HOOPS MEMORIES - Lakers, la dinastia di re George

Con cinque titoli in sei stagioni i Minneapolis Lakers diedero vita, fra gli Anni 40 e 50, alla prima dinastia della NBA. Big George, lo Shaq dell’epoca, rivoluzionò storia, regolamento e filosofia del gioco. Da allora, il basket pro è affare da big men…

di Christian Giordano, American Superbasket

Ormai anche nei peggiori bar sport (certi media) pare acquisita una certezza: i confronti fra campioni di epoche diverse sono aria fritta. Eppure bisogna ricorrervi per descrivere lo strapotere fisico e tecnico esercitato fra gli Anni 40 e 50 da George Mikan e i suoi Minneapolis Lakers, perché il solo termine di paragone calzante è il suo erede in gialloviola, Shaquille O’Neal. Con una prima, sostanziale differenza: Shaq è un gigante fra i giganti, “Big George”, classe 1924, lo era in un’epoca che di giganti veri, tranne il coetaneo Bob Kurland, 2.12 di Oklahoma A&M, non ne aveva. Dopo aver dominato al college (2 titoli NCAA) e alle Olimpiadi (oro a Londra ’48 e a Helsinki ’52), Kurland rinunciò a 60 mila dollari per cinque anni preferendo ai pro una scrivania alla Phillips Petroleum di Bartlesville, Oklahoma e la squadrina dilettantistica aziendale. Mikan si accontentò di ridefinire il basket rivoluzionandone storia, regolamento e filosofia.

A fine Anni 40 il gioco si era per certi versi “civilizzato”, ammorbidito, ma rimaneva uno sport di contatto, molto fisico e quindi alla portata di uomini prestanti seppure non altissimi. Era opinione comune, infatti, che per praticarlo fossero più adatti dei lunghi in quanto più coordinati, agili e veloci, insomma meno marcabili. Gli attacchi si basavano sul movimento continuo di palla e giocatori, “motion offense” che sfociavano in miriadi di blocchi spaccaossa. In area, la posizione si conquistava con lotte stile-wrestling, e gli arbitri usavano l’attrezzo del mestiere, il fischietto, solo se i contatti avvenivano ai danni di chi portava la palla. La squadra che ne era in possesso si “allargava” nella metà campo avversaria e cercava i tagli a canestro. Il cronometro dei 24” fu introdotto solo dalla stagione 1954-55, così non trovando passaggi backdoor o l’uomo libero per il tiro, si ricominciava da capo. Le conclusioni da fuori avvenivano con tiri piazzati – piedi a terra e mani sul pallone –, e di solito lontano dal canestro. I giocatori raramente staccavano i piedi dal parquet (si fa per dire), se non per andare a rimbalzo. Le due grandi innovazioni dell’epoca furono il centro dominante, esemplificato appunto dal mastodontico Mikan, e il contropiede, esaltato dai Boston Celtics del pionieristico Bob Cousy, che incantava pubblico e addetti ai lavori con spettacolari giocate in campo aperto.

Mikan, una montagna d’uomo di 2.08 per 111 kg, al college, a DePaul aveva dominato (23 punti di media da junior e da senior) nonostante l’intervento della NCAA che, per limitare lo strapotere di Kurland e dello stesso centro dei Blue Demons, aveva introdotto la regola del goaltending per vietare l’interferenza a canestro.

Ned Irish, proprietario dei New York Knicks della Basketball Association of America, era conscio del valore spettacolare (e quindi al botteghino) di Mikan, ma per problemi di bilancio non poté permetterselo e così, alla fine della stagione 1945-46, George firmò per i Chicago American Gears della National Basketball League. 

La BAA era nata nell’autunno del 1946 e comprendeva vecchie franchigie della costa est, come i Boston Celtics e i New York Knickerbockers, non ancora affiliate ad alcuna lega. Ma l’epicentro del basket pro restava la più datata NBL (nata nel ’37): perché aveva Mikan. Nel ’46-47 l’occhialuto gigante segnò 16.5 punti a partita ma i Gears (26-18) non andarono oltre il terzo posto nella Western Division. La squadra sbocciò nei playoff, percorsi fino all’ultimo atto dove superò (3-2) i campioni in carica Rochester Royals. 

Quell’autunno, per sfruttare la popolarità di Mikan, Maurice White, proprietario della franchigia e presidente della American Gear Company, ritirò i Gears dalla NBL per far partire una sua lega pro. White voleva un circuito, la Professional Basketball League of America, di cui avrebbe detenuto la totalità delle squadre (24) e delle arene. Ma il progetto durò meno di un mese, la franchigia fu smantellata e i giocatori, Mikan incluso, vennero collocati nelle 11 franchigie della NBL attraverso un dispersal draft.

