FOOTBALL PORTRAITS - Hernanes, le meraviglie del Profeta (2014)


di CHRISTIAN GIORDANO ©
Guerin Sportivo © n. 3, marzo 2014 

Nato a Recife, prodotto del vivaio del São Paulo come Kaká, il Profeta ama la buna cucina (migliorata nei tre anni e mezzo a Roma), la chitarra e i libri. Specie la Bibbia. L’Inter di Walter Mazzarri, spendendo 20 milioni di euro, ha finalmente il giocatore per ripartire 

«Un essere umano nasce con quattro doni. Il primo è la vita. Il secondo è saper fare le cose: giocare a calcio, disegnare, creare arti e scienze, tutto ciò che possiamo imparare. Il terzo è il dono di amare, del piacere per le cose. E l’ultimo è quello di poter credere in qualcosa». 

Così predicava il profeta Hernanes a Jonas Oliveira sul mensile brasiliano Placar numero 1348, novembre 2010. 

«’A Profe’ nun te ne anna’». 

Così lo implorava il popolo laziale, con lui in lacrime fuori dal finestrino per autografi e selfie da smartphone all’uscita dal centro tecnico di Formello. Un video già web-culto. 

Lacrime sincere, di Aquila più che di coccodrillo. Biancoceleste nel cuore. Era il 30 gennaio, penultimo giorno del mercato e ultimo di quattro anni alla Lazio. Perché poi se n’è annato, er Profeta: per un quadriennale fino al 30 giugno 2018 da 2,9 milioni di euro a stagione più benefit fino a 3,4. E una “grande” che da tanto, forse troppo, lui meritava. Anche se grande vera l’Inter di Erick Thohir non è mai stata, e chissà se mai lo diventerà. 

Il primo vero colpo della sua gestione, sanati debiti per 180 milioni, è però un buon inizio, costato caro: 15 più 5 di bonus. 

FAME DA CAMPIONE 

Hernanes non sarà un top player, ma è un campione. E ha fame. Dopo i Brasileirão 2007 e 2008 (da MVP) col São Paulo e la Coppa Italia 2013 con la Lazio («oltre non potevo andare»), vuole tornare a vincere. Dopo l’argento olimpico a Pechino 2008, sfumato Sudafrica 2010 con Dunga Ct, insegue il Mondiale in casa con la Seleção, mai davvero riconquistata con Mano Menezes dopo il rosso per il piede a martello sul francese Karim Benzema e l’opaca Confederations Cup vinta da comprimario con Felipe Scolari, che gli preferisce la coppia tutta sostanza Luiz Gustavo-Paulinho. Per lui invece stravede Paulo Roberto Falcão, il Divino che all’Inter, dopo lo scudetto con la Roma del 1983, non ci andò per il niet di Dino Viola a Ivanhoe Fraizzoli: «È l’unico che in campo fa quel che facevo io. È il mio erede». Non ditelo però ai tifosi laziali, in piazza contro la cessione come per quella di Beppe Signori. Nessuna critica, invece, da certa stampa per l’88 scelto dal neo-nerazzurro (alla Lazio aveva l’8, che all’Inter è di Rodrigo Palacio), e che nel Parma 2000-2001 costrinse il “quadripallico” Gianluigi Buffon a ripiegare sul 77, associato semmai alle gambe delle donne e certo non all’acronimo di «Heil Hitler» evocato dalla doppia H, ottava lettera dell’alfabeto. 

