmermann e agli altri corridori di una certa esperienza per dirgli: imparate da lì. Così questi “succhiavano le ruote” degli anziani. Cassani: l’intelligenza di Cassani si è scoperta proprio nel guardare personaggi come Roche e Visentini». 

- Però se dopo trent’anni ancora parliamo di Sappada, la storia nella storia qual è: è che mentre Roche è rimasto legato all’ambiente del ciclismo – oggi ha un camp per cicloamatori a Maiorca, è testimonial della Skoda al Tour, insomma è “nel giro” –, Visentini invece non ha voluto più saperne. Tu il 30 settembre 2017 sei stato nella villa dei Tacchella a Caldiero per il trentennale della tripletta Giro-Tour-mondiale. C’erano quasi tutti, e chi mancava? Il J.D. Salinger del ciclismo italiano.

«È vero ma ti dico pure che l’ultimo tentativo fu fatto da Cassani con telefonata a Visentini per dirgli: dai, passo a prenderti, vieni pure te così chiudiamo una volta per tutte ’sta storia. Oppure: vieni ad applaudire gli altri, magari non applaudi Roche ma vieni ad applaudire gli altri. La risposta è stata no, quindi lui continua a fare Cincinnato nel suo orto».

- Tu che idea ti sei fatto?

«Poteva uscirne alla grande se, magari qualche anno dopo, avesse fatto un riavvicinamento per dire: il ciclismo è anche questo. Anche se l’ha sempre considerato un grandissimo traditore, nel tradimento però ci può essere anche una situazione positiva da parte di Visentini che va stringere la mano a Roche, oppure non gliela stringe ma dice: OK, e va spiegare le proprie ragioni. Io dico che dopo tanti anni ci poteva essere un riavvicinamento. Poi, il rodimento è ancora così tanto presente eccetera, ma non è che lui non abbia vinto nulla; un Giro d’Italia l’ha vinto, Visentini. Fondamentalmente, gli ha dato fastidio che Roche, oltre a vincere quel Giro d’Italia, abbia vinto tante altre belle cose. Quindi è come se avesse colpito più volte Visentini, con quelle sue altre vittorie, al Tour e al Mondiale».

- È solo una cosa di ciclismo?

«Sì, assolutamente sì».

- Ma c’era un patto, non scritto, all’interno della Carrera secondo cui Visentini avrebbe avuto al proprio servizio Roche al Giro e viceversa al Tour? Per Visentini esistevano solo il Giro, la Tirreno-Adriatico, insomma le grandi corse italiane.

«Si sentiva molto responsabilizzato nelle corse italiane, era impaurito dalle corse straniere. Però c’è un altro fatto da tenere presente. Le corse italiane venivano corse dagli italiani e le squadre italiane, se vai a vedere quante ce n’erano all’epoca, e parliamo dell’87, ce n’erano… tutte. E d’italiani ce n’erano tantissimi. Se poi vai a guardare all’estero, già al Tour c’era una diminuzione totale di squadre italiane e corridori italiani. Quindi c’era questa sua paura nell’essere, diciamo, italiano all’estero, nel non sapersi gestire. Queste sono paure che lui aveva. Quindi è giusto quello che diceva Roche: come [Visentini] vede il cartello Chiasso... Ma potremmo dire Chamonix, il Frejus o qualunque altro traforo. Lui aveva un’insicurezza profonda. La sua sicurezza lui la trovava sulle sue strade»

- Che atmosfera si respirava in quella giornata del trentennale?

«Be’, l’atmosfera di vedere chi era rimasto magro e chi invece era irriconoscibile e aveva bisogno della carta d’identità per dire: c’ero anch’io con voi ed ero cinquanta chili… prima [sorride]. Però rivedere tutta la famiglia Tacchella schierata, vederli in una villa meravigliosa e sentire i racconti di tutti quanti, perché poi è inevitabile che ognuno… Non verrà mai fuori una verità “vera”, uscirà sempre il parere di qualcuno: “…io l’avevo detto”. Ma lo stesso Chiappucci, che aveva dichiarato di stare con Visentini, non ha fatto altro che dire parole fantastiche nei confronti di Roche. Quindi, di conseguenza, tutti sanno tutto ma nessuno sa nulla di quello che realmente uno s’è sentito dentro. Io lascerei sempre il concetto di: c’ho provato, ci sono riuscito, chissenefrega se il capitano era un altro. Ho fatto vincere lo stesso la Carrera. Ho vinto per me stesso, ho vinto anche per la Carrera. Perché comunque la Carrera ha vinto per due anni in fila».