La prima scelta era della squadra che nella stagione precedente aveva avuto il peggior record (4-40), i Detroit Gems, sulle cui ceneri, durante la off-season, erano nati i Minneapolis Lakers. L’operazione riuscì grazie all’interessamento di due imprenditori del Minnesota, Ben Berger e Morris Chalfen, che per 15000 dollari rilevarono i diritti del defunto club del Michigan. Naturalmente la chiamata fu spesa per Mikan, che andava a far coppia con un’altra prima scelta, Jim Pollard, micidiale ala tiratrice di 1.94 per 83 kg già All-American a Stanford University. Per completare il roster il presidente-gm Max Winter pescò a piene mani fra gli ex Minnesota Gophers: Tony Jaros, Don “Swede” Carlson, Don Smith, Warren Ajax e Ken Exel. In quintetto, oltre a Pollard, saltatore eccezionale, c’era uno dei migliori playmaker della lega, il veterano Herm Schaefer. In panchina arrivò il giovane (31 anni) e mite John Kundla, prelevato da St. Thomas College e con un passato alla University of Minnesota, dove aveva svolto tre anni di assistentato ed era tornato da head coach una volta chiuso il biennio alla De La Salle HS, la sua prima esperienza come capoallenatore.

Con Mikan, da buona squadra i Lakers divennero irresistibili. Dominata la Western (43-17), nei playoff si sbarazzarono degli Oshkosh All-Stars (3-1), dei Tri-Cities Blackhawks (2-0) e, in finale, dei “soliti” Royals (3-1). Mikan fu il miglior marcatore in stagione regolare (21.3 punti di media) e in postseason (24.4). Come non bastasse, nel ’48, battendo in finale (75-71) i New York Rens, Minneapolis vinse anche l’ultima edizione del World Professional Basketball Tournament, torneo organizzato a Chicago dal quotidiano locale “Herald American”, ma sempre più svalutato dall’ascesa della BAA.

La BAA aveva una qualità di gioco inferiore a quella della NBL, ma vantava franchigie nelle maggiori città del Paese (Boston, New York, Washington, Chicago, Baltimore, Philadelphia e St. Louis) e le migliori arene (il Garden a Boston, il Madison Square Garden a New York, lo Stadium a Chicago); la NBL schierava i giocatori più forti, ma in un circuito limitato a piccole cittadine del Midwest: non aveva futuro. Perdere Mikan fu il colpo di grazia. Fiutando l’inevitabile, in estate le principali squadre della NBL – Fort Wayne, Indianapolis e Rochester – seguirono i Lakers. In un sol colpo, lo stesso campionato si ritrovava con i migliori giocatori, le maggiori arene e i più grandi centri mediatici del Paese. La nuova lega, che nel 1949-50 avrebbe assorbito la NBL e assunto la denominazione National Basketball Association, non poteva fallire.

Nel 1948-49 la rivitalizzata BAA a 12 squadre (equamente divise in due division, con playoff a sfide incrociate prime-quarte e seconde-terze) rispolverò il calendario a 60 partite. Chicago, St. Louis e i club ex NBL vennero inseriti nella Western Division, Baltimore e Washington ritornarono nella Eastern. I Washington Capitols (38-22) finirono primi a Est, i Lakers (44-16), dietro i Royals di una vittoria, secondi a Ovest. Minneapolis veleggiò col vento in poppa per tutti i playoff: 2-0 ai Chicago Stags e a Rochester, 4-2 a Washington nelle Finali. 

I Caps avevano una squadra profonda e talentuosa: accanto a Bob Feerick, Horace “Bones” (‘ossa’: un nome, un programma) McKinney, John Norlander e Fred Scolari, il giovane coach Red Auerbach aveva aggiunto il 2.02 Kleggy Hermsen, campione con Baltimore l’anno precedente. Ma nei playoff era stata falcidiata dagli infortuni. Feerick, realizzatore fisso in doppia cifra, era fuori causa per guai a un ginocchio. Scolari, scientificamente mazzolato da New York nelle Finali della Eastern, era appena rientrato. Eppure, i Caps diedero battaglia sin dall’avvio della serie, al Minneapolis Auditorium. In gara1 Mikan, 42 punti, sotto canestro fece la sua parte ma a poco più di un minuto dalla fine il punteggio era di 84-pari. Poi Carlson infilò un paio di liberi che spianarano ai Lakers la strada verso la vittoria, 88-84. 

In gara2, Auerbach cambiò le carte in difesa per bloccare i rifornimenti a Mikan. L’apprendista stratega vinse la battaglia (il centro segnò 10 punti su nove tiri dal campo), non la guerra, perché ebbero via libera gli altri Lakers (Carlson e Schaeffer ne segnarono rispettivamente 16 e 13): 76-62 Minneapolis.

Alla Uline Arena di Washington, Mikan (35) guidò i Lakers alla vittoria per 94-74. Il centrone ne infilò altri 27 in gara4, ma nel finale si ruppe un polso e Washington non si fece scappare l’occasione, 83-71 e serie ancora viva: 1-3. A compiere il proditorio intervento da tergo (a detta di Mikan, sollecitato dal perfido Auerbach) fu Hermsen, originario di Minneapolis e terrorizzato dall’accoglienza che avrebbe ricevuto in città una volta che la serie fosse tornata nel Minnesota. «Era spaventato a morte», confermerà il compagno di squadra McKinney.

