IrreCúperabili?


Nel primo Valencia di Cúper (1999-2000), Mendieta, Farinós, Gérard e Kily González formavano “La Cúperativa”, il centrocampo delle meraviglie di una squadra non imbattibile ma spettacolare. Una volta separati, chi più chi meno hanno tutti deluso. Non erano più gli uomini giusti al posto giusto…

di Christian Giordano, Indiscreto

Anni fa un giovane redattore della Tv svizzera italiana, stanco dei luoghi comuni sul consumismo natalizio almeno quanto del proprio caposervizio, costruì il “pezzo” con il preciso intento di mandarli a quel paese accompagnati da chi glielo aveva commissionato.

Questa l’idea-portante: stesse sequenze ma montate con musiche diverse e identiche interviste tagliate però in punti differenti.

La tesi che voleva dimostrare? In buona sostanza, che il vento spirava dalla parte dove si voleva spirasse. Fuor di metafora, l’esemplificazione della differenza tra bandiere e banderuole.

Non si occupava di calcio, ma compiendo un’analoga operazione con il presunto fallimento di Héctor Raúl Cúper e degli ex componenti la Cúperativa valenciana, il centrocampo delle meraviglie formato da Mendieta, Farinós, Gerard e Kily González, si sarebbe divertito.

Il fallimento nerazzurro dell’argentino, sancito dalla delegittimazione operata puntualmente in ritardo dall’allora presidente interista Massimo Moratti, ha scatenato detrattori efferati e apologeti acritici, categorie la cui lucidità di analisi è offuscata, nella migliore delle ipotesi, da una lacunosa preparazione professionale o, nella peggiore, dall’interesse: genio incompreso o perdente di successo – certo pseudogiornalismo prevede poche e confuse idee ma tante e fulminanti, definitive etichette –, senza vie di mezzo collocabili a seconda di gusti (quelli, sì, insindacabili), meriti e demeriti (meno soggettivi, ma più difficili da decifrare).

Fra le innumerevoli colpe imputabili ai padroni del calcio professionistico di oggi, imperdonabile è quella di aver rubato, ai semplici appassionati e agli addetti ai lavori, ormai assuefatti a brutture di ogni genere, non solo il gusto per il bel calcio – qua e là ancora rintracciabile, specie a livello internazionale – ma addirittura la sensibilità per coglierlo, di accorgersene.

Non si fa che ripetere che «non c’è più il calcio di una volta», che «quello di oggi fa schifo», rovinato com’è da doping chimici e amministrativi, ingerenze politiche, bilanci, passaporti e fidejussioni falsi, partite a mezzogiorno d’estate o dopocena d’inverno «perché lo sponsor vuole il prime time». Tutto giusto, tutto vero. Ma anche quando qualcosa di bello sul campo accade – perché da lì viene, non dalla lavagna né, tantomeno, dagli spalti –, a chi davvero interessa? E, soprattutto, a quanti?

Limitando l’analisi agli ultimi anni giusto per non sentirsi ripetere il tormentone che «quello era un altro calcio», ci sono stati momenti, storie ed episodi ai quali i poveri calciofili contemporanei possono aggrapparsi nella loro proustiana ricerca del football perduto. A spasso nel tempo, i dilettanti del Calais che il focoso tecnico Ladislas Lozano guidò alla finale di Coppa di Francia 1999-2000 (persa 1-2 con il Nantes); Paolo Di Canio che il 16 dicembre 2000 a Goodison Park, in pieno recupero, non girò a rete il cross di Trevor Sinclair rinunciando così al possibile gol della vittoria del suo West Ham per far soccorrere il portiere dell’Everton, Paul Gerrard, a terra infortunato; gol di tacco che non si vedevano dai tempi del bianconero – dei filmati e di maglia – Roberto Bettega: Alessandro Del Piero nella sfortunata finale di Champions League ’97 (1-3 con il Borussia Dortmund) e in campionato al Torino nel 2002, l’interista Iván Zamorano al Napoli nel ’98, il veneziano Filippo Maniero all’Empoli nel ’99 o i due Mancini capitolini, il laziale Roberto contro il Parma nello stesso anno e il brasiliano della Roma, Alessandro Faiolhe Amantin, nel derby d’andata di questa stagione; Real Madrid-Manchester United 3-1 dell’8 aprile 2003, quarti di finale di Champions League, che in Spagna definirono “El mejor partido del Mundo”; e, per rimanere in terra iberica, il fútbol tutta velocità e palla bassa sciorinato, soprattutto in casa, nella Champions League 1999-2000 dal primo Valencia di Cúper: 5-2 alla Lazio nei quarti, 4-1 al Barcellona in semifinale i picchi di spettacolarità di una squadra imperfetta ma straordinaria. 

