Il ciclismo piange De Zan, mezzo secolo di emozioni


di EUGENIO CAPODACQUA
la Repubblica ©, 25 agosto 2001

Dopo una lunga e terribile malattia è morto ieri mattina Adriano De Zan, la più popolare e amata voce del ciclismo. Si è spento al Policlinico di Milano, ucciso da una leucemia, sotto gli occhi dei parenti e degli amici più intimi: il figlio Davide, 39 anni, telecronista sportivo nelle reti Mediaset, la ex moglie Laura, mamma di Davide, la compagna Simona, l'ex corridore Davide Cassani, il dott. Enrico Fagnani, medico del ciclismo, e i sanitari del reparto Granelli. 

«Aveva già il male in corpo all' ultimo Giro. Ma ha voluto farlo lo stesso fino all' ultima tappa, senza ascoltare i consigli di chi gli voleva bene, perché amava troppo il Giro e la sua professione», ha detto affranto Davide, che gli è rimasto vicino durante tutta la malattia. Adriano ha voluto lavorare fino all' ultimo: ai primi di agosto era ancora lì, al suo posto sul palco, per commentare il GP di Camaiore. «Ho bisogno - diceva - dell'aria, del sole, della pioggia, del vento: tutte cose che il mestiere di telecronista del ciclismo mi regala». Il ciclismo era la sua vita. «Sono uno zingaro che si trova a suo agio nell'atmosfera di caravanserraglio, di baraccone, di festa permanente che è il mondo delle corse in bici». 

Profondo il lutto del mondo dello sport, del ciclismo e del giornalismo. Da Zavoli al presidente della Rai, Zaccaria, ai campioni da lui celebrati: Moser, Saronni, Gimondi, al sindaco di Roma, Veltroni, legato a lui da antica amicizia: «Diamo l'addio a un grande giornalista, a una voce storica della televisione sportiva». 

Quasi mezzo secolo di ciclismo è passato davanti agli occhi di Adriano. Da Coppi (che gli concesse la confidenza del "tu"), allo scettico Bartali, che vedeva quasi con fastidio quell'omino in tuta con il microfono proteso. «La tv? - diceva Bartali - non interessa a nessuno». Quanto si sbagliava, il buon Ginettaccio, quanto aveva ragione lui, Adriano, che su una telecronaca improvvisata e inventata con tanto di nomi e situazioni aveva costruito l'inizio della sua carriera, superando, in quel modo, l'esame per l'ingresso in RAI. Aveva ragione perché la tv si è legata indissolubilmente al ciclismo, nel bene e nel male. Facendolo crescere dapprima, per trasformarlo irrimediabilmente poi. Al punto che lui, fedele testimone delle imprese dei Nencini, come di Gimondi, Merckx, Moser, Saronni, Motta, Bugno, Chiappucci, fino ai giovani rampanti di oggi, nel ciclismo attuale si riconosceva poco: «Tanto di cappello allo sforzo dei corridori - diceva - ma non vedo più la fantasia di una volta». 

Fantasia, umanità, cultura, poesia. De Zan è stato l'ultimo grande cantore, con i suoi errori, le sue esitazioni, i suoi sentimenti a nudo, la sua esuberanza. Lui grande ammiratore di Coppi ("Era il mio idolo") al punto da rimanere senza parole col microfono in mano quando il Campionissimo fu battuto da Darrigade nel Giro di Lombardia del '56. Lui ciclista praticante: «Sono stato campione italiano dei giornalisti», diceva fiero. Lui finito con la bici nel Naviglio per evitare di essere investito e subito pronto a riderci sopra. Lui gaudente senza riserve, sempre circondato di belle donne. Lui divulgatore, che raccontava anche l'Italia attorno al ciclismo. Lui indulgente con il doping: «Perché levare alla gente il sogno di uno sport pulito?». Lui incline alla commozione e alla lacrima sincera quando parlava di Casartelli e della sua tragica fine sul Portet d'Aspet, cinque anni fa. 

Aveva ragione e gli davano ragione, perché lui "era" il ciclismo, o, almeno, era visto come parte integrante di esso. Così nessuno si meravigliò, quando al Giro di Toscana '78 la troupe arrivò tardi e non fece in tempo a filmare l'arrivo, e lui convinse il vincitore, Perletto, a ripassare sul traguardo, ripetendo i gesti della vittoria. Era un ciclismo ancora eroico, provinciale, da strapaese, ma umano, umanissimo, che lui sapeva cogliere perfettamente. Celiando con garbo e appoggiandosi spesso a gustosi aneddoti. Oppure divenendo protagonista di essi. I corridori che si gettano come cavallette nei bar sul tracciato del Giro lasciando il conto da pagare a Torriani, il mitico patron della corsa rosa; il cinismo degli atleti che - per metterlo a disagio - sul traguardo siculo di Ficarazzi facevano transitare sempre per primo un certo Cazzolato. Solo per sentirlo sillabare al suo modo il nome. Di lui resta anche questo, un cliché indimenticabile: il suo scandire i nomi con cadenza che per gli appassionati coincideva con l'epica stessa del gesto pedalato. Appoggiato alla balaustra, il microfono in mano, sparava una sfilza di nomi segnando le emozioni di milioni di appassionati. Quel suo "gentili signore e signori, buongiorno" è stato per decenni la colonna sonora delle due ruote.

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