Ma per fortuna dei Lakers e dell’incolumità di Hermsen, Mikan scese in campo già da gara5 a Washington, grazie a una fasciatura rigida. «Era dura come il cemento e faceva il paio con i suoi gomiti – dirà McKinney, che ebbe l’ingrato compito di marcarlo – Ti uccideva. E al tiro non ne risentiva neanche un po’». Incurante della doccia gessata, Mikan segnò 22 punti, ma vinsero i Caps, 74-66. Per via di un’altra manifestazione (la premiazione dello Sportivo dell’anno), gara6 non si disputò a Minneapolis ma nella prospiciente cittadina di St. Paul. Nella più piccola delle Twin Cities (le Città gemelle, separate dal Mississippi), i Lakers non faticarono a riempire l’impianto né a prendersi partita (77-56) e titolo. Mikan chiudeva con 303 punti in 10 gare di playoff: un record.

I Lakers però non erano una “one-man team”. Nel frontcourt, con Mikan e “Kangaroo Kid” Pollard (14.8 punti per gara e capace di schiacciate acrobatiche che eseguiva solo in allenamento o durante il riscaldamento, perché ai tempi farlo in partita era considerato poco sportivo), agiva da ala piccola Arnie Ferrin (7.3 punti di media in regular season), 23enne matricola di 1.94 che nel 1944 aveva vinto con la University of Utah il Torneo NCAA e il titolo di miglior giocatore. Detto delle stelle Mikan e Pollard, le altre opzioni offensive erano le guardie Herm Schaefer (10.4), veterano dei pro, e Carlson (9.3).

Come tutti quei Lakers, anche la squadra del 1949-50 era Mikan-centrica. Il numero 99 (da lui scelto polemicamente in risposta a chi gli rimproverava di non dare mai il 100%) era il perno dell’attacco. Primo autentico uomo d’area nella storia del basket pro, Mikan, ricevuta palla in post, alternava due giochi base: o la smistava ai compagni che tagliavano in area, o ruotava verso il canestro per segnare da sotto in gancio (che eseguiva indifferentemente con una mano o con l’altra) o con morbidi lay-up.

In estate Winter (inverno, ndr) si era superato portando in squadra Slater “Dugie” Martin, point guard di 1.74 da University of Texas, per migliorare il ballhandling; l’ala forte Vern Mikkelsen, armadio di 1.99 per 108 kg uscito dal minuscolo Hamline College di St. Paul, per dare a Mikan maggior sostegno a rimbalzo; e Bob “Tiger” Harrison, guardia di 1.84 proveniente da Michigan, per aggiungere solidità difensiva ed esperienza (nove anni nei pro) al backcourt. Come rincalzo arrivò Bud Grant, poi assurto a imperitura fama nel football come coach dei Minnesota Vikings della NFL (quattro Super Bowl persi su quattro: sfortunato per vincere). Con Harrison e Mikkelsen in quintetto, e conseguenti spostamenti di Ferrin a sesto uomo e di Pollard all’ala piccola, i Lakers potevano battere chiunque adottando qualsiasi stile di gioco: dall’attacco manovrato, imperniato sul possente Mikan che dominava da sotto; al running game ad alta velocità cucito da Martin su misura per Pollard, con Mikan e Mikkelsen a racimolare punti (capocannoniere a 27.4 di media il primo, 11.6 il secondo) e rimbalzi.

Aassorbite le sopravvissute della NBL (Syracuse Nationals, Anderson Packers, Tri-Cities Blackhawks, Denver Nuggets, Sheboygan Redskins e Waterloo Hawks), la BAA aveva ripartito le 17 franchigie in tre division, Western (6), Central (5) e Eastern (6). Ne era venuto fuori un calendario sbilanciato, in tutti i sensi: quattro delle otto con record vincenti erano nella Central, e fra le 12 delle altre division ben otto avevano bilanci perdenti. Minneapolis appaiò Rochester (51-17) in testa nella Central, ma il miglior record andò a Syracuse (51-13), prima a Est. Mikan, quinto nella percentuale dal campo (40.7), e Pollard, nono nei punti (14.7) e settimo negli assist (3.8), finirono nel Primo quintetto NBA.

La griglia dei playoff, oltre che iper-generosa (quattro qualificate da ciascuna division), era palesemente “ingiusta”: per arrivare in finale i Lakers superarono cinque avversari: 78-76 ai Royals nello spareggio per il primo posto, poi, in due partite, Chicago, Fort Wayne e Anderson; ai Syracuse Nationals bastò far fuori Boston e New York. Minneapolis vinse gara1 allo State Fair Coliseum, appena fuori Syracuse; 68-66 sulla stoppata di Mikan (37 punti) ad Al Cervi (che reclamava il fallo) e con il canestro decisivo, sulla sirena e da quasi metà campo, della matricola Harrison.