RECIFE, TERRA DI CAMPIONI 

Come prima Vavá e Rivaldo (che è di Paulista, nell’hinterland), Anderson Hernandes de Carvalho Viana Lima viene da Recife: terra di campioni. Lui però è nato, il 29 maggio 1985, ad Aliança, 3 5mila anime a 25,4 ºC umidi di media l’anno nel nord del Pernambuco, a 82 km dalla capitale statale. Classico prodotto bianco della Cotia, la Masia del São Paulo, è subito il «nuovo Kaká» più per il faccino e i modi educati da bravo ragazzo che per ruolo (secondo volante il neo-interista, meia il milanista di ritorno), passo, dribbling e tiro. Hernanes comincia sul serio a 14 anni nel futsal poi nell’Unibol Pernambuco Futebol Clube, squadretta fondata dall’ex pilota di Formula 1 Emerson Fittipaldi nel 1996 a Paulista, la maggiore area metropolitana di Recife. Ora funziona solo a livello giovanile. Due stagioni dopo, nel 2001, entra nelle giovanili del São Paulo. E dopo quattro di trafila, firma da pro’ con la prima squadra, che Paulo Autuori sta traghettando verso il gran ritorno di Muricy Ramalho: tre titoli nazionali nel 2006-2009, ma anche la dolorosa finale di Libertadores 2006 persa dal São Paulo campione uscente del Sudamerica e del mondo. Il primo anno Hernanes si siede un po’, e lo parcheggiano in Serie B, al Santo André, club della sconfinata zona industriale paulista ma comunque a portata degli osservatori tricolor. La sveglia funziona: 8 gol in 43 partite, e pronto ritorno alla casa-madre. Non era una bocciatura, ma una chance per fargli fare le ossa. 

ORGOGLIO COTIA 

«Hernanes, Oscar e Lucas – tutti in gol nel 3-0 in amichevole alla Francia il 9 giugno 2013 a Porto Alegre – hanno salvato la Seleção» dirà all’emittente R7, con orgoglio non disinteressato, Juvenal Juvêncio, al secondo mandato presidenziale fino al prossimo 21 aprile. Sono gli ultimi craques della Cotia, il Centro de Formação de Atletas intitolato all’ex presidente Laudo Natel, che di recente ha sfornato pure Breno, Jean, Casemiro, Lucas Piazón. A differenza di Kaká, rampollo di una famiglia-bene che dopo il calcio se ne tornava nella sua bella casa, Hernanes lì, a mezzora dal Morumbi, c’è cresciuto sin da ragazzino. In foresteria, ha presto imparato a cavarsela da solo, nelle faccende come a tavola. Risale a quegli anni infatti la sua passione per la cucina. Del trasferimento a Roma, costato alla Lazio 11,1 milioni, lo «preoccupavano due cose: il clima e il cibo». Quasi commovente nella spola tra Villa San Sebastiano (quartier generale romano del presidente laziale Claudio Lotito) e zona San Babila a Milano (ufficio di Rinaldo Ghelfi, nel cda l’uomo delle finanze nerazzurre) nella telenovela per portarlo all’Inter, il suo procuratore Joseph Lee racconta che nelle prime settimane romane gli fece avere lui qualche chilo di fagioli. Con riso e farina, per stessa ammissione del Profeta, «gli altri alimenti che non possono mai mancare a casa mia». Professionista esemplare, il brasiliano è però goloso. Il veloce metabolismo gli consente di bruciare con facilità calorie, ma adora gelato e pizza e non si nega la scoperta di nuovi sapori, magari sperimentando di persona qualche dritta del fido Giocondo: «Mi piaceva imparare a cucinare già quando ero in Brasile, a Formello ho conosciuto il nostro cuoco e ho voluto subito imparare da lui. Cucino di tutto, dal risotto alla crostata e anche la pizza». 

