HOOPS MEMORIES - Celtics '86, il sedicesimo sigillo
I Celtics ’85-86, una delle più grandi squadre di tutti tempi. Secondo molti, la più grande. Una frontline da sogno e il fattore Garden regalano a Boston il terzo titolo NBA del decennio, ma non la rivincita che tutti volevano: quella con i Lakers di Magic
di Christian Giordano © - American Superbasket
«For 20 years the Celtics stood for something. The only thing they stand for now is the anthem». La battuta, al vetriolo, è di Bob Ryan, una vita da columnist al servizio del “Boston Globe” spesa al seguito dei biancoverdi “irlandesi”. Per vent’anni i Celtics sono stati in lizza (to stand for) per [vincere] qualcosa, leggi il titolo NBA. Oggi, l’unica cosa per la quale stanno in piedi (to stand) è l’inno nazionale. Il giochino di parole, invero facile facile, riassume al meglio il complicato ricambio generazionale vissuto dalla squadra col trifoglio sul petto nel passaggio fra due epopee: quella del mito Bill Russell e quella del suo erede spirituale Larry Bird. Nel mezzo, il fugace interregno del re guerriero Dave Cowens, assiso sul trono di campione nel ’74 e nel ’76.
C’erano voluti una dozzina di anni al presidentissimo Arnold (per tutti Red) Auerbach per ricostruire un’altra super squadra in grado di raccogliere il testimone di quella, da lui allenata, capace, negli anni Cinquanta-Sessanta, di collezionare 11 anelli in 13 anni (dal ’57 al ’69) e segnare un’epoca. Ma quando il grande vecchio ci riuscì, quasi all’improvviso e sulle rovine del gruppo reduce dalla fallimentare stagione ’78-79 (29-53 il computo vinte-perse, il peggiore di sempre per la franchigia), non scrisse solo l’ennesimo capitolo nel libro dei record della NBA. Riscrisse la storia stessa della Lega.
Sul nucleo formato da Bird, Kevin McHale (al primo anno da titolare) e Robert Parish – serissimi candidati al titolo virtuale di miglior frontline di sempre – i bostoniani eressero le fondamenta di un roster memorabile che avrebbe conteso ai rivali storici, i Los Angeles Lakers di Earvin “Magic” Johnson, James Worthy, Kareem Abdul-Jabbar e del santone della panchina Pat Riley, il dominio degli anni Ottanta. Tre campionati ai biancoverdi (’81, ’84 e ’86), cinque ai gialloviola (’80, ’82, ’85 e il back-to-back dell’86-88) fanno pendere la bilancia ad Ovest; ma se non ci si lascia abbagliare dai numeri, intesi come nude cifre o giocate “hollywoodiane”, dello Showtime, non è blasfemo sostenere che quella dell’85-86 sia stata davvero una delle squadre più forti di sempre. Ecco perché.
