RIVOLUZIONE ARGENTINA
Il 22 aprile di 40 anni fa si apriva il maxi-processo alla giunta militare.
Luis Moreno Ocampo, all’epoca procuratore aggiunto, racconta come andò.
E perché fu a beneficio del mondo intero
Il Manifesto
Martedì 22 Aprile 2025
Pagina 20
FABRIZIO GABRIELLI
Il collegamento lo coglie mentre sta canticchiando una strofa di Caminito di Carlos Gardel: «He venido por última vez, he venido a cantarte mi mal».
Luis Moreno Ocampo ci parla dalla sua casa di Buenos Aires: procuratore capo della Corte Penale Internazionale - incaricato di guidare l’accusa nei processi per crimini contro l’umanità dal 2003 al 2012, oggi professore universitario, la sua carriera è iniziata nel 1985, quando è stato procuratore aggiunto, al fianco di Julio Strassera, nel maxi processo alla Giunta Militare argentina, che iniziò il 22 aprile di quarant’anni fa. Un processo che ha fatto la storia, non solo del Paese del Sol de Mayo.
«Il processo - ci dice - si è occupato come tutti i processi di stabilire le responsabilità individuali degli accusati, in questo caso i comandanti. Ma era anche la pietra angolare sulla quale si era retta la campagna presidenziale di Alfonsín, votata dal 52% dei cittadini (nelle prime elezioni democratiche tenute nel 1983, ndr). Forse un caso unico: una proposta di legge, quella di mettere sotto processo i militari, legata a una candidatura (il neopresidente derogò la legge di auto-amnistia della Giunta Militare, e promulgò il decreto 158/83, che istituiva il processo, 3 giorni dopo il suo insediamento, ndr). In quegli anni tutta l’America Latina era in mano ai dittatori, il modello che proponevano i politologi per le transizioni verso la democrazia era quello spagnolo, in cui il re era riuscito a ottenere che franchisti, comunisti e socialisti, di comune accordo, compissero una transizione ordinata. Sentivamo di essere parte di una politica molto rivoluzionaria: Alfonsín voleva processare i comandanti».
Che cosa ha pensato, quando ha ricevuto l’incarico?
Che avremmo dato un contributo giuridico alla transizione democratica del paese. Non immaginavo che sarebbe stato a beneficio del mondo intero. Era tutto inedito: come avremmo fatto, e fatto per bene, qualcosa che non aveva precedenti? Non era un’idea comune, in quegli anni, processare dittatori. Di certo non lo era portare a termine un’indagine su un crimine così massivo in un tempo così stretto, appena quattro mesi.
Vi rendevate conto, in itinere, dell’impatto che avrebbe avuto?
Non solo dell’importanza e della complessità in termini legali di quello che stavamo facendo, ma dell’importanza sociale e politica. C’era una parte di società che chiedeva giustizia, ma anche una parte che andava convinta della bontà del processo. Mia madre, per esempio: credeva che Videla fosse una brava persona, andavano a messa nella stessa chiesa, pensava che il processo fosse qualcosa di volgare. Mio zio, che era un militare, si vergognava di me. Dopo il processo andò a trovare Videla in carcere e gli giurò che non mi avrebbe mai più rivolto la parola. Era importante che questa gente capisse. Era un mondo polarizzato, come oggi: non è che investighiamo su Hamas: facciamo la guerra ad Hamas. Quel che abbiamo dimostrato, con il Processo, è che c’è un’alternativa alla violenza. Che il nemico si può processare senza doverlo uccidere.
Conosceva già Julio Strassera? La sua carriera, quello che aveva fatto - o non fatto - durante la dittatura?
Lo conoscevo dai tempi dell’università, eravamo entrambi docenti. Posso dire di aver visto chiaramente la sua trasformazione da persona normale a eroe. Ma senza cavallo. Non un eroe di guerra: un eroe della giustizia.
A proposito di eroi e di cavalli: avete mai avuto l’impressione di lottare contro i mulini a vento, come Don Chisciotte?
Non direi. L’idea di giudicare i militari è stata di Alfonsín, ma è stata appoggiata subito dai peronisti, che avevano perso le elezioni presidenziali ma avevano comunque ottenuto il 40% dei voti. Questo significa che il 90% della popolazione non voleva che i militari rimanessero impuniti. I giudici sentono di essere impotenti solo quando la politica non li appoggia, che può essere quanto successo in Italia a Falcone e Borsellino nella lotta contro la mafia, o ai giudici di Mani Pulite in quella contro la corruzione. Il processo alla giunta è stata la ciliegina sulla torta: ma la torta l’hanno preparata la politica, i partiti.
Anche lei, come Strassera, sente di essere cambiato molto durante il processo?
Mi ha trasformato: tutto quello che facevamo era nuovo, ero ossessionato, sentivamo tutti che stavamo facendo qualcosa di terribilmente complesso e importante.
