Salvate il soldato Allen (parte 4/4)


"Cos'è tutta questa tsuris?"
(antico detto yiddish)

di FEDERICO BUFFA
Black Jesus - The Anthology

"Stanotte a mezzanotte. A casa di mia nonna e non far tardi, è il gran giorno per me, Allen".

È la notte del 22 settembre 1974, il giorno del quindicesimo compleanno di Ann Iverson, l'ultima discendente della più forte, affidabile, tremendamente orgogliosa famiglia di ex schiavi della Georgia. Gente coi dorsali inarcati sul cotone fino a quindici ore il giorno.

Allen è Allen Broughton, "the Fucking Boss": anni 17, professione gang leader con alle dipendenze gente di 40 anni che spaccia, sventra, spara a nome suo. Segni particolari: a tough motherfucker.

Per perdere la verginità l'ultima degli Iverson ha scelto lui. E per ottenere questo privilegio ne ha sdraiata un'altra, la numero trentasette. Mademoiselle ha vinto 37 combattimenti a mani nude con causali assortite, perdendo solo contro una coppia di gemelli. Maschi. Avere vinto l'ultimo in ordine cronologico le ha dato diritto a "the Fucking Boss", il viceré di una delle più ingestibili zone del Connecticut.

Il boss arriva in orario. Scambio di gagliardetti e si parte. Venire totalmente a capo della pur consenziente Ann è complesso. E solo all'una, dopo averla inchiodata al muro, Broughton estrae. Sfiga, si sveglia la nonna. Il Boss scappa dalla finestra senza avere spento l'ultima candelina e Ann pensa già al rain check, la contromarca che danno nel baseball se sospendono per pioggia. E invece no. Dopo qualche settimana, alla visita medica prestagionale per idoneità sportiva, il dottore la prende da parte e le è annuncia che è incinta.

Dio, come sappiamo, si esprime attraverso vie tortuose, e aveva un piano per Ann Iverson, figlia di Willie Lee, che come lei scalava gli alberi e spaccava culi: un figlio, concepito senza penetrazione. Un miracolo. E solo il frutto di un miracolo poteva essere un altro inspiegabile fenomeno naturale, anche lui di nome Allen come il Boss, ma di cognome Iverson, come la figlia di Willie Lee, quello che già sapete cosa faceva.

Una domenica di 26 anni dopo, il nipote di Willie Lee diede l'ultimo colpo di pennello a un affresco chiamato 2001 NBA Eastern Conference Finals. Il mercoledì successivo lui, la sua parrucchiera, mamma Ann e il resto dei 76ers sarebbero entrati dalla Puerta Grande allo Staples Center di L.A. agli ordini di coach Larry Brown. Obiettivo: un anello per tutti. Il primo.

"The Jewish Genius" e "The Little Man" erano - incredibilmente - arrivati sin lì, a "Mount Shaq", dove tutto al tempo s'arrestava. Alle loro spalle, otto schizofrenici mesi. 

Allen per la prima volta nella sua vita aveva sospeso quella scarnificante diffidenza verso la cultura bianca mainstream, convinto che quell'ebreo con gli occhiali sapesse per una volta orientare quel suo patto con Nostro Signore che s'era sostanziato nella più ampia dose di talento cestistico concesso a un uomo di 1,80. 

L'altro, alla sua più lunga permanenza su una panchina, attratto visceralmente dal senso di lealtà, dalla ferocia agonistica, dal saper dare e resistere di Iverson, sospese per la prima volta nella sua vita la sua scarnificante diffidenza verso tutto ciò che non era stato deodorato dall'essenza The Right Way.

"Wherever I go, everyone goes. Whenever I eat, everyone eats". Ovunque andasse, "gli altri" sarebbero andati con lui; allorché avesse mangiato, "gli altri" avrebbero mangiato. 

Le parole di Allen I il giorno del draft 1996, coach Brown le conosceva bene. Il patto che aveva generato il talento era la ricompensa agli infiniti stenti del suo clan, che ora avrebbe ricevuto tutto ciò che prima era mancato, ancora meglio.

D'altronde l'idolo di gioventù di Larry era stato Jackie Robinson, il vendicatore nero. Il coach non sapeva resistere a questo modo di vivere, e intendere l'esistenza. E si fece consegnare da mamma Ann la licenza per fornire la conduzione, "perché ogni giovane uomo ha bisogno di un uomo anziano che veda oltre gli ostacoli".

Per un anno intero Larry, cresciuto in sinagoga, avrebbe viaggiato con in tasca un crocefisso. Un presente di mamma Ann.

Il coach avrebbe dato occasionalmente due minuti di pausa nel secondo quarto ad Allen, per sentirsi ringhiare "It was about fucking time" quando lo rimetteva dentro. I due salivano e scendevano da ogni tipo d'emozione concedibile a un uomo che ne ha incontrato un altro di cui sapeva la necessaria esistenza. 

Allen riteneva d'aver subìto un torto? Nascondeva la testa sotto l'asciugamano come aveva visto fare da sua madre a casa ogni qualvolta ella voleva isolarsi dal mondo e pensare. 