Al via di quella stagione i Celtics, appena battuti in finale dai Lakers (complice il malandato gomito di Bird), disponevano già di una delle più forti e profonde frontline nella storia della NBA ma non si accontentarono, vollero renderla leggendaria. Grazie alla rischiosa trade che affiancò il miglior centro passatore in attività, Bill Walton, alla miglior passing forward in circolazione, Bird, lo squadrone agli ordini di coach K.C Jones divenne pressoché imbattibile. A cose fatte fu un successo perfino scontato, in realtà l’acquisizione dell’incognita Walton dai Clippers (allora a San Diego) in cambio della sicurezza Cedric Maxwell era stata una mossa coraggiosa. Date per buone l’importanza del suo contributo sotto le plance (rimbalzi, specie difensivi, e stoppate in quantità industriali) e la brillantezza del suo gioco a tutto campo, scommettere su Walton poteva significare vederlo trascorrere più tempo in infermeria che sul parquet. In nessuno dei suoi undici anni da pro, aveva mai disputato più di 67 gare e tre stagioni le aveva saltate quasi del tutto (14 presenze nel ’79-80, nessuna nei due anni successivi) per guai fisici assortiti: tendiniti alle ginocchia, problemi alla schiena e alle ossa dei piedi (in particolare il sinistro), fragili e preziose come cristalli purissimi. Il furbo Auerbach però intuì che, forse forse, il gioco valeva la candela, perché la versatilità dell’ex star di UCLA avrebbe potuto rafforzare Boston in molti modi. E così il 6 settembre, previa approvazione del leader dello spogliatoio Bird, accettò l’autocandidatura dell’altro grande Rosso (era stato lo stesso giocatore ad alzare il telefono per proporsi da free agent e a condurre in prima persona le trattative) per assicurarsi un big man di prima classe che avrebbe permesso a Jones di far rifiatare il titolare Parish. Inoltre l’abilità di Walton negli scarichi, il contagioso entusiasmo e la spiccata propensione al gioco di squadra lo aiutarono ad amalgamarsi bene con gli altri talentuosi realizzatori presenti in quel perfetto mix di fenomeni e di onesti mestieranti, di gloriosi veterani e giovani leoni che erano i Celtics di quell’anno. Inoltre, dettaglio tutt’altro che trascurabile, sapeva “come si fa” a vincere, avendolo già fatto al college (due titoli NCAA consecutivi con i Bruins nel biennio ’72-73) e nella NBA (campione con i Portland Trail Blazers nel ’77).
La presenza di Walton, come quella della poliedrica guardia Dennis Johnson, giocatore iperaltruista e votato alla difesa (arrivato da Phoenix due anni prima in cambio del centrone Rick Robey), pareva tirare fuori il meglio da Bird, la quintessenza del giocatore di squadra. Con Robey, Larry aveva perso l’inseparabile compagno di bevute, ma aveva guadagnato in concentrazione. Con “DJ” e Walton, Boston aveva trovato la quadratura del cerchio. Le superbe doti di passatore dell’ex Clippers esaltarono quelle di Bird, e quando i due erano in campo insieme la palla circolava di mano in mano con velocità e precisione fino a che non veniva pescato l’uomo libero. Non eravamo all’apoteosi dell’«hitting-the-open-man» raggiunto dai Knicks di Red Holzman nei primi Anni 70, ma quasi. Bird ebbe una delle sue migliori stagioni, piazzandosi tra i primi della Lega in cinque categorie – quarto nei punti (25.8 a partita), settimo a rimbalzo (9.8), nono nei recuperi (2.02), primo per percentuale dalla lunetta (89.6) e quarto dall’arco (42.3). In più, per non saper né leggere né scrivere, guidò i Celtics anche negli assist: 6.8 di media. L’ovvia conseguenza di cotanto dominio fu il terzo premio consecutivo di MVP, impresa centrata solo dai dioscuri Russell (1961-63) e Chamberlain (a Philadelphia, ’66-68).
Completavano la rotazione a cinque in un reparto lunghi che non aveva eguali nel resto della Lega, McHale, ala forte con solida vocazione offensiva, braccia smisurate e immarcabili movimenti in post basso, e Scott Wedman, ala piccola classica con un passato da All-Star e buon realizzatore a Kansas City. Nel backcourt, ad affiancare Johnson c’erano Danny Ainge, altra “big guard” capace di giocare una difesa asfissiante e di andare in doppia cifra in fase realizzativa o nelle assistenze alla frontline, e come rincalzi il combattivo Jerry Sichting, David Thirdkill e Rick Carlisle, amicone di Bird e suo futuro assistente allenatore. Molteplici quindi le soluzioni a disposizione di KC: se necessitava di agilità e velocità schierava il quintetto “basso” con Bird, Wedman e McHale; se servivano chili e centimetri, optava per la sua versione delle “Twin Towers” – ai tempi l’espressione si poteva ancora usare senza doversene addolorare –, particolarmente utile per contrastare quelle originali di stanza a Houston, Olajuwon (2.08) e Sampson (2.21), i primi depositari della formula ripetuta con successo una decina d’anni dopo, a San Antonio, dal duo Robinson-Duncan; o ne aggiungeva una terza, McHale.
