FOOTBALL PORTRAITS - Tugay pride


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Uno degli ultimi registi puri del calcio europeo sta vivendo in Inghilterra una seconda giovinezza. E per godersela, perso contro la Lituania il treno per Euro2004, ha detto addio alla Nazionale. Storia di un talento orgoglioso, sottovalutato e spesso al posto giusto nel momento sbagliato

di Christian Giordano, Calcio Gold

C’è un vecchietto, in Premiership, che gioca ancora come un ragazzino, alla faccia dell’età (33 anni) e degli acciacchi. Si chiama Tugay Kerimoğlu, per tutti Tugay, una vita al Galatasaray e ora, messa alle spalle una fugace e dolceamara parentesi ai Glasgow Rangers, nuovo idolo dell'Ewood Park.

Al Blackburn il centrocampista turco, uno degli ultimi playmaker veri ancora in circolazione, sembra essersi rigenerato, dopo una fase declinante trascorsa più in panchina che in campo, al “Gala”, nell’ultimo anno della prima gestione Terim allorché patì la concorrenza di Evren Turhal, costoso acquisto proveniente dal Kocaelispor, e nei 18 mesi trascorsi in Scozia.

Tugay attraversa la Manica nel gennaio 2000 quando i Blues, grazie ai buoni uffici dell’ex capitano della nazionale inglese Mick Mills, oggi procuratore, lo strappano alla concorrenza di Newcastle United e Benfica. 1,3 milioni di sterline alla società, contratto triennale al giocatore (primo turco del campionato scozzese) e il 14° trasferimento all’estero di un ex Galatasaray è cosa fatta. Ad Ibrox però, complice la scarsa fiducia dimostratagli dal tecnico Dick Advocaat, il nazionale turco stenta. Nonostante le tante mezze promesse di dargli più spazio, il manager olandese non lo “vede” e Kerimoglu si ritrova al punto di partenza: fra le riserve. Da buon professionista qual è non fa la guerra al Piccolo Generale, s’impegna al massimo per riconquistare il posto in squadra ma dichiara pubblicamente che, non riuscendoci, sarebbe costretto a cambiare aria. Le cose non mutano neanche nel 2000-01 (25 presenze tra campionato e coppe, appena 12 quelle da titolare): di panchina ne fa tanta, troppa per affrontare un’altra stagione, quella dei mondiali, a mezzo servizio. Rimanere ai Rangers significherebbe per lui dire addio alla Coppa del Mondo, competizione che la Turchia insegue da 48 anni e alla quale Tugay, reduce da due Europei consecutivi (1996 e 2000), non vuole assolutamente mancare. Ormai 31enne, perno di una nazionale storicamente ai margini del grande calcio ed essendo abituato, nel Galatasaray, a giocare con continuità – e per di più accanto a un fuoriclasse come il rumeno Hagi, da sempre suo convinto estimatore –, per Kerimoglu la situazione è insostenibile. Così, nel luglio del 2001, fa fagotto e per 2 milioni di euro (la stessa cifra sborsata dai Rangers un anno e mezzo addietro) si trasferisce in Inghilterra, al neopromosso Blackburn. A volerlo è Graeme Souness, che lo aveva allenato in riva al Bosforo prima di raccomandarlo al manager dei ’Gers, club che proprio con Souness alla guida aveva conosciuto un quinquennio (1986-91) di straordinari successi. 

Espletate le insolitamente impervie difficoltà burocratiche – il locale Ministero del Lavoro inizialmente gli nega il permesso di soggiorno salvo poi concederglielo accogliendo il suo ricorso in appello –, Tugay diventa il faro della squadra, come ai vecchi tempi. Debutta nella vittoria (1-0) a Southampton e segna il suo primo gol nel 7-1 casalingo rifilato al derelitto West Ham United, con un classico del proprio repertorio: il bolide dalla lunga distanza. Tugay torna ad essere un giocatore a tempo pieno, e la svolta era stata la chiamata dell’antico maestro che al Galatasaray lo aveva nominato capitano appena 23enne (il più giovane nella storia del club, ndr), investendolo dei compiti di suo assistente in campo. «Souness e io abbiamo un rapporto che a volte è più quello tra padre e figlio, altre è più vicino a quello che si ha con un fratello maggiore; ed è così dai tempi del Galatasaray» dice oggi Tugay. «Per capire come è fatto devi averci già lavorato. Lui è uno che capisce di calcio, avendolo praticato ai massimi livelli. I traguardi ottenuti dal Blackburn (promozione in Premiership nel 2001, 10° posto e Coppa di Lega nel 2002, sesta piazza l’anno dopo, ndr) in buona parte sono merito suo». Così come la seconda giovinezza calcistica di Tugay, risorto dalle proprie ceneri neanche fosse l’araba fenice. 

