La guerra dei Brown, i particolari in cronaca - parte 2/4


"Nessuna risposta è già una risposta"
(antico detto yiddish)

di FEDERICO BUFFA
Black Jesus - The Anthology

"Allora, caro giemme Scheer, siamo d'accordo: via Bobby Jones, anche se è un ex Carolina come me. Prendiamo George McGinnis. Che talento, il Mac. È proprio l'uomo che ci serve". 

"Scusate, señores, ma qui piove a dirotto. Io se permettete vado a casa, mica vorrete giocare lo stesso?".

I fratelli Brown sono finiti su due pianeti leggermente diversi. Larry - diventato allenatore - è a Denver in ABA, dove da lui i Nuggets si attendo un lifting tecnico e di personale. Herb è a Portorico, dove avrebbe allenato per quindici estati consecutive, intervallando gli inverni americani. 

"Un certo Rubin di New York aprì il grande canale tecnico verso l'isola - racconta Herb -. E siamo finiti lì in tanti. Io, Nissalke, Tex Winter, Phil...". Phil sarebbe Jackson. Phil Jackson.

"Ero a Quebradilla - prosegue -, il campo era all'aperto e veniva giù un'acqua tropicale. Volevo tornare a casa ma dissero di aspettare. Già che c'ero, ed essendo alla prima esperienza, domandai come mai il campo fosse circondato da una griglia metallica alta tre metri. Mi spiegarono che quando avrei visto per la prima volta gli arbitri, gli spettatori e soprattutto intuito i rapporti tra queste due componenti fondamentali del basket isolano, tutto mi sarebbe stato più chiaro. Spiove, ma sul terreno ci sono pozze grandi come piscine. Arrivano degli inservienti con della segatura e la spargono copiosamente, l'acqua viene assorbita e spazzata via in dieci minuti. Vinciamo e a casa ci vado davvero, ma in trionfo. Bienvenido a la Isla".

La Isla era sempre stata già di suo un posto speciale sin dalle origini. Se mai vi foste domandati come mai si chiamino Puertorico la nazione e San Juan la capitale, e non viceversa come avrebbe molto più senso, la spiegazione è celata in una più che discreta scivolata del cartografo di Cristoforo Colombo; che confuse e invertì clamorosamente le indicazioni del capo. Agli spagnoli della madrepatria, cui interessava molto di più Cuba, più bella e ricca, non venne mai in mente di ritornare alla denominazione naturale.

Stando alla discrezione di coach Brown, la Portorico degli anni Settanta era una sorta di "...e allora mambo!", con allenatori licenziati il lunedì da disinibiti presidenti bandoleros e assunti il giovedì dai rivali che distavano dieci chilometri e ti permettevano di non cambiare neanche casa.

Sul campo, poi, i nativi cresciuti anche tecnicamente in sede erano degli "europei" che passavano e difendevano. E avevano un concetto molto chiaro della distanza morale che intercorre tra un buon tiro e un 180° no-look in controtempo con l'uomo addosso, mentre i salseros del gioco erano i portoricani newyorkesi, creativi sino alla locura, e invece decisamente da erudire su quel dostinguo di cui sopra.

"...'sto McGinnis è un cesso. Domani, per favore, caro giemme Scheer, lo tagliate".

Un allenamento. A Larry Brown era bastato un allenamento, per non voler già più vedere il Mac con la maglia di una squadra da lui diretta. Ovviamente, andava ripreso al volo Bobby Jones, uno vero, uno che sapeva giocare nel modo giusto, ...in the right way insomma. 

Donnie Walsh, altro giemme ma soprattutto altro potentissimo esponente di quella cupola meglio nota come la Chapel Hill Mafia, ama ricordare come coach Brown, che con lui è stato a Indiana, se potesse taglierebbe integralmente tutti i suoi effettivi a roster in un sol colpo, salvo rivolerli tutti indietro il mattino dopo, avendo magari irrorato la vicenda con delle dimissioni.

Nel '76, se Dio vuole, la chance di allenare una squadra NBA toccò finalmente anche a Herb, che nelle more era stato dislocato in Pakistan, nel corso di una di quelle curiose manifestazioni della allora imperante dottrina Kissinger dello scambio alla pari "basket e amicizia tra i popoli" per quelle due o tre info strategiche che magari potevano tornare utili allo zio, Zio Sam.

"Arrivai da New York - racconta Brown I - con un biglietto di andata e ritorno e bagaglio a mano pensando che prima questi volessero almeno scambiare due chiacchiere. Invece i Pistons m'ingaggiarono sul posto come assistente e mi dissero che la conferenza stampa di presentazione era fra un'ora. Corsi in un negozio a comprare un vestito". 

I Pistons, che di dottrina - relativamente a chi doveva allenarli - seguivano un'edizione più bonaria, ma nemmeno tanto, del mambo portoricano (tra le comparse, inserite anche Dick Vitale, oggi voce di culto del college basketball), dopo 42 partite licenziarono Ray Scott e misero la squadra nelle mani di Herb, che stavolta all'esordio sfoderò invece il Topkapi del suo guardaroba anni Settanta, un abito verde pisello in poliestere, aggredito da una camicia con colletti lisergici che - se mai fossero stati in grado di vederlo - gli avrebbe fatto dare del "truzzo" persino dai ballerini di Hair, il musical che furoreggiava allora, lisergicucci la loro parte.