Il mosaico pazientemente completato da Auerbach si rivelò un monolite capace di vincere 67 partite, secondo miglior record di franchigia dopo il 68-14 del ’72-73 e buon viatico in vista dei playoff. Nonostante uno stiramento a un tendine d’Achille che a metà stagione gli fece saltare 14 partite, McHale ebbe 21.3 punti (57.4% dal campo, quinto nella Lega) e 8.1 rimbalzi a partita e rifilò 134 stoppate stagionali alle quali aggiunse le 43 in post-season; nessuna sorpresa quindi se il due volte Sesto uomo dell’anno fu chiamato per l’All-Star Game e nominato nel Primo quintetto difensivo. Pur giocando inevitabilmente meno minuti, Parish chiuse a 16.1 PPG (54.9% dal campo) e 9.1 RPG e in doppia cifra nelle realizzazioni andarono anche Johnson (15.6) e Ainge (10.1). Wedman contribuì con 8 PPG partendo dalla panchina e Walton, udite udite, disputò un career-high di 80 partite, chiuse alla media di 7.6 punti (56.2% al tiro) e 6.8 rimbalzi in 20’ di impiego più 162 assist stagionali. Boston guidò la Lega nei rimbalzi (46.4 a uscita, quasi cinque a partita più degli avversari) e perdendo una sola volta al Garden, il 6 dicembre contro Portland, stabilì un nuovo record NBA: 40-1 il bilancio interno di regular season, a cui farà seguito l’en plein nelle 10 esibizioni casalinghe post-stagionali.
I Celtics viaggiarono a gonfie vele anche nei primi tre turni di playoff: 3-0 con Chicago nonostante i 63 punti di Michael («è Dio travestito da Jordan» disse Bird) in Gara2, 4-1 su Atlanta, 4-0 con Milwaukee. Ma l’annunciata rivincita contro i Lakers venne negata dall’incredibile jumper in torsione rilasciato a fil di sirena da Sampson con cui i Rockets, al Forum, buttarono fuori i gialloviola nelle Finali della Western Conference. Los Angeles, già regolata a domicilio da Boston in stagione regolare (105-99 il 16 febbraio a Inglewood), perdeva la possibilità di confermarsi campione, Bird e compagni la chance di vendetta che sognavano da Gara6 delle Finali dell’85. Invece, niente East vs. West, Tradition vs. New Wave, Beantown vs. Hollywood, Shamrocks (i trifogli “irlandesi”, ndr) vs. Showtime, Celtic Pride vs. L.A. Cool, tanto per ricordare alcune delle semplicistiche contrapposizioni cavalcate dai media americani.
In finale, non fosse altro per la straordinaria galoppata fatta in regular season, i Celtics erano i grandi favoriti e in più avevano riposato otto giorni nell’attesa di lunedì 26 maggio, giorno d’inizio della serie. A Houston, coach Bill Fitch che a Boston aveva allenato dall’80 al’83 e vinto il campionato nell’81, si era costruito un bel giocattolino (51-31 il bilancio valido per il titolo della Midwest Division) e ora, superate di slancio Sacramento (3-0) e Denver (4-2) e, a sorpresa, Los Angeles (persa la prima, ne vinse quattro in fila), era pronto a giocarsela, nell’ultimo atto, contro il suo ex pupillo Bird. Oltre ai due celebri lungagnoni, nel frontcourt texano trovavano saltuario spazio Jim Petersen, primo cambio di Sampson, Robert Reid e Rodney McCray. Le guardie erano Mitch Wiggins, Allen Leavell e Lewis Lloyd. L’esperto John Lucas II – padre di John III, che quest’anno con la sua Oklahoma State ha sfiorato la finale NCAA – aveva giocato in quintetto gran parte della stagione ma sul più bello era ricaduto nei ricorrenti problemi di droga che, assieme all’alcool, gli hanno avvelenato l’esistenza. Ma quei Rockets, nel bene e soprattutto nel male, dipendevano, prima ancora che dall’acerbo Olajuwon, dalle imprevedibili lune di Sampson: la squadra “girava” se era lui a farlo il che non sempre accadeva. Solido rimbalzista difensivo dotato di buona mano al tiro e di mobilità e rapidità difficili da riscontrare in un uomo di quella stazza, Ralph difettava in continuità sin dal suo ingresso nella NBA, avvenuto da prima scelta assoluta al Draft ’83. Inoltre, incappava spesso in problemi di falli.