Negli spogliatoi i Lakers commisero l’ingenuità di riferire ai cronisti che a Mikan, allergico, aveva dato fastidio «tutto quel fumo dell’arena». Non si sa se uscita dallo stesso Mikan o da coach Kundla, l’indomani la storiella riempì i giornali locali e di sigari accesi l’arena per gara-2. Anche in mezzo al fumo, Mikan ne fece 32 ma Syracuse vinse 91-85. I Lakers si imposero (91-77 e 77-69) nelle due partite interne, giocate ancora a St. Paul per i soliti sovraffollamenti di calendario, ma si lasciarono sfuggire gara5 (83-76). Nell’irrespirabile atmosfera del Coliseum, Mikan segnò 28 punti, Seymour 12 ma abbinati a una furiosa difesa contro Pollard (tenuto a 6). I Lakers chiusero il discorso (110-95) al Minneapolis Auditorium, ancora inviolato nei playoff, sulla scia dei 40 punti di Mikan. La gara degenerò in più risse (Pollard-Seymour, Gabor-Martin e Gabor-Carlson) e gli arbitri ebbero il loro bel daffare per sedarle: Cervi espulso nel terzo periodo e quattro Lakers fuori per falli nel quarto.

Minneapolis la spuntò perché aveva più talento e il duplice vantaggio di giocare su un campo più stretto del normale. Ciò ne rendeva la frontline quasi insuperabile, specialmente in difesa. Secondo Cervi, «quando Pollard, Mikkelsen e Mikan stendevano le braccia su quel campo così stretto, non passava più nessuno». Anche se, aggiungeva il suo compagno di squadra Seymour, «quei tre, grandi e grossi com’erano, rendevano “stretto” qualsiasi campo. Mikkelsen, poi, era un bestione». 

Ma lo strapotere dei Lakers non era solo fisico. Erano una squadra moderna, la prima a diversificare, e ai massimi livelli, gli spot di ala piccola (Pollard) e ala grande (Mikkelsen) accanto a un centro dominante. Kundla ci mise del suo: il quintetto base Martin-Harrison-Pollard-Mikkelsen-Mikan era il nucleo portante della squadra, ma per non spremerlo ricorreva spesso alla panchina. Quel tipo di rotazione avrebbe fatto scuola. Come altri grandi allenatori, in attacco voleva cose semplici: pick-and-roll in post basso tra Mikan e Pollard. Se gli avversari operavano un cambio difensivo che lasciava Mikan marcato da un’ala, Pollard lo serviva per due punti sicuri. Se non c’era lo switch in marcatura, Pollard, più veloce, portava a casa due punti facili entrando a canestro. «Era un giochino semplice semplice» diceva con orgoglio il coach «Ma funzionava sempre».

Contando anche i due titoli NBL e quello BAA, Mikan (31.3 punti a sera nei playoff) era il centro di una squadra campione per la quarta volta consecutiva. Ma il ragazzo con gli occhiali spessi un quarto di pollice e i capelli ondulati alla Clark Kent era solo all’inizio. 

Nel 1950-51 la Lega, aperte le porte ai giocatori neri, contava 11 squadre ripartite in due division, con Minneapolis (44-24, miglior bilancio nella Lega), Rochester e Fort Wayne fra le 5 della Western; nella Eastern vinse Philadelphia ma strada facendo fallì Washington, che l’anno prima aveva perso Auerbach. 

New York piegò Boston e, a fatica, Syracuse prima di cedere in finale con Rochester. Trascinati dal 2.04 Arnie Risen e dalla star del backcourt Bob Davies, i Royals batterono (2-1) Fort Wayne e finalmente, complice la microfrattura a una caviglia di Mikan, i Lakers (1-3), che avevano eliminato (2-1) Indianapolis. L’egemonia era spezzata.

La stagione seguente portò grandi novità: il jump shot, reso popolare da Joe Fulks, aveva trovato in Paul Arizin dei Philadelphia Warriors un degno interprete. L’ex ala di Villanova strappò a 25.4 di media il titolo marcatori a Mikan, che abbassava la sua produzione offensiva (da 28.4 a 23.8 punti a sera) pur essendo primo nella percentuale dal campo (44.8). Inoltre, nel tentativo di limitare lo strapotere dei big men la NBA allargò l’area dei tre secondi portandola da 6 a 12 piedi (3.66 metri). 

Ma se questi aspetti favorivano l’evoluzione del gioco, ce n’erano altri che la frenavano. Uno di questi era l’assenza del limite temporale per il tiro, situazione che le squadre in vantaggio (o semplicemente quelle che affrontavano i Lakers, i più forti sotto le plance) sfruttavano “congelando” il pallone nell’attesa di una buona opportunità per segnare. Memorabile in questo senso fu la gara del 22 novembre 1950, passata alla storia come quella del “freeze” di Fort Wayne, in cui i Pistons andarono a vincere a Minneapolis per 19-18, punteggio complessivo più basso della storia della NBA che mise fine alla striscia di 29 successi interni consecutivi. Quella partita portò, tre stagioni dopo, alla regola dei 24 secondi. Curiosamente, però, la regola dei 24”, introdotta per impedire tentativi di emulazione della strategia adottata da coach Murray Mendanhall, in realtà avrebbe frustrato Mikan e i suoi Lakers. Minneapolis era una squadra famosa per la circolazione del pallone, lavorato fino a che il centro non prendeva posizione sotto canestro («Aspettando Mikan» era la battuta più in voga nella Lega, parafrasando “Aspettando Godot” e ben prima delle dotte citazioni delpierane dell’Avvocato Agnelli), ma proprio per questo lenta. Nella nuova era del gioco era destinata a pagare dazio.