Qual è il momento che ricorda con più vividezza? La sentenza?
L’arringa finale. Per la prima volta erano presenti in aula tutti e nove i comandanti sotto accusa (Jorge Rafael Videla, Roberto Viola, Leopoldo Galtieri, Emilio Massera, Armando Lambruschini, Jorge Anaya, Orlando Agosti, Omar Graffigna y Basilio Lami Dozo, ndr). E quando Strassera terminò, e disse «Nunca màs», ci fu un’esplosione di energia all’interno dell’aula. La sentenza alla fine non stabilì quello che chiedevamo (quattro comandanti furono assolti, ad Agosti venne comminata la pena di soli 4 anni e 8 mesi, ndr): però in qulche modo fece sì che le fazioni più conservatrici, quelle alle quali il nostro lavoro non piaceva, la accettassero. È un aspetto affascinante: quelle sentenze convinsero la gente dell’imparzialità dei giudici, dando all’intero processo più credibilità.
Crede che negli anni questo senso di giustizia si sia diluito?
Mai. Certo, ci sono state le leggi di Alfonsín (la Legge del Punto Finale, che estingueva il processo contro i membri della Giunta, e quella dell’Obbedienza Dovuta, che scagionò ufficiali e subalterni, ndr). E poi Menem, che invece ha adottato una politica di stinta: ha promulgato l’indulto (con 20 decreti a cavallo tra 1989 e 1990, ndr), ma lui si preoccupava solo del proprio potere, e doveva evitare ogni possibile conflitto con la classe militare.Néstor Kirchner ha dato seguito alle investigazioni (nel 2003 ha annullato le Leggi d’Impunità, ndr), promuovendo la riapertura di processi che hanno coinvolto centinaia di ufficiali. Piuttosto non si è mai dato seguito alle investigazioni sui leader dei movimenti armati d’opposizione. Che è poi ciò su cui pone enfasi Milei oggi: bisogna processare anche i guerriglieri».
Cosa ha pensato quando ha visto il video lanciato dalla Casa Rosada in occasione dell’anniversario del golpe del 1976, lo scorso 24 marzo?
Ho notato una cosa importante: non ha messo in discussione il nostro Processo. Il dibattito sulla violenza massiva degli anni Settanta, in Argentina, oggi è più che mai aperto. Si è andata imponendo un’idea diffusa di giustizia, che sia contro i militari o i Montoneros o l’ERP. Anche Strassera, in fondo, nella sua arringa finale non ha mancato di fare cenno alla violenza dei guerriglieri.
Quanto aiutano, nell’idea di giustizia e nella conservazione di memoria, prodotti culturali come film o libri?
Tantissimo, e mi sembra interessante il ruolo che avuto, per esempio, il regista di Argentina, 1985, Santiago Mitre: il film ha vinto un Golden Globe, è stato candidato all’Oscar, ma soprattutto ha portato nelle sale più di un milione di spettatori in un mese, molti dei quali giovani.
C’è un professore vietnamita che dice: «La guerra accade due volte: sul campo di battaglia e nella memoria».
Non c’è il rischio che una riscrittura della storia crei un presente distopico?
La verità non esiste, perché può essere messa in discussione. Ognuno può avere la sua verità. Per questo, in un mondo in cui la violenza politica è all’ordine del giorno, è fondamentale preservare la memoria. Dobbiamo scegliere se essere come l’Argentina del 1976, o come l’Argentina del 1985. Oggi mi sembra che siamo in quella del '76: siamo in un mondo tribale, in cui i leader costruiscono la propria identità sulla tesi di essere sotto attacco.
Crede sia possibile, a livello internazionale, un Processo come quello alla Giunta del 1985?
La Corte Penale Internazionale ha il compito di investigare, di decidere se un fatto è un crimine. Lo ha fatto con Duterte (l’ex presidente filippino, processato per esecuzioni sommarie nell’ambito della sua guerra alle droghe, ndr), ma anche con Putin e con Netanyahu. Con i Talebani e con Hamas. Ovviamente ci vuole l’appoggio della politica: Duterte viene processato perché Marcos (Ferdinand jr, presidente delle Filippine, figlio dell’ex dittatore in carica dal ‘65 all’86, ndr) non lo vuole più tra i piedi. Un leader può essere processato quando perde protezione politica. Per questo l’unica via d’uscita per Netanyahu, che si trova isolato, oggi, è continuare con la guerra. L’unica cosa che possiamo fare è metterci d’accordo sul fatto che la guerra non fa bene. Dedicare il 5% del proprio PIL agli sforzi bellici significa rinunciare a scuole, ospedali. È su questo che i leader europei dovrebbero riflettere di più. Un concetto semplice ma essenziale: la guerra non fa bene.
Commenti
Posta un commento