In Gara1, a Boston, entrambi i difettucci emersero impietosamente. L’ex Virginia incappò nel terzo fallo dopo appena 5’ e trascorse in panchina il resto del primo tempo, e quando nel secondo rientrò in campo, sbagliò 12 dei suoi primi 13 tiri. Olajuwon, lottatore implacabile, nonostante i frequenti raddoppi di Bird provò a metterci una pezza con 33 punti e 12 rimbalzi. Ma McHale e Parish e soprattutto il gioco a tutto campo del superlativo «33» biancoverde (21 punti, 13 assist, 8 rimbalzi e 4 recuperi) ne resero vano ogni sforzo. I Celtics tirarono col 66% dal campo. Ainge e Johnson ebbero un grande terzo quarto, e sulle ali dell’entusiasmo Boston vinse 112-100. All’orizzonte, forse, si profilava un altro sweep.
Sensazione confermata in Gara2, partita che Bird riuscì a chiudere senza commettere falli pur avendo raddoppiato sistematicamente sul centro nigeriano per gran parte dell’incontro. Impeccabili, al solito, le altre sue cifre: 31 punti, 8 rimbalzi, 7 assist, 4 recuperi e 2 stoppate, numeri messi assieme massacrando McCray in attacco, infilando la consueta varietà di conclusioni da ogni dove e attuando con Parish la solita miriade di pick and roll da manuale. Sull’altro fronte, Sampson giocò un po’ meglio rispetto a Gara1 e finì con 18 punti e 8 rimbalzi, anche se l’effetto-Garden era ben lungi dall’essere metabolizzato. Dopo un poderoso allungo nel terzo quarto, 34-19, i Celtics vinsero facile: 117-95. Adesso si volava in Texas.
La prestazione di Larry lasciò Olajuwon quasi senza parole. «È il più grande giocatore che abbia mai visto», le uniche che riuscì a biascicare nel dopogara. Ma poi, con un sussulto d’orgoglio degno del campione, sottolineò che non vedeva come i Celtics avrebbero potuto battere i Rockets al Summit.
Prima che la serie lasciasse Boston, a Bird era stato consegnato il suo terzo premio di MVP. E una volta a Houston, avrebbe onorato il trofeo: 25 punti, 15 rimbalzi, 11 assist e 4 palle recuperate. Con una oculata gestione del contropiede, i Celtics, avanti 76-65 nel terzo periodo, sembravano in pieno controllo. Poi Fitch spostò Reid a marcare Bird, che nel secondo tempo fece 3 su 12 al tiro. In attacco, un Samspon particolarmente in serata (24 punti e 22 rimbalzi) spinse i suoi al comando nel quarto periodo. A 67” dalla fine, dopo un 9-0 di parziale, i Rockets conducevano 103-102. Boston riguadagnò il vantaggio su un jumper di Ainge, Wiggins rispose con un tap-in e la buona difesa di Houston costrinse Boston a un tiraccio. Poco dopo, Parish mise il piede sulla linea laterale mentre Boston stava effettuando la rimessa, e Houston sopravvisse: 106-104 e serie riaperta.