ROMA, CASA 

Oltre i fornelli i suoi hobby sono la chitarra, i velivoli leggeri (a Roma ha frequentato un corso per la licenza di pilota) e soprattutto i libri. «È curioso di natura», diceva Edy Reja, con cui tatticamente non sempre si capiva, anzi. Alla seconda stagione, snaturandolo da mezzapunta spesso spalle alla porta, ne fece il più sostituito della Serie A. Gira con la Bibbia e studia chimica, storia, lingue. L’italiano, imparato frequentando lezioni intensive, lo parla benissimo. Passo necessario verso una integrazione che è stata totale, immediata, per tutta la famiglia: la moglie Erica, sposata sette anni fa, e i figli Ezequiel, Lúcia e Máximo (dopo i due biblici, un nome da gladiatore, perché il terzogenito è nato a Roma). Nella capitale si era subito sentito a casa. Dal suo arrivo, ne ha cambiate tre: al Fleming e sulla Cassia, prima vicino a quella del compagno André Dias, arrivato con lui dopo tre anni di São Paulo, poi in un bunker iper-protetto dell’Olgiata. Unica concessione da vip a una vita da anti-personaggio, fatta di social network, rare uscite al McDonald coi bambini, il Frecciarossa per Milano preso come un normale pendolare, che però andava all’Inter. Una presentazione low profile, con un maglione di lana blu stellato degno del pullover con renna di Colin Firth ne Il diario di Bridget Jones. Il tiro no, però: quello è da fuoriclasse e con entrambi i piedi. Nelle giovanili del San Paolo, in una partità segnò due volte su punizione: una di destro, l’altra di sinistro. Esercitato in allenamento anche fino a sera se non gli riuscivano i 100 palleggi filati ispiratigli dal mancino Felipe, idolo al Vasco e passato in un amen da erede di Roberto Carlos come terzino sinistro della nazionale a trequartista-meteora che Fabio Capello stoppò alla Roma nel 1999 per le cattive abitudini extra-calcio. 

VISIONI DA FILM 

Roma era nel suo destino, un film da sogno. «Nessuno può arrivare in un posto prima della propria immaginazione. Guardando Il Gladiatore, ho visto il Colosseo. E ora sono qui», disse quando sbarcò in Italia. Teorica prima tappa verso l’Inghilterra (l’Arsenal, per il gioco palla a terra) rimasta invece doppio sogno schnitzleriano nell’inconscio alla Kubrick: a occhi spalancati chiusi. Lo racconta Paolo Stoppini, consulente di mercato con ottimi contatti brasiliani e amico vero che gli ha regalato la Divina Commedia; un bignami, mica quella con le celebri illustrazioni di Gustave Doré: Hernanes, evangelico osservante ai limiti del fanatismo (in senso buono) ne era attratto per la profonda religiosità. La stessa che il Profeta mette in tutto, persino in coda agli autografi, chiusi dall’immancabile «OJ»: Obrigado Jesus, grazie Gesù. 

O MESTRE JOTA 

Atletismo naturale a parte (vedi il carpiato mortale che ne caratterizza ogni esultanza), Hernanes deve molto anche al suo maestro Jota Alves, conosciuto a 15 anni al São Paolo e col quale collabora dal 2008. Lo stile di corsa, modellato sulla tecnica di Usain Bolt, poi affinato alla Lazio dal preparatore Paolo Rongoni e da Jesse Fioranelli, l’analista tattico di Vlado Petković (decisivo nel riportarlo a mezzapunta nel 4-1-4-1 dopo i flop da regista nel 4-4-2 in precampionato ad Auronzo), è merito anche di questo 68enne scienziato del calcio e del suo sacro testo, Futebol completo com logica: «Ha imparato a correre guardando Bolt. 

Aveva cominciato a 14 anni col calcetto, era forte nel dribbling e nel tiro, e tanto gli bastava; ma era lento, gli portai un dvd per studiare la tecnica degli uomini più veloci al mondo. Lo vidi giocare quando ancora non era al São Paulo. Me ne parlò Gildo, il suo primo procuratore, e andai a vederlo. Impossibile trovare un giocatore con tanto interesse nel migliorarsi. Nessuno conosce la materia e il mio libro meglio di lui. Sogno che riesca a vincere il titolo di miglior giocatore al mondo». Vedremo se sarà buon Profeta. 
Christian Giordano ©
Guerin Sportivo © n. 3, marzo 2014 

Che fine ha fatto 
Profeta, né vero né farlocco, non lo è più stato. Né all’Inter né alla Juventus, dove già alla presentazione gli stessi dirigenti ammisero di aver preso non una loro prima scelta ma il meglio che c’era a disposizione. Chi mal comincia…

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