Dopo il “monumento” Hakan Sukur, è lui il giocatore più rappresentativo prodotto in tempi recenti dal calcio turco, di certo lo è più del reclamizzatissimo interista Emre (“il Maradona del Bosforo”) o dei tanti connazionali sparsi per i campionati di mezza Europa, eppure al grande pubblico il suo nome dice poco. 

Al mondiale nippo-coreano il rendimento di Tugay è stato buono, quello della sua squadra, terza, addirittura eccezionale. Diversamente era andata agli Europei del 2000, quando il centrocampista aveva fatto parlare di sé più per motivi disciplinari che per questioni tecniche. I rapporti con il Ct della Turchia, Mustafa Denizli, suo ex allenatore al Galatasaray, non erano più quelli di un tempo. Lo conferma l’episodio che, proprio sul più bello, costa a Tugay l’immediato ritorno a casa. Subentrato a partita in corso con l’Italia e con la Svezia, è finalmente titolare nella cruciale gara del 19 giugno, a Bruxelles contro il Belgio. I turchi vinsero 2-0, ma Tugay, sostituito con Tayfur Havuctu dopo appena 37’, perse le staffe e lanciò maglia e parastinchi all’indirizzo del selezionatore, sbraitando contro il mondo. Denizli non volle sentire ragioni e rispedì in patria l’ex pupillo, che così saltò lo storico quarto di finale contro il Portogallo in programma ad Amsterdam cinque giorni dopo. 

«Non avrei dovuto farlo» ammetterà a mente fredda il giocatore in un’intervista all’agenzia di stampa turca Anatolia. «Mi sono scusato con il Ct ma in quel momento ero molto nervoso per la tensione che c’era allo stadio e per l’importanza della partita. Non ricordo neanche bene che cosa ho fatto». Ma degli eccessi dovuti alla trance agonistica di una star ormai trentenne che i Rangers avevano pagato poco meno di un milione e mezzo di sterline, importava a pochi. Di sicuro non al tecnico che al Galatasaray lo aveva aggregato alla prima squadra e che in nazionale lo aveva convocato per gran parte della sessantina di presenze fin lì accumulate da Tugay. «Non ho bisogno di lui» sbottò con la stampa Denizli. «Avrebbe dovuto comportarsi da professionista, quindi andava sospeso per il suo inqualificabile comportamento». Non che si potessero attribuire al giocatore responsabilità dirette, ma nemmeno l’UEFA gradì l’episodio anche perché a metterci il carico da undici furono i disordini scoppiati, subito dopo il match, fra un migliaio di tifosi turchi e di immigrati africani convolati in pieno centro, a Grand’Place. Era noto che al termine del torneo Denizli sarebbe andato al Fenerbahçe, quindi la carriera di Tugay in nazionale, all’epoca seriamente compromessa, aveva ancora una chance di continuare.

Nato a Istanbul il 24 agosto del 1970, Tugay è figlio e fratello d’arte: suo padre Ozkan ha giocato a livello semiprofessionistico prima di diventare dirigente bancario, il fratello maggiore, Tolgay, nel Trabzonspor, la squadra simbolo della parte asiatica della città. Lì il mussulmano Tugay muove i primi passi che, di lì a due anni, lo porteranno a entrare nel settore giovanile del Galatasaray. Compiuta la trafila nelle giovanili, comprensiva di un anno di apprendistato con la prima squadra trascorso senza scendere in campo, debutta in campionato nel 1990-91. In nove stagioni e mezza con i giallorossi vince tutto in patria e nulla all’estero, perché nel dicembre 1999, proprio alla vigilia dell’epoca d’oro del “Gala” sulla ribalta europea, decide di ricominciare da zero in un altro Paese anziché invecchiare in panca. E pazienza se, oltre a 5 campionati e 4 coppe di Turchia (numeri che aumentano di una unità considerando lo spezzone di stagione 1999-2000), 2 Coppe di Lega e 4 Supercoppe turche, avrebbe potuto arricchire la sua bacheca personale con una Coppa UEFA e una Supercoppa europea, i primi successi continentali del calcio turco. Non che sia andata male, a Tugay: “Double” ma da rincalzo coi Rangers nel 2000, Worthington Cup da titolare con i Rovers due anni dopo; è che poteva andargli meglio visto che prima (1999) e dopo (2003) la sua permanenza i ’Gers hanno centrato il “Treble”, ovvero la tripletta campionato, Coppa e Supercoppa di Scozia, che nel 2001, l’ultimo anno di Tugay ad Ibrox, premiò gli arcirivali cittadini, il Celtic.