Finalmente le 10 squadre NBA disputarono una regular season da 66 gare e tutte le franchigie riuscirono a completarla. In postseason, per la seconda volta consecutiva New York arrivò all’ultimo atto partendo dal terzo posto, mentre Minneapolis (40-26 in stagione), superò 2-0 a Indianapolis e si vendicò di Rochester (3-1). Ne venne fuori un’altra Finale da sette partite, con i Lakers bravi a sfruttare il vantaggio del campo.

A St. Paul i Knicks persero la prima (83-79 all’overtime) e vinsero (72-80) la seconda. In gara1 ci fu un giallo: nel primo quarto gli arbitri, Sid Borgia e Stan Stutz, non videro un canestro buono di Al McGuire, che invece andò in lunetta dove fece uno su due; non se ne sarebbe ricordato nessuno se fosse finita ai tempi regolamentari. Gara3 (82-77 Lakers) e gara4 (80-79 New York al supplementare) furono disputate al 69th Regiment Armory, anziché al Madison Square Garden, perché in città c’era il circo: altri tempi. In Gara7, a Minneapolis, i Lakers vinsero partita (82-65), serie e titolo, il terzo in quattro anni.

Contrariamente alle previsioni, Mikan sembrava persino avvantaggiato dall’allargamento dell’area, inoltre Pollard e Mikkelsen, più coinvolti in attacco, avevano valicato per la prima volta in carriera il muro dei 15 punti di media. In più, a dare profondità al roster erano arrivati l’esperto Frank “Pep” Saul, girato da Rochester via Baltimore Bullets, e il rookie Myer “Whitey” Skoog, massiccia guardia uscita da University of Minnesota.

L’annata 1952-53 vide l’incremento dei falli (58 la media-partita) con conseguente record di liberi (dai 1500-1600 si passò ai 2300-2400), e il solito dominio dei big men: il 2.02 Neil Johnston, centro dei Philadelphia Warriors vinceva (a 22.3 punti di media) il primo di tre titoli consecutivi di capocannoniere; Mikkelsen, ottavo (15), raggiunse nei primi dieci top scorer Mikan, secondo (20.6) ma con più rimbalzi di tutti: 14.4 a gara. 

Per la prima volta approdavano alle Finali entrambe le leader divisionali, New York (47-23) a Est e Minneapolis a Ovest (48-22, quattro vittorie avanti ai Royals). Per i Knicks, eliminati strada facendo Baltimore Bullets e Boston Celtics, era la terza finale consecutiva, per Mikan e compagni la seconda, la quinta in sei campionati. I Lakers ci erano arrivati battendo 2-0 Indianapolis, ormai vittima sacrificale, e 3-2 i Pistons. Recuperato Carl Braun dopo due anni di leva e perso, dopo 29 partite, Max Zaslofsky, ceduto a Fort Wayne, New York aveva imparato sulla propria pelle che battere Minneapolis, impresa di per sé già durissima, diventava impossibile senza il vantaggio-campo. Ma con il formato 2-3-2, ci si poteva sperare vincendo almeno una delle prime due partite a Minneapolis. I Knicks partirono bene (30 punti nell’ultimo quarto) espugnando 96-88 l’Armory (l’Auditorium era occupato), ma poi Mikan (che a New York aveva giocato spesso ai tempi di DePaul) e compagni se ne aggiudicarono quattro in fila (73-71 in casa, 90-75, 71-69 e 91-84 fuori) lasciandoli a mani vuote per il terzo anno consecutivo. «I giornali newyorchesi scrivevano che la serie non sarebbe tornata a Minneapolis. Avevano ragione. Non ci tornò», dirà a giochi fatti il velenosetto Mikkelsen. Per i Lakers era il quarto successo in cinque anni: la prima dinastia NBA era cosa fatta.

La stagione seguente, la produzione offensiva di Mikan, ormai 30enne, scese ancora, 18.1 punti per gara (quarto della Lega, dietro a Johnston, Cousy e Macauley), con 14.3 rimbalzi a sera. Per preservarlo in vista dei playoff i Lakers lo impiegarono meno, non a caso come suo back-up avevano firmato una promettente matricola di 2.04, Clyde Lovellette, 8.2 punti di media tirando col 42.3% dal campo (quinto nella lega). Nel backcourt, Skoog (7 punti a sera) prendeva il posto di Saul, retrocesso a sesto uomo, accanto a Martin, mentre l’1.94 Richard Schnittker da Ohio State e l’1.90 Jim Holstein, secondo anno proveniente da Cincinnati, completavano la rotazione.