Gara4 fu la prova del nove. Parish (22 e 10 a referto) si riscattò dominando quasi da solo i lunghi di Houston. Poi fu la volta di Bird, tripla sul 101-pari a poco più di due minuti dalla sirena, e sul possesso-Boston, all’ultimo giro di lancetta, di Walton che portò a casa un vitale rimbalzo offensivo. Celtics 106, Rockets 103.
Gara5 fu rovinata dalla rissa tra Sampson e Sichting. Nel secondo quarto, dopo poco più di tre minuti di gioco, nel disputarsi un pallone i due si ritrovarono aggrovigliati l’uno all’altro. Volò qualche parolina pesante che portò Sampson ad agitare i pugni, uno dei quali colpì l’occhio sinistro di Johnson, che, poveretto, stava solo cercando di riportare la calma. Morale: Sampson espulso e Houston sull’orlo di una crisi di nervi. Ma anziché il baratro, nell’incidente i Rockets trovarono un supplemento di motivazioni e un importante contributo da chi mai ti saresti aspettato, Petersen, il back-up dell’improvvisato pugilatore. Olajuwon, ovviamente, ci mise del suo: 32 punti, 14 rimbalzi e 8 stoppate. Vittoria larga dei texani (111-96) e serie mai così viva: 3-2. Fortunatamente per i Celtics, si tornava a “Beantown” dove, Blazers a parte, non c’era stata remissione di peccati: 49-1.
Come era facile prevedere, in Gara6 il “rissaiolo” Sampson avrebbe trovato una calda accoglienza. Ogni volta che l’ala di Houston toccava il pallone, il Garden lo subissava eruttandogli addosso una invisibile ma fastidiosissima coltre di “boo”. «Sampson Is A Sissy», Sampson è una fighetta, si leggeva su uno striscione. «Sampson you fight like Delilah», Sansone (Sampson in inglese, ndr) combatti come Dalila, recitava un altro. Tutto lasciava presagire che il ragazzone avrebbe passato, più che il proverbiale brutto quarto d’ora, almeno quattro pessimi periodi da 12’ effettivi. L’ex Virginia sbagliò i suoi primi sette tiri prima di illudersi di poter zittire la bolgia con una gran schiacciata nel secondo periodo. A fine gara, il suo score avrà la miseria di 8 punti. «Ho solo giocato male, tutto qui», risponderà in sala stampa un po’ demoralizzato all’incalzare dei cronisti che gli chiedevano non “se” ma “quanto” il pubblico biancoverde lo avesse condizionato.
Bird, invece, aveva giocato come posseduto dal demonio. Trascinata dai suoi 16 punti, 8 rimbalzi e 8 assist, ma anche da una serie di voci difficili da mettere a referto (rimbrotti ed esortazioni ai compagni, tuffi sulle palle vaganti), Boston arrivò all’intervallo in vantaggio 55-38. «Solo diventando matto e attaccando a destra e a manca, ho ottenuto attenzione», dirà a giochi fatti. «Non volevo che questo momento mi scivolasse via».
Nella terza frazione, il campagnolo di French Lick infilò triple decisive che, unite alla asfissiante difesa bostoniana, spedirono i Rockets pesantemente al tappeto. I Celtics conducevano di 30 nel quarto periodo e conquistarono il loro 16° stendardo quasi in souplesse: 114-97. Sulla scia della sua ennesima tripla doppia, 29 punti, 11 rimbalzi, 12 assist più 3 recuperi, Bird fu l’ovvio MVP della Finale. Il giocatore che Fitch aveva iniziato alla Lega aveva fatto a pezzi la squadra dell’antico maestro e questo nessuno più del suo ex coach avrebbe saputo apprezzarlo: «Una volta accesi i riflettori e cominciato a giocare, il pubblico ha avuto in Larry un effetto che non ho mai riscontrato in nessun altro. Non l’ho mai visto giocare con la stessa intensità che ci ha messo oggi».