Tugay (1,76 per 74 kg) è un centrocampista completo, capace anche di disimpegnarsi da libero, ruolo che ha coperto nel suo primo anno al Galatasaray e talvolta, con il Ct Senol Gunes, anche in Nazionale. Ha esperienza internazionale, ottima tecnica e un eccellente range di passaggio. Uno così in mezzo al campo si sente ma spesso non si “vede”, perché è un giocatore tutta sostanza quindi poco appariscente, più da addetti ai lavori che da campagna abbonamenti o da plusvalenze ma, proprio per questo, tatticamente prezioso. Sa far “girare” la squadra, dettare i tempi della manovra, ma talvolta esagera nel tenere il pallone. Il difettuccio, sopportabile ai lenti ritmi del torneo turco specie se scaturisce dal mancato smarcamento dei compagni, è un lusso insostenibile in quelli, ben più serrati, del calcio d’oltremanica. Souness, che conosce bene entrambi, lo ha preso per affidargli le chiavi della mediana, correndo ben volentieri il rischio di qualche palla persa di troppo, il vero punto debole di Tugay insieme con il gioco aereo e lo scarso feeling con il gol. 

Più che sul campo, in Inghilterra i veri problemi Tugay li ha trovati fuori: con la lingua, un avversario per lui più duro del previsto. Un po’ come accade al neomadridista David Beckham, in analoghe difficoltà con lo spagnolo, Kerimoglu non si scoraggia, perché «capire le espressioni calcistiche basilari è quanto serve per comprendere ciò che l’allenatore ti chiede. Il bravo calciatore non si esprime con le parole, ma con i piedi e con la testa. E col pallone. Per un bravo calciatore la lingua non può essere una barriera. Quando c’è spirito di squadra, in campo e fuori, che il mio inglese non sia perfetto nessuno se ne accorge». E almeno sul terreno di gioco, «Easy. Go on, son! Man on! Pressure. Turn», i pochi fonemi dell’idioma locale che ha imparato in terra d’Albione, per sopravvivere bastano e avanzano.

Giocare in Premiership si rivela per Tugay un’arma a doppio taglio quando la sua nazionale si ritrova nello stesso girone degli albionici, l’equilibratissimo Gruppo 7, nella corsa a Euro 2004. Dopo il netto 2-0 di Sunderland dello scorso 2 aprile, alcuni tabloid avevano caricato l’attesa per il retour-match dell’11 ottobre mettendogli in bocca parole – a suo dire – mai pronunciate. Stando a quanto riportato, Tugay avrebbe messo in guardia l’Inghilterra avvertendola che a Istanbul, l’11 ottobre, «si sarebbe trovata in un mare di guai» e che «si sarebbe fatta la storia». Poi, nel tunnel, al rientro negli spogliatoi, avrebbe preso di mira prima il capitano, David Beckham, e Rio Ferdinand, minacciandoli di morte. Al primo avrebbe intimato di stare attento perché «tutta la Turchia ti guarda», mentre col secondo le minacce sarebbero state ancor meno velate: «Ti consiglio di non venire, potresti farti male». Tugay ha sempre negato di aver detto quelle frasi, precisando di essersi limitato a «scoraggiare i tifosi inglesi a mettersi in viaggio senza avere i biglietti per la partita». E in questo senso gli vanno riconosciute le assennate dichiarazioni rilasciate alla vigilia dell’incontro, decisivo ai fini della qualificazione, con le quali ribadisce che «non sarebbe la fine del mondo non battere l’Inghilterra. È una partita di calcio, non una guerra». Intelligente, infine, la scelta di rifiutare di posare per la rivista inglese “FourFourTwo” in fotografie che lo mostrassero, in vista della gara di ritorno, nel gesto del taglio della gola o con indosso una T-shirt recante la scritta «Hell», inferno, accettando invece di farsi ritrarre con un rametto d’ulivo mentre nel proprio giardino si appresta a simulare la battuta a rete. Un’immagine di distensione quanto mai opportuna tenuto conto dell’aspra rivalità tra i due Paesi scoppiata nel 1993 allo stadio Ali Sami Yen di Istanbul, ritorno di Coppa Campioni dopo il 3-3 di Manchester fra il Galatasaray e lo United (la partita del “Welcome to the Hell”) ed esacerbata, sette anni dopo, da due gare di Coppa UEFA sempre con il Galatasaray protagonista: l’andata della semifinale, in casa con il Leeds United (nei tafferugli morirono 2 tifosi britannici) e la finale di Copenhagen contro l’Arsenal.