Minneapolis ebbe il miglior record della NBA, 46-26. I playoff iniziarono con una strana formula all’italiana (round-robin) in cui ogni squadra incontra con gare di andata e ritorno le altre della division, la seconda grossa novità stagionale dopo l’introduzione della regola che limitava i falli personali a due per quarto. Al terzo, il giocatore doveva restare in panchina per il resto del periodo. I falli calarono a una media di 51 per gara, ma i finali delle partite erano ancora vittime di interminabili processioni dalla lunetta. 

Minneapolis, superato il primo turno a gironi ed eliminata (2-1) Rochester nelle Finali della Western (orfana dei falliti Olympians), non poté concedere la rivincita ai Knicks, campioni divisionali a Est, perché eliminati al primo turno. In finale arrivò a sorpresa Syracuse, ribattezzata dalla stampa, per via dei numerosi infortuni, “bandage brigade”, la brigata cerotti. Ma i malconci Nats (Schayes si ruppe un polso a Boston nel primo turno e giocò il rsto dei playoff con una fasciatura rigida) resistettero fino alla settima partita prima di arrendersi all’ineluttabile. A Minneapolis persero gara1 (79-68) ma non gara2 (60-62). Altra musica invece a Syracuse, dove i Lakers passarono due volte, in gara3 (67-81) e in gara5 (73-84). I Nats, che avevano tenuto viva la serie vincendo gara4 (80-69), sopravvissero in gara6 con un’altra vittoria per due punti (63-65), ma Kundla & C. conquistarono il terzo titolo consecutivo trionfando 87-80 nell’ultimo atto. 

In quella offseason accaddero fatti che avrebbero cambiato la storia del basket professionistico. Mikan, il giocatore-simbolo della Lega, si ritirò alla vigilia della stagione 1954-55. Ma anche se niente poteva oscurare la perdita del più grande giocatore in circolazione, furono l’introduzione dei sei falli di squadra per quarto (dopodiché a ogni fallo si andava in lunetta) e soprattutto l’adozione del cronometro dei 24 secondi per il tiro la vera svolta epocale. Perché proprio 24”? Danny Biasone, proprietario dei Nats, e il suo GM, Leo Ferris (chissà perché sempre dimenticato in simili commemorazioni), ai quali si deve il gioco pro come lo conosciamo oggi, li calcolarono dividendo la durata della partita (48’ cioè 2880 secondi) per il numero medio di tiri (stimato in 120). Come per incanto, la media-punti schizzò da 79.5 a 93.1 e il basket pro fu salvo. Le nuove regole portarono due grossi vantaggi: velocizzarono il ritmo delle azioni e annullavano, specie nei finali di partita, il vantaggio di commettere fallo sul giocatore in possesso palla.

L’anticipato ritiro di Mikan, passato nel front office come general manager prima di dedicarsi alla carriera legale, lasciò inappagata la curiosità di sapere quali effetti avrebbero avuto sui Lakers tricampioni NBA le nuove regole introdotte dalla Lega. Minneapolis era una squadra costruita attorno alla stazza e sulla forza del suo pivot. Via Mikan, giocò centro il secondo anno Lovellette (18.7 punti e 11.5 rimbalzi per gara), ma Clyde non aveva l’impatto difensivo garantito dal predecessore. I Lakers (40-32) finirono dietro Fort Wayne nella Western Division, poi eliminarono Rochester (2-1) nel primo turno dei playoff e caddero per mano degli stessi Pistons in quattro gare nelle finali della Western. In finale, Syracuse colse l’attimo battendo, in sette partite, Fort Wayne.

L’inizio dell’era del cronometro per il tiro aveva sancito il principio della fine di quella di Minneapolis, ma anche l’età e gli acciacchi cominciavano a pesare. Pollard si ritirò l’anno dopo. Martin, nei primi dieci della Lega per assist (6.2 di media) e percentuale dalla lunetta (83.3), ebbe una buona stagione, ma aveva già 30 anni. Il titolare più giovane era il 26enne Lovellette, la nuova stella della squadra, quarto nella Lega nei punti (21.5 a partita) e terzo nei rimbalzi (14).

A metà stagione i Lakers erano così malmessi da convincere Mikan a tornare. Gli ci volle un po’ a rimettersi in forma, ma a fine campionato il suo onesto contributo (10.5 punti e 8.3 rimbalzi di media in 37 partite di regular season) l’aveva dato, pur non essendo più la star che era stato in passato. Chiudendo a 33-39, per la prima volta i Lakers erano andati sotto il 50% di vittorie; Mikkelsen, veterano al settimo anno da pro, guidò la Lega nei falli per il secondo anno consecutivo: chiari sintomi di un declino ormai irreversibile. 