- Dimmi di Valcke e Schepers. Avrai saputo come li chiamavano: Roche era “Giuda”, Schepers “il Ribelle” e Valcke “il Diavolo”.

«Be’ son quelli che hanno aiutato leggermente Roche. Il concetto degli stranieri all’interno di una squadra totalmente italiana che si sono associati a uno straniero, però erano tutti di nazionalità diverse. Erano gli stranieri in un contesto italiano. Era un fatto di stranieri, punto e basta. Loro si sono sacrificati per Roche perché se si schieravano dalla parte di uno, poi sarebbero rimasti con quello lì per sempre. È come offrire qualcosa, e Roche ha sicuramente offerto qualcosa, un prolungamento di contratto, a delle persone che poi gli sono state vicine. Schepers fu fondamentale». 

- Visentini in gruppo non aveva tanti amici, Roche invece era bravissimo a dispensare, chiedere e restituire favori. Millar in quel Giro corse più per Roche (suo ex compagno alla Peugeot) che per Erik Breukink, suo uomo di classifica alla Panasonic. L’anno dopo, Roche, Schepers e Millar sono andati tutti insieme alla Fagor e Valcke con loro. 

«E questo te la dice tutta su come si può gareggiare tranquillamente con un sorriso, una pacca sulla schiena. E magari offrendo dei contratti, e non orologi, perché poi sai perfettamente che bastava fare un gesto, che era il gesto dei soldi, per dire: stai con me o non stai con me. Quindi la realtà è quella. Visentini è sempre stato molto solo ma te lo dice pure il fatto che di corse all’estero ne ha fatte pochissime. Aveva questa paura ancestrale nello stare fuori e nello stesso tempo non sapeva gestire lui una squadra. Gestiva il suo piccolo gruppo, ma questo sempre per aver fatto un certo tipo di vita sua, un po’ solitaria. E te lo dice tutta che in questi trent’anni non si sia più fatto vedere in giro. Non ha più partecipato a nulla. Non a ricorrenze, a nulla. Magari poteva partecipare a un Processo alla tappa, o a un dopo-tappa. Ma proprio perché aveva il terrore, sacrosanto, che gli venisse fuori qualcosa dell’87, oppure che gli avrebbero chiesto di Sappada o gli dicessero “ma tu hai mollato”, “perché non hai retto?”, “perché eri in crisi?”, “dovevano stare vicino a te”, e magari perdevano il Giro. Se Roche stava con Visentini, e perdevano la maglia, allora che succedeva? Lui ci ha provato, l’altro è andato in crisi».

- Visentini questo suo essere contro “il sistema” l’ha un po’ pagato? Se la prendeva con Torriani per le spinte e i traini, in gruppo c'erano gli Sceriffi, e quei Giri "delle gallerie" erano su misura per Moser e Saronni…

«Ma è sempre stato così. Te lo potrà raccontare Cassani che per Martini in tutti i Mondiali ha sempre gestito all’interno la corsa. È sempre stato così. I soprannomi – il Commissario (Saligari), lo Sceriffo (Moser) – vengono dati in funzione della gestione. Se tu senti i racconti di Riccardo Magrini, che insieme a Gilbert Duclos-Lassalle andava a fare casino perché prendevano in giro un corridore o un altro, ecco forse Visentini - alle spalle - veniva preso in giro. Roche, come sentiva qualche cosa, si faceva sfilare, rientrava nel gruppo e chiedeva i perché e i percome accadessero queste cose. Parlava con tutti quanti: cercava alleati, ma anche si rendeva simpatico, ecco. Forse la parola giusta era questa. Si rendeva simpatico nei confronti degli altri. Tu hai citato Millar, che era un grandissimo scalatore – non a caso maglia verde di quel Giro –, e in quel caso lì magari interviene lo spirito anglosassone. Però allo stesso tempo avere l’appoggio di qualcuno che in salita ti può dare una mano, ti può dare ritmo, non è sbagliato, come concetto».