La critica nostrana più provincialotta fa risalire all’avvento in panchina dell’italiano Claudio Ranieri la trasformazione del club levantino da semplice concorrente, con il Deportivo La Coruña, alla poltrona di terza grande di Spagna dietro Real Madrid e Barcellona, a superpotenza europea. Dopo la logorante esperienza alla guida della Fiorentina, in settembre l’attuale allenatore del Chelsea subentrò a Jorge Valdano, esonerato per gli zero punti in tre giornate della Liga ’97-98. In realtà il progetto Valencia inteso come società di alto livello parte da più lontano, da quando, nel 1992, il futuro presidente Francisco “Paco” Roig (in carica dal ’94 al ’97) annunciò l’ambizioso piano atto a incrementare del 50% la capienza del Mestalla (55.000 posti), aggiungendo a quella esistente altre due gradinate. I residenti insorsero (le tribune così alte avrebbero oscurato la luce del sole su tutto il circondario) e la spuntarono, ma il sasso nello stagno era stato lanciato: il polemico, dittatoriale, pittoresco ma carismatico uomo d’affari valenciano fece capire che, sul suo impero, quel sole non sarebbe mai tramontato. Per dimostrarlo Roig non badò a spese. Cambiò allenatori come calzini (Guus Hiddink e José Manuel Rielo, richiamati e risilurati, Francisco Real, Héctor Núñez, il campione del mondo Carlos Alberto Parreira e Luis Aragonés) e cominciò a collezionare star, specie in attacco, come francobolli introvabili: il brasiliano Romário il Gronchi rosa, gli argentini Ariel Ortega e Claudio López i preziosi a corredo. Poi Ranieri gettò le basi di un progetto a lungo termine che ancora oggi sta ripagando con frutti copiosi. Perché gli fu dato il tempo di lavorare. Capìta l’antifona? «Quando arrivai a Valencia sapevo di avere Romário e Ortega» è solito raccontare il tecnico romano. «Non conoscevo Claudio López, Mendieta e Farinós. Dopo un mese sostituii le stelle – che il meglio di sé lo davano fuori del campo, ndr – per mettere in squadra quei giovani promettenti e il pubblico mi urlava “Torna a casa tua, italiano figlio di...”. Ma il presidente credeva in me». Capìta l’antifona? Ranieri, che aveva già avuto presidenti dalla robusta fama di mangiallenatori (Corrado Ferlaino a Napoli, Vittorio Cecchi Gori alla Fiorentina) e altri ne avrebbe incontrati (Jesus Gil y Gil all’Atlético Madrid e Ken Bates al Chelsea; Roman Abramovich sta imparando il mestiere), non è uno che fa marcia indietro davanti alle “uscite” di Roig, rimasto come azionista di maggioranza, o del successore, il più pacato Pedro Cortés Garcia, l’uomo che lo aveva voluto lì, e va avanti per la sua strada. Ma oltre a quello dei risultati, a Valencia, la città spagnola calcisticamente forse più calda e appassionata (in senso buono: la contestazione massima consiste nella caratteristica “panolada”, lo sventolìo dei fazzoletti bianchi che il pubblico compie rumorosamente quando lo spettacolo non gli garba), esiste un altro problema: lo spettacolo, appunto. E quello, si sa, non si misura. Si gode. 