Nel 1956-57 Minneapolis (34-38) guidò a pari merito con St. Louis (che vincerà lo spareggio) la Western Division, ma ciò era dovuto più alla debolezza della division che alla forza dei Lakers, se è vero che la squadra all’ultimo posto nella Eastern, i Knicks, avevanpo chiuso a 36-36. Eliminata (2-0) Fort Wayne nelle semifinali di division, i Lamers persero (3-0) ancora con gli Hawks nelle Finali della Western.

Le cose andarono anche peggio nel 1957-58. Mikan si lasciò convincere ad assumere l’incarico di head coach, ma fallì miseramente e si fece da parte con la squadra sul 9-30. Dopo mezza stagione nel front office, in panchina tornò Kundla, ma non poté fare granché. I Lakers (19-53) chiusero all’ultimo posto della Western, risultato orribile che però “valse” loro la prima scelta al Draft del 1958: Elgin Baylor, ala di Seattle University. 

Mikkelsen, ultimo legame con lo squadrone del passato, e Baylor, quarto nella Lega nei punti (24.9 di media) e terzo ai rimbalzi (15), trascinarono Minneapolis fino al 33-39 (14 vittorie in più dell’anno prima), record buono per il secondo posto dietro St. Louis nella Western. I Lakers superarono (2-1) Detroit, poi, a sorpresa, gli Hawks campioni in carica (4-2), negando loro la Finale con i Boston Celtics che tramavano vendetta.

Minneapolis, che al centro schierava l’ex Pistons Larry Foust e nel backcourt Hot Rod Hundley assieme a Dick Garmaker (quasi 14 punti a partita), aveva fatto l’impossibile, arrivare in Finale. Ma contro Russell e soci non ci fu storia. Boston, da due anni in striscia vincente nei confronti diretti (18 successi), li demolì: 4-0, primo sweep delle Finali, e addio sogni di rinnovata grandeur. Come canto del cigno, però, giù il cappello.

Il 1959-60 fu un fiasco. Kundla fu sostituito da John Castellani, già coach di Baylor al college. Con lui, la squadra compilò un record di 11-25, prima che a rimpiazzarlo fosse Pollard, l’ala piccola dei tempi d’oro. L’ex Kangaroo Kid non fece meglio, e i Lakers finirono a 25-50. Solo Baylor brillò: 29.6 punti e 16.4 rimbalzi a partita.

Nonostante la pessima regular season i Lakers, terzi in una division a quattro (i Cincinnati Royals fecero peggio: 19-56), arrivarono ai playoff. Eliminata 2-0 Detroit nelle semifinali di division, Minneapolis uscì contro St. Louis che rimontando dal 2-3 al 4-3 cancellò l’onta di dodici mesi prima.

Per la stagione 1960-61, con il club in crisi finanziaria e il baseball pro che incombeva (con i Minnesota Twins di Bloomington), il proprietario Bob Short chiese alla Lega il permesso di trasferire la franchigia a Los Angeles. Là il mercato era infinitamente più grande (i Dodgers della Major League di baseball vi erano arrivati da Brooklyn nel ’58) e in più vi era stata costruita la modernissima Sports Arena, la cui proprietà sbavava per avere in cartellone il basket pro. Nel frattempo Abe Saperstein, proprietario degli Harlem Globetrotters, rivali di Minneapolis in 8 memorabili esibizioni fra il ’48 e il ’58 (6-2 Lakers), annunciò la nascita di una lega concorrente, la ABL, e così la NBA corse ai ripari autorizzando i Lakers a colonizzare l’Ovest prima che ci riuscisse la nuova lega. 

Mikan non è stato il primo grande centro del basket pro (prima c’era stato Joe Lapchick degli Original Celtics di New York), lo è stato della NBA e sarà per sempre ricordato come la prima superstar della Lega. Secondo alcuni revisionisti dell’ultima ora, non avrebbe chance contro i lunghi della NBA di oggi e al massimo potrebbe recitare il ruolo del buon centro di riserva. Può darsi, ma i signori sottovalutano un dettaglio: Mikan possedeva – o forse ne era posseduto – l’insopprimibile desiderio di essere campione. Sette titoli in otto anni (più il NIT del ’45 al college), sei volte miglior marcatore e la prima dinastia del gioco pro: non male per uno «scoordinato corpaccione con gli occhiali» al quale il coach di Notre Dame, George Keogan, aveva detto di tornare a DePaul a studiare, perché nel basket proprio non era cosa.

Christian Giordano



I Lakers della prima dinastia
Herman (Herm) Schaefer (G, 1.82) – Forse più forte a baseball che a basket, era il capitano di una squadra di Hall of Famers e conquistò da titolare i primi due anelli della dinastia, nel ’49 e nel ’50. Nel backcourt con Don “Swede” Carlson prima e Robert Harrison poi, dal’51-52 fu rimpiazzato in regia da Martin, mentre nello spot di “due” andarono Frank Saul, riserva nel titolo del ’51 e titolare in quello dell’anno dopo, e Whitey Skoog. Carismatico.