- Cosa ricordi di una pagina buia del tifo italiano italiano: Roche che correva protetto ai fianchi dal suo gregario Schepers e da Millar (della Panasonic); e che a fine tappa veniva scortato dai carabinieri, in albergo aveva paura di sabotaggi…

«Non mi meraviglio di nulla. I francesi ci hanno odiato nell’epoca di Bartali. Gli italiani hanno odiato Roche che ha tradito Visentini. I francesi continuano a odiare Froome perché pensano sia un baro. Tutto questo non ha senso da un punto di vista di tifo. Ci vorrebbero le barriere, mentre si sale, per la gente che magari si è schierata da una parte o da un’altra: ma perché devi insultare? Per cattiveria. Tu ricordi perfettamente che cosa vuol dire dare un pugno in corsa, vedi quello che è successo a Wladimir Belli nei confronti di un tifoso di Gilberto Simoni. Si crea il partitismo. Chiappucci contro Bugno. Moser contro Saronni, moseriani e saronniani, bartaliani contro i coppiani, o i francesi contro gli italiani. Oppure, in questo caso, erano quelli che volevano Visentini vincitore del Giro e hanno sempre considerato Roche un traditore. Poi quando Roche ha vinto il Tour, ha vinto anche il mondiale, stai sicuro che gli anni dopo non erano tutti quanti pro-Visentini, quando poi Visentini non ha detto una parola e se n’è andato. A quel punto hanno ammirato la bravura di Roche. E molto è dovuto a quella tappa di La Plagne al Tour de France ’87: hanno visto realmente che cosa vuol dire fare l’eroe».

- Una pagina buia della sua carriera Roche l’ha scritta quando è tornato alla Carrera. Dal processo di Ferrara è emerso che ci fossero vari pseudonimi riconducibili a lui, tra cui Rocchi, Roncati, Righi.

«No, l’idea che mi son fatto è che lì qualcuno si rivolgeva a determinati medici quando quei controlli ancora non c’erano. Oh, non dimentichiamo che quello era un gruppo di medici approvati dalla federazione e dal CONI. E che quel gruppo di medici seguiva le imprese di Moser e di tanti altri. Là uno si metteva in lista per capire che cosa stava succedendo. Perché poi devi sempre considerare che ti dicono: vai da loro ché son bravi, vai da loro ché ti sistemano, vai da loro ché riesci ad andare, visto che non stai andando. Quindi è comprensibile e umano, da questo punto di vista, per cercare di trovare le ultime forze necessarie – io dico “forze necessarie” e non “aiuti necessari”. Però cercano di trovarle».

- Quindi tu sei uno dei pochi italiani quindi che sentono maggiore affinità per Roche rispetto a Visentini per quella vicenda di Sappada?

«Sì, assolutamente sì».

- Che cosa ti piacerebbe ne venisse raccontato trent’anni dopo?

«Me la ricordo perfettamente perché all’epoca già lavoravo. Ero già al Giro a vedere, controllare e fare dei servizi per l'allora Mediaset. Non mi aspetto la verità o la non-verità. Mi piacerebbe che venisse fuori il romanzo di quel giorno, se si riesce a saper raccontare metro per metro, anche romanzato, perché tanto noi, ora come ora, viviamo talmente nei reality, nelle serie televisive, un milione di cose, che fondamentalmente non riusciamo a riconoscere la realtà dalla finzione. Quindi vorrei ancora rivivere quel giorno come se ci fosse una specie di metronomo tra i due. Cioè: la sofferenza e il dramma di uno e l’apoteosi dell’altro. Questo mi piace di più come tipo di racconto, di quel giorno. Ma raccontando anche come si potesse in qualche maniera intervenire, magari anche con le famose urla da un’ammiraglia, per cercare di bloccare o fermare qualcuno. Cioè renderla quasi come se fosse una fiction. Una cosa di questo genere».

- Fu tradimento o business?

«La verità non uscirà mai. Non è che non verrà mai fuori, la verità è quella. Uno ci ha provato e ha detto chissenefrega. Mi volete cacciare? Cacciatemi. Io comunque vinco lo stesso, perché mi sento più forte. La non-gestione. E, allo stesso punto, un altro che va in tilt, ferito nell’amor proprio».

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