Ranieri ricorda in particolare un episodio, riferito a una gara interna del ’97-98, che riassume al meglio il concetto appreso in due stagioni al Mestalla: «Eravamo in vantaggio 3-0 all’intervallo, poi due dei nostri furono espulsi. Mancava mezz’ora alla fine, così lasciai solo una punta là davanti e dissi ai miei giocatori di tenere palla e di non affondare. I tifosi cominciarono a protestare, volevano che segnassimo ancora. Incredibile. Dopo la partita, che finì 3-1, mi vidi con il presidente. Era furibondo, ce l’aveva con me, come i tifosi, perché mi ero “seduto” sul vantaggio». Ah.

Nel ’99, messa in bacheca la Coppa nazionale (3-0 all’Atlético Madrid), Ranieri fa fagotto. Comincia l’èra-Cúper, il tecnico del Real Maiorca dei miracoli che aveva trasformato due modeste squadre argentine, Huracán (1992-95) e Atlético Lanús (1995-97), campione Conmebol ’96, nelle terze incomode dietro le due grandi storiche Boca Juniors e River Plate. Nel suo primo anno alle Baleari, aveva condotto i neopromossi isolani al quinto posto, miglior piazzamento di sempre, e a due finali con il Barcellona, nella Supercoppa spagnola (conquistata vincendo 2-1 in casa e 1-0 fuori) e in Coppa di Spagna (persa ai rigori). La delusione in Copa del Rey fu un duro colpo. Perdere subito dopo i sei undicesimi della formazione titolare, ceduti a club finanziariamente più solidi, lo fu ancora di più. Ma Cúper fece spallucce e costruì una squadra addirittura migliore. Il sottovalutato Vicente Engonga debuttò nella nazionale iberica a 33 anni. Valerón e Lauren, pescati in Segunda división, esplosero. Nel ’98-99, il Maiorca costruito sugli scarti delle grandi (Dani, Romero, Iván Campo, Marcelino, Soler e Ezquerro) arrivò terzo in campionato e finalista in Coppa delle Coppe. La perse (2-1 con la Lazio delle stelle Mancini, Vieri, Nesta, Salas e Nedved, autore del gol vincente all’81’), ma per un club senza alcun pedigree europeo, dalle risorse finanziarie limitate e con 10 mila spettatori di media, arrivare a tanto così da un sogno fu un’impresa straordinaria. 

Al Valencia, Cúper dovette ricominciare da capo. E fu anche fortunato. Al Celta Vigo bastava un punto contro l’Atlético Madrid nell’ultima giornata della Liga ’98-99 per assicurarsi il quarto posto e quindi i preliminari di Champions League; invece, la prima sconfitta interna in oltre un anno dei galiziani aprì le porte dell’Europa che conta ai valenciani. Dopo un avvio di stagione disastroso (un punto in 5 partite), sotto la guida dell’argentino il Valencia si ritaglia un posto nell’élite del calcio europeo. Nel suo primo anno, stagione 1999-2000, conquista regalando spettacolo la finale di Champions League, persa (3-0) ancora prima di toccare l’erba dello Stade de France di St. Denis, Parigi, nella sfida fratricida (si fa per dire) contro il Real Madrid. L’anno dopo concede il bis, a Milano con il Bayern Monaco (campione ai rigori), con una squadra profondamente cambiata per le cessioni di Claudio López (Lazio), Gerard (rientrato al Barcellona), Farinós (Inter) e Oscar (Espanyol), e mutando pelle: da squadra velocissima e tecnica, abile in contropiede quanto nell’attaccare la difesa schierata, i blanconigros diventano meno belli ma più compatti e possenti (una torre in attacco, John Carew o Diego Alonso; David Albelda e Baraja a metà campo con Deschamps come rincalzo), più pragmatici, a volte cinici. In Europa, almeno; perché la Liga (3° e 5° posto) resta un sogno inappagato. 