Oltre al Topkapi, a dei fluentissimi boccoli rossi solo immaginabili oggi e a un linguaggio colorito come pochi, la Cobo Hall, il palazzo d'allora, poté ammirare la scienza che il coach sciorinava seralmente, tanto che i ragazzi, per la prima volta dopo quattordici anni, tornarono a vincere una serie di playoff, battendo Milwaukee.

Fisiologicamente, in perfetto e inquieto stile-Brown si farebbe prima a contare quelli con cui non litigò all'interno della squadra, con ragguardevoli picchi di conflitto con Kevin Porter (il play titolare, e come potrebbero confermarvi una decina di registi NBA allenati dal fratello, deve essere proprio un fatto genetico) e il celeberrimo Marvin Barnes, detto "Bad News" non perché a nessuno fosse venuto in mente un altro soprannome. 

Dopo aver decimato il reparto-dietro inserendo Money e Ford, Herb trovò minuti in front line per il suo rookie preferito, tale Leon Douglas da Alabama, che a tutt'oggi resta l'unico essere umano con cui il coach andrebbe all'inferno in Cadillac e al cui fianco ha giurato di sedersi quando Leon diventerà l'head coach dei Crimson Tide, ipotesi su cui v'inviterei a puntare un dollaro. 

A voler ben guardare, questo Douglas peraltro sarebbe anche l'uomo che ispirò alla Fossa dei Leoni della Fortitudo Bologna la leggendaria verniciata apparsa sui muri di via San Felice "...o Moses Malone, o resti il Leone", ma altresì anche Uncle Leon, zio leone. 

Come "nipote" andrebbe poi inteso il numero otto ultimo dei Lakers, che non a caso il Leone ha invitato a pranzo a Detroit durante le Finals del 2004. L'unico - compagni compresi - a godere del privilegio.

"Kobe era già stato programmato dalla famiglia a dieci anni per diventare un giocatore, anzi IL giocatore - ricorda il Leone, che con papà Joe 'Jellybean' faceva impazzire la curva pistoiese -. La sera non aveva orai, poteva e doveva giocare finché voleva. Il problema è che è cresciuto vedendo giocare il padre, che, ultratrentenne, aveva il culo grande il doppio del figlio, ma si muoveva esattamente come avreste visto Kobe muoversi in campo. E la passava poco, diciamo pure quasi mai".

Siccome il pivot era lui, la testimonianza ha decisamente i crismi della credibilità. In caso d'incertezza, ci sono i mortificanti tabellini dell'epoca, che chiudono ogni argomento. tenetelo da parte l'otto gialloviola, perché tornerà buono in questa storia.

naturalmente, i Pistons licenziarono Brown dopo 24 partitedella stagione 1977-78, ponendo contestualmente fine alla sua carriera da head coach NBA.

Col coach se ne andarono i boccoli, la scienza, il Topkapi ma soprattutto il derbissimo. Già, il derbissimo: il Brown vs Brown, Larry contro Herb, i dolori della giovane Ann, la madre fornaia. Gli annali ne tramandano sei-edizioni-sei. Per i soli parziali, ma anche finali, perché per questa vita dovremmo aver concluso: 4-2 Larry.

"Il derby? Uno strazio. Odiavo allenare contro mio fratello" racconta sempre il capoclassifica, e nemmeno a Herb, che li perdeva quasi sempre, dovevano garbare granché. 

Il particolare curioso è che alcuni addetti NBA sussurrano che il derby sia in realtà durato molto più a lungo. ""Sì, sì, bravi, raccontate pure di Herb e Larry come dei Karamazov, ma la verità è un'altra - ci informa un giemme che conosce molto bene, pure troppo, uno dei due -. I fratelli non si sono parlati per venticinque anni". Venticinque anni? La scatola nera non è praticamente rintracciabile, ma ci sono credibili indizi.

Quando Larry era a Denver, in ABA, sia lui sia Herb, come detto, a Detroit, stravedevano per Marques Johnson, zaffiro di UCLA, l'ultimo vero profeta del gospel di John Wooden. Entrambi lo volevano scegliere - ed essendo due leghe diverse, era tecnicamente possibile per entrambi - e lo indussero a dichiararsi per il draft in anticipo. Marques, confuso e irritato dalle baruffe chiozzotte dei fratelli (non escluderemmo colpi da "...c'è solo un Brown e sono io. L'altro? Un mestierante"), restò al college e fece così saltare i piani dei fratelli, che non tennero esattamente per sé le loro opinioni sul rispettivo parente. 

Va desunto inoltre, dati cronologici alla mano, che tutti e sei i derbissimi siano occorsi durante la guerra dei Brown, aggiungendo alla faccenda ulteriore guacamole. Anche perché si ha la distinta impressione che allora Brown I desse molto meno per scontato il superiore magistero del fratello.

Siccome nessuno dei due risponde neanche vagamente a quesiti in materia, l'antico detto yiddish leggibile in premessa applicatelo qui.

FEDERICO BUFFA
(2 - continua) 

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