Registrati gli scontati elogi del compagno Johnson («Larry è il migliore al mondo»), nel dopopartita Bird recitò la parte del perfezionista: «Ho ancora qualcosina su cui lavorare. Non sono ancora del tutto a mio agio vicino a canestro. Per il prossimo autunno, voglio altri quattro o cinque movimenti ai quali poter ricorrere. Se ci riuscirò, diventerò inarrestabile». Come se non lo fosse stato abbastanza.
Fondamentale apporto di Bird a parte, la conquista dell’anello era anche il meritato riconoscimento al lavoro svolto dal defilato head coach Jones, un anti-personaggio che ha saputo coniugare come pochi il verbo vincere: nella NCAA (2 titoli consecutivi con la University of San Francisco, ’55 e ’56), alle Olimpiadi (oro a Melbourne ’56) e nella NBA (otto anelli a Boston da giocatore, rincalzo di lusso e difensore leggendario durante la dinastia-Russell; due da assistente allenatore, con Bill Sharman ai Lakers ’71-72 e con i Celtics di Fitch nell’81; e due, sempre in biancoverde, da head coach).
L’attacco a uso e consumo del Big Three (Bird, McHale, Parish) dominava i titoloni dei giornali, ma a stordire i Rockets era stata innanzi tutto la difesa, e in queste cose la mano dell’allenatore è essenziale. «Non ricordo l’ultima volta che sono stato braccato da tutta una squadra più di quanto lo sia stato oggi» dirà ammirato Sampson. «Ogni volta che toccavo palla, mi ritrovavo circondato da due o tre di loro. E lo stesso accadeva ad Akeem (allora senza h davanti, ndr)». In realtà niente di quella difesa era casuale. «La nostra intensità difensiva è stata fenomenale» spiegò inorgoglito KC. «Abbiamo lottato su ogni passaggio, su ogni palleggio. Li abbiamo pressati su ogni pallone».
Per i Celtics di Bird era il terzo anello di campionato (il secondo in tre anni), il conto con i Lakers del suo rivale di sempre, Magic Johnson, era pari. Per il momento. Durante i festeggiamenti, Auerbach pronunciò queste memorabili parole: «Nella mia carriera ho avuto la fortuna di allenare tanti campioni, ma se oggi dovessi costruire una squadra, il primo che vorrei con me è Larry Bird». Dopo diciotto anni di solo inno nazionale, uno così servirebbe eccome. Ma oggi la scrivania che fu di Auerbach appartiene a Ainge e forse aveva ragione Napoleone: lui i generali li voleva fortunati.
Christian Giordano ©
***
Celtics 1985-86: Greatest team ever?
Chi ha buona memoria ricorderà senz’altro la (grammaticalmente scorretta) T-shirt indossata dai Bulls campioni NBA nella stagione 1995-96, quella da 72-dicasi-72 vittorie in regular season: «Greatest Team Ever», la scritta che vi campeggiava. Stando ai numeri, quell’autoproclamazione aveva ragioni da vendere. 87-13 il bilancio dell’annata (playoff compresi); 12.24 di differenziale-punti di scarto inflitto agli avversari, il secondo nella storia; 33-8 il bilancio esterno, il migliore dal 32-8 ottenuto da Boston nel ’72-73. E anche con i riconoscimenti individuali quegli “Unbeat-a-Bulls” (altro storico slogan da maglietta) non scherzarono: Jordan capocannoniere e MVP, Dennis Rodman leader dei rimbalzi, tre giocatori (Jordan, Scottie Pippen e Rodman) nel Primo quintetto difensivo, Phil Jackson, Toni Kukoc e Jerry Krause rispettivamente Allenatore, Sesto uomo ed Executive dell’anno. Ma in tema di cifre, c’è una iperqualificata concorrenza che può dire la sua. I 76ers ’82-83 chiusero sul 67-15 la regular season e con 12-1 i playoff (per una percentuale-vittorie pari al 92.3%, un record); come se non bastasse Philadelphia guidò la Lega nei punti e nelle stoppate. I Celtics ’85-86 schieravano una frontline di hall-of-famers (Bird, McHale e Parish) la cui statura media scollinava quota 2.08; fra i riconoscimenti individuali, Bird MVP per la terza volta consecutiva, Walton ovvio Sixth Man of the Year (106 stoppate totali e 6.8 rimbalzi di media), Dennis Johnson e McHale nel Primo quintetto difensivo.