A Valencia, come dappertutto, i piazzamenti attirano complimenti ma non bastano. Da qualunque altra parte sbaverebbero per avere quel tecnico serio, rigoroso, magari troppo rigido e taciturno ma abituato ad addossarsi responsabilità proprie e altrui anziché dare la colpa a cause esterne che i suoi colleghi chiamano infortuni, squalifiche, congiure di Palazzo, torti arbitrali, distrazioni da voci di mercato e via svicolando. E allora Cúper se ne va. Lo vogliono soprattutto il Barcellona, per ricostruire, e l’Inter, che al solito deve rifondare. L’uomo di Chabas, novello Frost, sceglie la via meno battuta ed è per questo che è diverso. Ama le sfide e vincere sulla panchina nerazzurra è quella più difficile. 

In due anni e mezzo ridà dignità tattica alla squadra (per la società nulla poteva: è bravo, ma ancora non cammina sulle acque), sfiora due scudetti – il primo perso malamente, sì, ma non si dice sempre che «in campo ci vanno i giocatori»? – e raggiunge due semifinali europee dove esce per mano dei futuri vincitori, il Feyenoord in Coppa UEFA e il Milan (finalista con due pareggi) in Champions League. L’Inter di Cúper un “gioco”, come va di moda dire senza specificare che cosa si intenda in concreto, non lo ha mai avuto. Ma di tutte le Inter post-Trapattoni è l’unica, dopo quella di Simoni (Uefa vinta, scudetto infrantosi su Iuliano), ad avere una identità. Il signore di Crevalcore l’aveva disegnata a immagine e somiglianza di Ronaldo: palla lunga per il satanasso del gol, che allora fisicamente stava bene, e gli altri fuori dai piedi. Una sorta di “isolation play” per il Michael Jordan del calcio. Ma Cúper un Ronaldo a pieno regime non lo ha avuto, e di questo, colmo dei colmi, gliene hanno pure addossato la colpa. Primo fra tutti lo stesso Fenomeno, che ha posto alla (caricatura di) società lo storico aut aut: o lui o io. Per una volta che Moratti prendeva una posizione (via il bambino viziato), ecco lo stesso patron affannarsi a ripudiarla con uscite inopportune e “sfiducie” da governo italiano. 

Caduto il prode Héctor, che di suo ci ha messo sfondoni a volte davvero grossolani (Vivas forever, intuizione buona per un titolo delle Spice Girls, mossa suicida in un derby; ma si potrebbe continuare), in molti ne hanno associato il presunto flop a quelli, alquanto concreti, della più celebre delle sue Cúperative (i media di lingua spagnola hanno appiccicato l’etichetta a tutte le squadre da lui allenate): la linea mediana comprendente Mendieta, esterno destro valorizzato da Ranieri che gli aveva cambiato fascia; Farinós regista difensivo; Gerard, ex “medio centro” riciclatosi da mezzapunta, abile negli inserimenti offensivi e nel gioco aereo; Kily González, laterale mancino dalla spiccata personalità e bravo nel “trovare” la porta grazie al tiro forte e preciso. Ce ne fosse uno che, lasciato il Mestalla, sia tornato ai livelli valenciani e il discorso si potrebbe ampliare a Claudio López e a Carew (leggasi “Carèv” e non “Cheriu” come si sente blaterare via etere), il lungagnone che sostituì “el Piojo” (il Pidocchio). 

Ironia della sorte, andato via Cúper, a 31 anni dall’ultimo successo in campionato, giunto con Alfredo Di Stéfano allenatore, e a 21 dall’ultimo successo del club, la Coppa delle Coppe vinta con un altro munumento del calcio argentino, il fuoriclasse Mario Kempes, il Valencia di Rafael Benítez conquistava la tanto sospirata Liga. E allora ditelo.

