HOOPS MEMORIES - Biasone, il santo patrono della NBA


di CHRISTIAN GIORDANO ©
American Superbasket n. 5/anno 17 - 6/19 marzo 2008

Strano a dirsi, una delle più importanti partite nella storia della NBA fu una delle più noiose. Il 22 novembre 1950 a Minneapolis, Minnesota, i locali Lakers delle star George Mikan, Jim Pollard, Vern Mikkelsen e Slater Martin le presero dai Fort Wayne Pistons per - udite udite - 19-18, il più basso punteggio di sempre. Quella (si fa per dire) partita fu il nadir dello slow-down game, il gioco rallentato così comune nella lega all’epoca, quando le squadre, una volta in vantaggio, si affidavano al ballhandling delle proprie guardie per far scorrere il tempo, mentre sugli spalti il pubblico cominciava a sbadigliare o rivolgeva la propria attenzione… al programma della partita. Che a quel punto era già finita.

Quella, storica, che fu l’epitome del Frozen game, il gioco congelato, difficilmente i Pistons l’avrebbero potuta vincere praticando un running game. Così coach Murray Mendenhall ordinò ai suoi di fare l’opposto. L’unico modo per impedire ai Lakers di segnare era togliergli il pallone, quindi i Pistons attaccavano facendo girare palla, poi ricominciavano. Mentre i 7021 spettatori gridavano il proprio disappunto per la poca azione, i Pistons aspettavano che i secondi scivolassero via, con Minneapolis che, per non farsi infilare scoperta in difesa, si rifiutava di pressare. Fort Wayne conduceva 8-7 a fine primo quarto, inseguiva 13-11 all’intervallo e 17-16 dopo tre periodi e vinse grazie al 3-1 degli ultimi 12’. Le squadre segnarono otto canestri in 48’ di non gioco. Il grande Mikan segnò 15 punti, nessun altro superò i cinque. Per una lega che faticava a ritagliarsi un posto sulla scena degli sport americani, quella partita era una macchia indelebile. Il punto di non ritorno. 

«Il gioco era stagnante - ricorda Bob Cousy, rookie nella stagione 1950-51 e futuro Hall of Famer dei dinastici Boston Celtics degli 11 titoli in 13 anni – Già nel terzo quarto, le squadre avanti nel punteggio si sedevano: congelavano la palla e il pubblico pagante si metteva a sfogliare il programma della partita». Entro il 1954, fu chiaro a tutti che qualcosa di drastico andava fatto. Il ritmo del gioco era rallentato drammaticamente. E quando le squadre non se ne stavano lì a tenere palla, si facevano fallo a vicenda per guadagnare possessi e così le partite si trasformavano in continue processioni da una lunetta all’altra. «Le cose andavano di male in peggio – racconterà Maurice Podoloff, commissioner NBA dal 1946 al 1963, lo stesso periodo in cui Biasone tenne i Nats, futuri Philadelphia 76ers – Le partite erano interminabili, il pubblico insofferente e la situazione disperata». Nove club falliti (su 17) in 4 anni, più che un campanello d’allarme, erano un disperato SOS.

Danny Biasone, fondatore e proprietario dei Syracuse Nationals, intravide una possibile soluzione. «Il basket aveva bisogno di un limite temporale – disse – Nel baseball hai tre tentativi, nel football devi guadagnare 10 yard in quattro azioni o perdi palla. Ma nel basket, se sei in vantaggio e hai un buon palleggiatore, puoi tirarla alla lunga per tutta la sera». Così Biasone – su dritta del suo gm Leo Ferris – consigliò una formula per stabilire un tempo entro il quale una squadra doveva tentare il tiro. Dalle statistiche delle ultime due stagioni si notò che in una gara senza stalling una squadra prendeva una media di 60 tiri. Divisi per la durata di una partita, 48 minuti o 2880 secondi, fanno 24. Era nato il cronometro dei 24 secondi. «Ma il numero non contava – diceva Biasone – Il gioco aveva bisogno di un elemento temporale. Quale, non importava». Ma gli ci vollero tre anni per convincere chi di dovere. Nell’agosto 1954, per dimostrare l’efficacia della “sua” idea Biasone organizzò una partitella presso la sua alma mater, la Blodgett Vocational High School di Syracuse, dove da studente fu buon quarterback nel football. I proprietari delle altre franchigie NBA pensavano che avrebbe potuto funzionare e decisero di darle una chance, adottando però anche una regola che limitava a sei il numero di falli per squadra in un quarto (ridotti poi a cinque e infine a quattro) senza incorrere in tiri di penalizzazione. Le due innovazioni si dimostrarono complementari: il cronometro per il tiro preveniva lo stalling, il limite di falli l’eccessivo ricorso al fallo sistematico.

I risultati furono immediati. Il punteggio medio di squadra crebbe dai 79.5 punti del 1953-54 ai 93.1 del 1954-55, un incremento del 18%. In un anno, i tiri tentati s’impennarono dai 75.4 agli 86,4 per match. I Boston Celtics divennero la prima squadra a scollinare quota cento per un’intera stagione: 101.4 punti per gara. Tre squadre segnarono almeno cento punti a partita nei playoff del 1954, ben 18 fecero altrettanto nel 1955. E con il cronometro per il tiro come soluzione anti-stalling, in Gara 7 delle Finali i Nats rimontarono dal -17 e batterono i Pistons per 92-91, vincendo così il loro unico titolo NBA. «Mi accusavano di aver ideato il cronometro per tirare perché volevo vincere il campionato, ma non era così. Volevo solo vedere del gioco», si difenderà Biasone, italiano emigrato a dieci anni con la famiglia a Syracuse, dove fece fortuna prima aprendo in società un ristorante, nel 1936, e poi, nel 1941, rilevando una proprietà che trasformò in una pista da bowling.

L’idea di Biasone, e del dimenticato Ferris, funzionò talmente che non soltanto è un cardine della NBA moderna, ma è stata adottata, pur variandone i limiti temporali, nel basket di college e in quello internazionale. E pur con colpevole ritardo fu giudicata così essenziale che a Biasone (nato a Miglianico di Chieti il 22 febbraio 1909 e morto per una infezione sanguigna allo University Hospital di Syracuse il 25 maggio 1992) valse la nomina postuma, nel 2000, nella Hall of Fame di Springfield, Massachusetts. 

«Ciò che la NBA è oggi lo deve a quel piccoletto di 1,67 – dirà sorridendo Podoloff (dal basso del suo 1,57) – Non fosse stato per lui, la Lega non sarebbe durata. Biasone diventò il santo patrono della NBA». Che però lo avrebbe a lungo dimenticato. Alle sue esequie fu inviata una composizione floreale a forma di cronometro per il tiro, ma poi ci vollero altri otto anni per canonizzarlo come hall-of-famer. Un po’ troppi, per il santo patrono della NBA.

CHRISTIAN GIORDANO ©

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