Statistiche a parte, nella corsa al platonico titolo di più forte squadra d’ogni epoca una nomination la meritano anche i New York Knicks bicampioni fra il ’70 e il ’73; i Milwaukee Bucks (che ballarono una sola primavera, nel ’71, sulle note del fantastico asse Oscar Robertson-Lew Alcindor); i Los Angeles Lakers ’71-72 (33 vittorie consecutive per la premiata ditta Jerry West, Gail Goodrich e Wilt Chamberlain attorniata da un’accozzaglia di illustri carneadi); e i Sixers del ’67, se non per il record in regular season (68-13), di sicuro per il roster agli ordini di coach Alex Hannum: Wally “Wonder” Jones e Hal Greer guardie; Chet “the Jet” Walker (mago dell’ uno contro uno) e l’armadio a quattro ante Lucious “Luke” Jackson (olimpionico a Tokyo ’64 e prima vera power forward della NBA) ali; Chamberlain centro; sesto uomo: il giovane Billy Cunningham. A certi livelli, la scelta è questione di gusti e quelli, si sa, non si discutono. Si amano.
***
Il mosaico di Auerbach
Larry Joe Bird - Boston lo scelse da junior, eleggibile secondo un regolamento poi cambiato (Bird aveva resistito 24 giorni con Bobby Knight a IU prima di riparare a Indiana State), con la pick numero 6 al Draft del '78. Ma per averlo dovette aspettare un anno perché Bird preferì chiudere la carriera al college (finale NCAA '79 persa a Salt Lake City contro i Michigan State Spartans di Magic) prima di passare professionista.
Robert L. Parish e Kevin Edward McHale - forse il più grande colpo messo a segno da quel geniaccio di Auerbach. In un sol colpo portò a casa due terzi della frontline titolare, una batteria di lunghi che, per inciso, finirà dritta nella Hall of Fame, sesto uomo (Walton) compreso. Per riuscirci, il 9 giugno 1980 cedette a Golden State, in cambio di Parish e la prima scelta dei Warriors (la pick n. 3), due prime scelte: i californiani presero il centro di Purdue Joe Barry Carroll con la 1ª chiamata e l'ala di Mississippi Rickey Brown con la 13ª. Sgraffignato Parish, completò lo scippo affiancando a un reparto che aveva già Bird e Scott Wedman (arrivato nel gennaio '83) l'ala di Minnesota Kevin McHale. Roba da arresto per circonvenzione d'incapace, ma all'epoca chi poteva saperlo.
Danny Rae Ainge - Guardia tutta grinta proveniente da Brigham Young University. Seconda scelta di Boston al Draft '78.
Dennis Wayne Johnson - Guardia difensiva arrivata dai Phoenix Suns assieme a una prima e a una terza scelta al Draft '83 in cambio dell'ala/centro Rick Robey e due seconde scelte della stesso lottery.
William Theodore Walton - In questo caso Auerbach il colpo (di fortuna), più che farlo se lo è ritrovato bello che servito. Fu lo stesso Bill a telefonargli dicendogli che voleva «giocare con i migliori nella Lega». Previa rapida consultazione con il gran capo Bird, fu accontentato. L'anno dopo, i mille acciacchi avuti ai Blazers e ai Clippers tornarono a farsi sentire. Boston pur faticando arrivò lo stesso in finale (memorabile il recupero di Bird sulla rimessa sbagliata da Detroit con Isiah Thomas). Walton si ritirò a fine stagione.
Commenti
Posta un commento