La temporada 2001-02 fu una delle Liga più strane di sempre: in un torneo famoso per il gioco d’attacco, il Valencia si laureò campione segnando, spesso su contropiede, la miseria di 51 gol in 38 partite, 14 meno del Deportivo La Coruña secondo classificato e 18 meno del Real Madrid, terzo. Capocannoniere della squadra fu il centrocampista Ruben Baraja, 7 centri, preso dal retrocesso Atlético Madrid per sostituire Farinós. In doppia cifra gli attaccanti Sánchez e Salvador “Salva” Ballesta (“Pichichi” 1999-2000, 27 centri con il Rácing Santander), ci andarono sì, ma insieme: 10 gol in due. Il sorprendente risultato premiò la grande rimonta avvenuta nel girone di ritorno. Dopo una sofferta partenza, da gennaio in poi i valenciani persero una volta e vinsero 10 delle ultime 12 partite. Fu decisivo il 2-0 esterno sul Malaga alla penultima giornata, che valse il titolo al club e la conferma a Benítez, sulla graticola da inizio stagione. Real Madrid (di fresca nomina Squadra del secolo) e Deportivo sembravano fuori portata. Ma il Valencia fu più squadra, poi dedizione alla causa e organizzazione, specie difensiva (appena 23 i gol concessi dalla Maginot titolare: Curro Torres-Pellegrino-Ayala-Carboni), fecero il resto. 

Il successo in campionato non deve però far dimenticare i malumori suscitati nella tifoseria levantina dai primi mesi della gestione-Benítez e dalla politica di Cortés, che, nonostante gli 80 milioni di sterline incassati sul mercato, ne aveva lasciati 100 di debiti. Cúper prima e Benítez con pochi mezzi sono riusciti a mettere insieme rose competitive giocando a seconda dei casi un calcio veloce (1999-2000), pragmatico (2000-01), speculativo (2001-oggi). La ciambella non è riuscita col buco la stagione scorsa, ma potrebbe essere sfornata quest’anno, complici le discutibili scelte del Real Madrid (ok gli “Zidanes y Pavones”, ma senza i sostituti di Hierro e Makelele, chi difende?, chi recupera palla?), la pessima partenza del Barça e le felici distrazioni europee del Super Depor. 

In simili realtà l’allenatore ha più ascendente sui calciatori e voce in capitolo nelle scelte societarie; e se di suo ha carisma gli sarà più facile alternare carota e bastone per ottenere il massimo da giovani promettenti non ancora affermati o da grossi nomi in cerca di riscatto. In grandi club come Inter (Farinós, Kily González), Barcellona (Gerard) e Lazio (Mendieta, Claudio López), giusto per non fare nomi, è più difficile che accada. Se poi ci si mettono anche gli infortuni, come nel caso del blaugrana o del puntero biancoceleste, allora la strada, già in salita, si impenna come il Mortirolo. E una volta persa la fiducia di tecnico, stampa, ambiente e tifosi, risalire la china è dura. Ci vogliono personalità e buona sorte. Mendieta, per esempio, non le ha avute, per incapacità sua e per la miopia tecnica di chi credeva di aver ingaggiato un fuoriclasse anziché un giocatore di rendimento, un virtuoso del pallone anziché un settepolmoni al servizio del collettivo. Già, il collettivo. A Valencia c’era, a Roma? Riassumendo. Il flop degli ex membri della “Cúperativa” è spiegabile, perlomeno in parte, con ragioni diverse. 