Slater Martin (G, 1.77 per 73 kg) – Uno dei più grandi piccoli di sempre. Vinse 5 titoli in 11 stagioni NBA, quello del ’49-50 da rincalzo. All-American a University of Texas nel ’49, “Dugie”, classe 1925, era uno dei due giocatori dell’epoca a scendere in campo con le lenti a contatto, il che non gli impedì di passare alla storia come difensore implacabile. Nel 1956 bussò a soldi, i Lakers non ne avevano e lui andò a vincere l’anello con i St. Louis Hawks come scudiero di Bob Pettit. Sottovalutato.

James Clifford (Jim) Pollard (F, 1.92 per 83 kg) – Un Dr J (bianco) ante litteram. Nel ’48-49 giocava “quattro” con Arnold (Arnie) Ferrin ala piccola offensiva, l’arrivo di Mikkelsen lo spostò a “tre” nella irresistibile frontline completata dal centrone Mikan. Durante il riscaldamento si esibiva in schiacciate straordinarie. Per vederle il pubblico si presentava mezz’ora prima della partita, dopo la palla due era impossibile perché schiacciare era ritenuto poco sportivo. Precursore.

Vern Mikkelsen (F, 1.99 per 105 kg) – Alto e grosso (1.99 per 108 kg) ma mobile, era il prototipo della moderna ala forte. Prodotto locale del piccolo Hamline College di St. Pauli (Minnesota), vinse 4 titoli NBA (’50, ’52, ’53 e ’55) e ne sfiorò un quinto perdendo dai Celtics nella Finale del ’59. Antesignano.

George Lawrence Mikan Jr (C, 2.08 per 112 kg) – La prima superstar nella storia della Lega. 2.08 per 111 kg, dominava l’area dei tre secondi, poi allargata nelm tentativo di limitarlo, e chiunque osasse avventurarcisi. Gomiti assassini. Il look alla Clark Kent ne nascondeva lo spirito di feroce combattente. Dopo di lui, il basket pro sarebbe diventato territorio quasi esclusivo dei big men. Giocava indossando il 99 perché gli rinfacciavano di non dare mai il 100%. E se lo avesse fatto? Epocale.

John Kundla – Arrivò ai Lakers a soli 31 anni, nel ’47, da St. Thomas College. Classico “players’ coach”, capì che con simili campioni serviva più cervello che polso. Cultore della difesa e del gioco disciplinato, chiuse con 466-319, 70-38 nei playoff. Avveduto.

Tony Jaros (sesto uomo nel titolo BAA del ’49), Carlson, Don Smith, Warren Ajax e Ken Exel erano il nucleo originale della franchigia. Onesti mestieranti utili alla causa.


La curiosità/Perché “Lakers” 
Dal 1960 la franchigia, nata ai tempi della NBL come Detroit Gems, si crogiola al sole della costa californiana ma le sue origini risalgono alla terra dei laghi ghiacciati. Nel 1948-49, due imprenditori locali, Ben Berger e Morris Chalfen, comprarono i diritti e il club cambiò lega (BAA, dal 1949-50 ribattezzata NBA dopo l’assorbimento della NBL), città e nome: Minneapolis Lakers. È risaputo che la nuova denominazione era dovuta al trasferimento nel maggiore agglomerato urbano del Minnesota, il più settentrionale fra gli stati americani e, con il Wisconsin, quello che chiude ad ovest la regione dei Grandi Laghi. Meno nota è invece la radice etimologica del nickname. Alla lettera significa “quelli dei laghi”, spesso maldestramente tradotto con un improbabile “lacustri”. In realtà l’appellativo ha origini più concrete. Con “laker” si indicano le grosse navi-cargo capaci di navigare anche sull’oceano e largamente usate sui Grandi Laghi e lungo la St. Lawrence Seaway per trasportare enormi quantitativi di merci, tra cui carbone, minerali ferrosi, bauxite, grano, granturco e altri prodotti agricoli o minerari. Con il club in crisi finanziaria (e i Minnesota Twins di Bloomington alle porte), il proprietario Bob Short chiese alla NBA il permesso di trasferire la franchigia a Los Angeles. Per salvaguardare il patrimonio (che oggi sarebbe definito “d’immagine”) dovuto ai cinque titoli NBA vinti in sei anni, la squadra decise di mantenere il nome. I motivi di cassetta facevano a pugni con la mancanza di laghi della zona. Ma la scelta funzionò. Eccome. 


Riepilogo/Le finali di Minneapolis 
Stagione Lega Finale Risultato 
1946-47 NBL Minneapolis Lakers-Rochester Royals 3-2 
1947-48 NBL Minneapolis Lakers-Rochester Royals 3-1 
1948-49 BAA Minneapolis Lakers-Washington Capitols 4-2 
1949-50 NBA Minneapolis Lakers-Syracuse Nationals 4-2 
1951-52 NBA Minneapolis Lakers-New York Knicks 4-3 
1952-53 NBA Minneapolis Lakers-New York Knicks 4-1 
1953-54 NBA Minneapolis Lakers-Syracuse Nationals 4-3 
1958-59 NBA Boston Celtics-Minneapolis Lakers 4-0 

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