Nell’ottobre del 1987 Tugay aveva appena 17 anni quando, giovanotto di belle speranze se ne stava seduto con i suoi compagni del settore giovanile del Galatasaray, nel quartiere Florya di Istanbul, a guardare in tv la nazionale turca finire sepolta 8-0 dai Maestri inglesi. Sedici anni (e 89 gettoni) dopo, quel giocatore era il leader di una formazione che avrebbe conteso loro fino all’ultimo il passaporto per gli Europei in programma in Portogallo la prossima estate. 

Troppo lontani i mondiali del 2006, la massima rassegna continentale poteva essere il canto del cigno per la più forte Turchia di sempre (due partecipazioni agli Europei, terzo posto mondiale), e invece non è riuscita a battere l’Inghilterra e si è fatta sorprendere, nello spareggio, dalla rivelazione Lituania. Ora si aprirà un nuovo ciclo e Tugay, dopo 13 anni di onorata milizia (92 presenze e 2 gol), non ne farà parte. «Sto bene a Blackburn e ho deciso di rinunciare alla nazionale per prolungare la mia carriera in Premiership», ha dichiarato nella conferenza stampa indetta per l’occasione lo scorso 28 novembre. «Questo è il miglior periodo della mia carriera e devo pensare al futuro». Che appare roseo. Ai Rovers, se il suo manager Simon Munir otterrà il rinnovo del contratto in scadenza a giugno, o dovunque ci sia qualcuno disposto a puntare ancora sull’arzillo nonnetto nel quale il primo Chelsea dell’era Ranieri, sempre sull’orlo del fallimento, non aveva voluto (o potuto) credere e che al Galatasaray avevano dato per finito.

«Ho giocato in quel club per diciassette anni, e non mi hanno neanche detto addio». Sorpresi che si sorprenda, Mr Tugay. È il calcio moderno. Oggi non c’è più rispetto, neanche per i vecchietti.

Christian Giordano


La scheda/Tugay Kerimoglu
Ruolo: centrocampista centrale
Statura e peso: 1,76 per 74 kg
Luogo e data di nascita: Istanbul (Turchia), 24 agosto 1970
Club: Trabzonspor, Galatasaray, Glasgow Rangers, Blackburn Rovers
Presenze (e reti) in Nazionale A: 92 (2)
Esordio in Nazionale: Izmir (Tur), 27/5/1990, Turchia-EIRE 0-0
Palmarès: 7 campionati (1993, ’94, ’97, ’98, ’99, 2000*); 6 coppe nazionali (1991, ’93, ’96, ’99, 2000*); 3 coppe di Lega (1990, ’95, 2002); 4 Supercoppe nazionali (1991, ’93, ’96, ’97); medaglia d’oro con la nazionale olimpica ai Giochi del Mediterraneo 1993

* Nella stagione 1999-2000 Tugay ha militato in due squadre che hanno centrato la doppietta campionato-Coppa nei rispettivi Paesi, il Galatasaray in Turchia e i Glasgow Rangers in Scozia.


Cifre in carriera
Stagione Squadra Cat. Pres. Reti
1989-90 Galatasaray (Tur) A - -
1990-91 Galatasaray (Tur) A 12 0
1991-92 Galatasaray (Tur) A 26 3
1992-93 Galatasaray (Tur) A 25 6
1993-94 Galatasaray (Tur) A 25 12
1994-95 Galatasaray (Tur) A 23 1
1995-96 Galatasaray (Tur) A 30 3
1996-97 Galatasaray (Tur) A 33 4
1997-98 Galatasaray (Tur) A 30 2
1998-99 Galatasaray (Tur) A 22 2
1999-00 (dic.) Galatasaray (Tur) A 10 1
1999-00 Glasgow Rangers (Sco) A 16 1
2000-01 Glasgow Rangers (Sco) A 26 3
2001-02 Blackburn Rovers (Ing) A 33 3
2002-03 Blackburn Rovers (Ing) A 37 1


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