Gaizka Mendieta (classe ’74) alla Lazio non si è ambientato e non è stato capito. Al Middlesbrough, responsabilizzato il giusto ma non schiacciato dal peso della spropositata cifra spesa per ingaggiarlo, sta dando segni di ripresa. «Quando cominciò ad allenarsi con la prima squadra era così forte che buttava giù i muri,» giura l’ex centrocampista valenciano Roberto «tecnicamente però era modesto. Ma in tutti questi anni non ho mai visto un giocatore migliorare tanto». Dai muri al “muro” insomma, perché Mendieta non è una stella. Per rendere gli bastano una fascia (la destra) da percorrere instancabilmente e la fiducia dell’ambiente. Ogni tanto segna, magari su rigore, basta non chiedetegli di fare il Beckham, il Mancini o il Matthaus. È Mendieta.

Il discorso, con le dovute differenze di ruolo (regista arretrato), può essere esteso a Francisco Javier Zapata Farinós (’78), con l’aggiunta degli infortuni e forse della sopravvalutazione tecnico-caratteriale. Senza menare il can per l’aia, il buon Francisco, a dispetto del terzo nome, non è un “líder” ma può essere un buon giocatore (magari non da Inter) che funziona se funziona il contesto in cui opera. Con Zaccheroni ha avuto qualche chance di giocare con continuità, e qualche timido progresso si è visto. Robetta, ma per valutarne appieno pregi e difetti bisognerebbe che anche all’Inter, ricevuta palla sulla propria trequarti, si abbia almeno una vaga idea di che cosa farne. 

Gerard López Segú (’77) ha avuto diversi infortuni (tre operazioni al ginocchio destro per la rottura del menisco esterno, interventi di pulizia compresi, e problemi agli adduttori) che lo hanno quasi fatto scomparire dalla scena. Una volta in squadra, si è distinto, più che in campo, negli spogliatoi, dove Rijkaard lo ha beccato al telefonino poco prima della gara di Coppa UEFA contro gli slovacchi del Matador Puchov. Un atteggiamento poco professionale (eufemismo) punito con l’esclusione dall’undici iniziale, misura adottata dal tecnico a mo’ di monito per l’intera truppa, già recidiva. 

Cristian Alberto Kily González (’74) è andato via da Valencia in un momento di chiara flessione (Benítez lo utilizzava sempre meno). Quando l’argentino ebbe la malsana idea di lamentarsi con la stampa, il tecnico non fece una piega e gli preferì l’allora 21enne Rodriguez Guillem Vicente (’81), talentuoso laterale mancino oggi titolare fisso e appetito da mezzo continente. All’Inter, fatte le debite proporzioni, sarebbe stato possibile con un Giovanni Pasquale qualsiasi? La risposta è no. In realtà il giovane virgulto nerazzurro le sue brave occasioni le ha avute, ma se non ti chiami Paolo Maldini non è facile giocare a San Siro quando ancora non ti fai la barba tutti i giorni. Dal canto suo Kily, che da quando è a Milano quasi non tira più in porta, pare aver perso anche quella carica agonistica che lo aveva sempre contraddistinto. Come si dice di chi ormai sembra aver dato il meglio di sé, un grande avvenire dietro le spalle.

