FOOTBALL PORTRAITS - Sinisa Mihajlović - Quel bambino che portava il pallone dove covava la guerra (2008)



«Da piccolo sfondavo la saracinesca del garage: ogni due mesi mio padre doveva cambiarla». Alla Stella Rossa, per studiarlo si scomoda mezza facoltà di Fisica: «Più che dalla potenza del tiro, i prof erano colpiti dalle traiettorie che imprimevo al pallone. E ancora adesso, la perfezione mi affascina: nel calcio, nella vita, sempre». 

Predestinato, Siniša Mihajlović. Il primo pallone è il primo amore, e non si scorda mai. «Era il 1973 – racconta – La mia era una famiglia modesta. Papà lo acquistò a una bancarella da un ambulante polacco. Era giallo, di cuoio, con tutto il necessario per ingrassarlo. Giurai a me stesso di non usarlo mai sull’asfalto, ma solo sull’erba. Alla fine, durò ben quattro anni». 

I primi di una favola, se non della carriera, per il futuro Sinistro di Dio, serbo di Vukovar (20-2-1969) che con il padre Bogdan (serbo nato in Bosnia) e la madre serbo di Vukovar (20-2-1969). nella vicina Borovo Selo, dove il Danubio incontra la Vuka e la Croazia, più a est, diventa Serbia. Un melting pot senza il bisogno di affermarlo. «Con gli altri ragazzi del paese giocavamo al Rio, il campetto sulla pista in erba dell’aeroporto di Borovo, meta abituale dei paracadutisti e oggi visibile testimonianza di ciò che la guerra lascia. Io giocavo sempre, ma solo perché il pallone era il mio. Prendevo tante botte, ma mi servì, perché in mezzo a gente più grande di me diventai più tosto dei miei coetanei». «Da piccolo finivo spesso in qualche rissa. Le davo e le prendevo, anche contro i più grandi. Non avevo paura. Un’insegnante, che viveva nella nostra strada, non mi voleva perché pensava che portassi guai. Ma io a scuola andavo benissimo, ero uno dei migliori. In seguito, mi disse di essersi pentita, perché in classe ero molto diverso da com’ero in strada». 

Già, la strada. Impossibile parlare di Siniša, il più forte del gruppo «di oltre via Borovo», senza tirarla in ballo. Il nome è quello della squadra di tutti: l’FC Borovo, il cui vivaio, con quelli di Osijek, Novi Sad e Skopje, è stoicamente fra i migliori della ex Jugoslavia. Ai tempi, vi allenano Zvonko Popović e Slobodan Djurica. «Siniša era il più piccolo – ricorda Popović – ma si vedeva che era speciale, e non solo per il sinistro». Nessuno poteva ancora intravedervi un campione, anche perché non era il classico uomo-squadra, «ma dentro aveva una scintilla, un qualcosa di straordinario». 

La prima squadra se ne accorge a fine 1986. E pure un armadio di 1,90 x 90 kg con cui, in un contrasto, incidentalmente Siniša si scalcia: «Rifallo e ti spezzo le gambe», gli fa quello nel rialzarsi. Miha lo affronta a muso duro come farà a Francia 98 contro il tedesco Jens Jeremies, o nel 2003 con Adrian Mutu del Chelsea in Champions, ma stavolta senza sputare: si gira e riprende a giocare. Parola di Siniša Lazić, compagno di tre anni più grande cui la matricola Mihajlović era deputata a pulire le scarpette da gioco. Siniša Cucković è invece uno dei suoi più grandi amici, sin dall’infanzia a Borovo. E gli si può credere quando racconta che «Siniša era uno come noi, figlio di un camionista che guidava il Tamic per un’impresa edile di Vukovar, e di una dipendente della fabbrica di scarpe di Borovo. Ma sapevo che avrebbe sfondato. Me lo diceva sempre, ed era vero: se non nel calcio, in qualche altro sport: pallamano, basket pallavolo, tennis, ping pong. Era bravo in tutto. Anche negli studi. Al primo anno di Professionali (perito meccanico) andava benissimo, ma l’istituto era lontano e il trasferimento gli rendeva difficile allenarsi. Allora s’iscrisse alla scuola calzaturiera. Gli andò bene perché il preside era, ed è, Slobodan Perić, uno dei dirigenti del Borovo. Spesso era lui che ne giustificava le assenze, e lo aiutò anche in certe situazioni». 