Un giorno Larry era salito in ufficio da Pat Croce, il presidente esecutivo dei Sixers, per mettere in pratica "il torto", la cessione ai Pistons (...ma guarda il destino beffardo). Tutto fatto, ma Matt Geiger vuole la buonuscita prevista nel suo lussuoso contratto. A monte. "Il torto" comunque resta nella testa di Allen I. 

La rivincita occorse una sera allo United Center di Chicago. Il numero 3 era furibondo perché il coach aveva fatto tagliare Vernon Maxwell, "Mad Max", protetto di Ive. I Sixers vincono ma giocano male. Brown in spogliatoio copre di insulti tecnici i suoi: Allen prende la parola e narra di come le ansie del coach stiano tranciando l'anima sua e quella dei suoi compagni. Larry attende due secondi, tre. Aspetta una voce, anche solo una, che venga in soccorso. Silenzio. Il coach chiama Croce e si dimette, con la squadra prima nella conference.

Da qualche parte nello spogliatoio c'è Herb.
Herb?
Herb.

Nel vortice delle emozioni c'è stato posto anche per una telefonata.

Mamma Ann, la fornaia, ultranovantenne, è confinata a Charlotte (North Carolina, e dove sennò?). La sera pretende la seggiola verde per vedere le partite dei figli. Oddio, figli. Figlio. Herb è quasi sparito, annientato dalla diatriba con il fratello, quello dolce, adorabile, quello di cui mamma chiede sempre entro i primi dieci secondi d'ogni telefonata. Herb se ne sarebbe poi andato a Portland prima di ricongiungersi a Detroit col prediletto di mamma Ann, che aveva favorito la riconciliazione. 

Pat Croce, conscio che il genio e il talento non possono mai sgorgare senza un livello esorbitante d'emozione, vive l'anno schizofrenico tra i due mediando, addolcendo, ricordando a entrambi le parole delle loro madri, come il detto di mamma Brown "...cos'è tutta questa tsuris?". Le nonne, quelle cresciute in Europa, inseguite dalla Gestapo, quella parola la conoscono. Quell'ansia trascinante che t'attanaglia prima di un evento, di una decisione, di un conflitto. La tsuris, insomma.

La tsuris ti fa dimettere con la squadra prima in classifica, con un crocefisso nero in tasca e con il giocatore che nessuno riusciva ad allenare che è diventato il miglior giocatore della lega.

E invece no. Brown cambia idea. Si va fino a "Mount Shaq". Gara 1. I Sixers reggono al totem con il numero 34, ma sono sotto. Horry, a un minuto e mezzo dal termine, coi suoi sopra di cinque, si vede giustamente fischiare un blocco in movimento.

I prossimi sei minuti (uno più i cinque di supplementare) sono la Cappella Sistina del nipote di Willie Lee e del figlio di Milton, il commesso viaggiatore. In sala stampa Iverson si presenta con la sua bambina in braccio, quello che adesso fan tutti, segnando l'ennesimo trend della sua vita.

I Sixers, sconfitti di tre volte di seguito a Phila, non scaleranno "Mount Shaq". Coach Brown, affranto per esiti e tsuris, non vorrà nemmeno allenare in gara 5 e verrà convinto solo a tre quarti d'ora dalla palla a due. Contemporaneamente un'agenzia di viaggio di Detroit stava confermando ai signori Dumars quei due posti in prima classe per Londra. Un vecchio sogno: andare a vedere Wimbledon.

E invece no. Grant Hill, destinato da free agent a Orlando, non si accontenta di 80 milioni, ne vuole 100. Bisogna architettare una sign-and-trade dando a "the man from Durham" quel che vuole per poi cederlo. Tra gli altri, a Detroit arriva Ben Wallace. Allen e Brown si lasceranno per sempre una sera della primavera 2003.

Gara 6, Pistons 3 e Sixers 2. Iverson, come il Melvin Johnson di Lugano, a tre quarti d'ora dalla palla a due non è ancora... in the house. Solo che quella era regular season elvetica. Questa è una semifinale di conference NBA. Brown, tradito, nota che tra l'altro quella sera a fischiare sarà Ben Salvatore, uno con cui, diciamo così, non si scambia gli auguri di Natale e non perché è cresciuto in sinagoga.

Larry "decide" che i suoi perderanno. E così sarà. Lo chiama Houston e lui dice alla signora Shelly di andare in Texas a cercare casa. Il giorno del draft dall'altra parte della linea telefonica c'è LeBron. "Coach, vieni?". Brown pensa certamente alle parole di Ann Iverson su come un giovane uomo abbia bisogno di un anziano che veda per lui, ma resiste. 

Chiama Joe Dumars, quello di Wimbledon, e il coach dice di sì. Mamma Ann a Charlotte pretende ogni sera di più la seggiola verde. Herb ha superato la Grande Diatriba. Si ritorna davanti a "Mount Shaq", stavolta molto più scalabile. E così sarà.


All'ultima sirena Larry corre ad abbracciare... Kobe Bryant. 
Kobe?
Sì, Kobe. Il nipote di "zio" Leone, il giocatore di Herb. Il prossimo da "salvare" è lui. Fidatevi.

FEDERICO BUFFA
(4 - fine)

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