La feroce determinazione di capitan Mendieta e la classe di Gerard sono stati sostituite dal lavoro oscuro di faticatori come Albelda e Baraja. Oggi sono nazionali e, specialmente il secondo, che ha un buon feeling con il gol, potenzialmente valgono milioni. Ma una volta “scorporati” dal meccanismo, si ripeterà quanto capitato ai loro predecessori? Il rischio sembra più basso per Aimar. Con l’“hombre vertical”, come in Spagna chiamavano Cúper per la sua abitudine di seguire in piedi la partita, faticava a trovare spazio ma più per l’incompleta maturazione del giovane (’79) e talentuoso connazionale che per l’eccessiva prudenza del tecnico. Benítez è stato più fortunato. E per concedersi il lusso ha cambiato la struttura della squadra. L’impiego di un fantasista tecnico ma leggerino come “El Payaso”, il Pagliaccio, ha richiesto un assetto diverso. Per assecondarne l’estro, il successore di Cúper ha costruito la già citata doppia protezione Baraja-Albelda, con Rufete a destra e l’ottimo Vicente a sinistra a spingere sulle fasce. Una delle principali differenze tra il Valencia di Benítez e quello di Cúper riguarda proprio questo: La Cúperativa sfruttava gli inserimenti dalla mediana, frequenti e tesi a valorizzare gli spazi creati dall’oscuro lavoro di un attacco portato a dare pochi riferimenti (il contropiedista Lopez il primo anno, o la torre Carew nel secondo, come unico terminale offensivo). Quel Valencia chiedeva ai terzini di salire molto (gli eterni Jocelyn Angloma a destra e soprattutto Amedeo Carboni all’altra parte; entrambi all’apice di una longeva carriera), questo si avvale di più di esterni puri. Un’altra differenza riguarda l’applicazione del turnover: Rafa ne è un fan quasi maniacale, Héctor lo considera una sorta di male necessario. Più netta invece appare la distanza tra la filosofia di gioco preferita da Ranieri e quella cúperiana. Il primo ama fraseggi e sovrapposizioni; in Inghilterra lo chiamano “pass and run”, da noi “dai e vai”, ma la sostanza è quella. A Valencia, il gruppo era già abituato a giocare in velocità, logico che anche il “tradizionalista” Cúper si sia adeguato almeno in parte al materiale a disposizione. In tutta probabilità l’argentino non è né un brocco né un fenomeno, ma semplicemente un onesto lavoratore con meriti e limiti precisi. Sa imporre delle regole al gruppo (tutti uguali) e alla squadra (4-4-2 sempre), ma finora gli sono mancate l’elasticità e la capacità di cambiare in corsa, qualità molto utili se non addirittura indispensabili nel calcio moderno. È cresciuto alla scuola di Carlos Timoteo Griguol al Ferrocarril Oeste, dove «se protestavi con l’arbitro, lui ti toglieva di squadra e ti spediva a fare giri di campo a costo di lasciare la squadra in dieci», quindi non ama i capricci delle primedonne, che scalpitino per rientrare da un infortunio (Ronaldo) o giocare di più (Recoba) o che facciano le bizze dper via di un termosifone bollente (Vieri, Di Biagio). A Valencia ancora ricordano il suo epico scontro con Claudio López, spedito in vacanza per una settimana a raffreddare i bollenti spiriti in un rigenerante bagno di umiltà.

Ha sempre creduto in un modulo: il 4-4-2, con sporadiche concessioni al 4-3-1-2 in presenza di una mezzapunta o di un fantasista puro. In difesa, ai tempi fra le più forti d’Europa, vuole marcatori esperti (Soler e Olaizola nel Maiorca, Djukic, Pellegrino e Ayala nel Valencia). A centrocampo predilige due laterali bravi tecnicamente (sulla destra Lauren a Maiorca e Mendieta a Valencia; sulla sinistra Jovan Stankovic a Maiorca, Kily González o Vicente a Valencia), un mediano di spinta (Engonga a Maiorca, Farinós o Baraja a Valencia) e una mezzapunta (Valerón a Maiorca, Gerard e poi Aimar a Valencia). In attacco, studia schemi che si adattino alle punte e non il viceversa (a Maiorca, Dani e gli argentini Leo Biagini e Gaby Amato; a Valencia Claudio López, Ilie, Sánchez, Carew o Diego Alonso). 

Quando lasciò il Mestalla, per salutarlo gli stessi tifosi valenciani che all’inizio ne reclamavano la testa lo salutarono con uno striscione: «Héctor, qui sarai sempre di casa». Forse non sarà un “vincente”, ma ovunque sia andato è stato rimpianto. Ai perdenti non succede, ai luoghi comuni neanche. Alla Cúperativa chissà.

Christian Giordano

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