Il più era fatto. Al Borovo lo noterà Milorad Kosanović, scout del Vojvodina di Novi Sad ma originario del posto. Il tecnico, in quei tempi di guerra, è Nikola Kiko Marjanović, maestro di calcio che ne decreterà le fortune. Siniša gioca ala sinistra (con l’amato numero 11) o da attaccante esterno, ma per la carenza di difensori spesso viene arretrato a centrale. Gli ci vorranno 14 anni prima che Sven-Göran Eriksson gli reinventi la carriera, e con una mossa già testata nelle giovanili. 

La leadership da capitano (nonostante la presenza di un leader quale Slavko Baketa) e le espulsioni per proteste, invece, sono innate. La fascia al braccio, pensava Popović, diventato capoallenatore, lo avrebbe responsabilizzato. Seh. Anche perché l’idillio è agli sgoccioli. 

Nel 1987 Miha, nazionale giovanile, pare già della Dinamo Zagabria. Un serbo alla squadra-totem della Croazia: apriti cielo. Ma il contratto da apprendista (anziché da pro’) e soprattutto il ricatto di Mirko Jozić («Senti, ragazzino, ai Mondiali in Cile ci vai se firmi per la Dinamo, sennò te torni a casa») gli fanno capire che no, non è il caso. E così il protagonista delle qualificazioni di Zavidović si guarda in tv gli ex compagni che diventano campioni del mondo. Ma la vendetta è un piatto freddo. Come il sushi. 

Nel 1991 con la Stella Rossa dei fenomeni vince ai rigori contro l’Olympique Marsiglia (a Bari, casa dei Matarrese) l’ultima edizione della Coppa dei Campioni e a Tokyo sfila la Coppa Intercontinentale del Colo-Colo, allenati, massì, da Jozić. L’mvp contro i cileni è Vladimir Jugović, ma basta un’occhiata al dvd per capire che il migliore era stato quell’universale dal sinistro terribile e dalle guance ancora paffute. 

Ormai anche Mihajlović è una star. E come Dejan Savicević, Dragan Stojković, lo stesso Jugović, Prosinečki, Miodrag Belodedić e persino Darko Pancev scappa dalla guerra, e verso l’Eldorado. 


Lo trova fra Roma, Sampdoria, Lazio e Inter. Recordman per gol su punizione in A (27 dei suoi 35) e in una partita (tre), in Italia trova successi e moglie, Arianna, ex valletta a Domenica In. Ma anche polemiche a non finire, tanto che a volte sembra ci sguazzi. Inutile, o forse no, rivangare: la T-shirt col cannone puntato; lo striscione in onore dello scomparso Tigre Arkan (Željko Ražnatović), criminale di guerra da lui conosciuto quando anziché la pulizia etnica il Comandante organizzava l’ala più estremista del tifo della Stella Rossa; la squalifica per 8 turni e il multone UEFA per lo scambio d’insulti razzisti con Patrick Vieira («zingaro di m.» la provocazione del francese, «negro di m.» la risposta del serbo) in Lazio-Arsenal della Champions League 1999-2000 è storia vecchia. 


La nuova è iniziata da due anni, chiusi con altrettanti scudetti all’Inter come vice dell’amico Roberto Mancini. Spifferi dicono che il kicker delle ultime stagioni in scarpette bullonate stesse già studiando per la seconda carriera. Anche questa, ovvio, da predestinato. 

la Repubblica, ed. Bologna – 8 novembre 2008



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