Le radici di Ibrahimović
MALMÖ. L’uomo arrivato a Parigi da re e andato via da leggenda, a casa sua è qualcosa in meno e molto di più. È un idolo e un fantasma, è un dio lontano, del resto a chi verrebbe in mente di venerare un vicino di casa. Mentre Manchester si prepara ad accoglierlo con un assegno da 13 milioni all’anno per ricongiungerlo a Mourinho e guastare i giorni a Guardiola, esiste un solo posto in cui sia ancora possibile essere Ibrahimović senza smettere di sentirsi Zlatan. Qui, dove tutto è iniziato, dove grazie a lui la vita è cambiata prima che il ponte di Öresund unisse la città a Copenhagen.
“Un Mondiale senza di me non merita di essere visto” disse nell’estate del 2014. “Non riesco a immaginare un Europeo senza di me”, ha ripetuto a ottobre. Avrà 34 anni, otto mesi e dieci giorni quando il 13 giugno inizierà il suo torneo, l’ultima stagione di caccia con la Nazionale, avversaria l’Irlanda. Poi toccherà a noi, e speriamo non sia arrabbiato.
L’uomo a cui la Cina aveva offerto 75 milioni all’anno, qui è una stella e un ragazzo del ghetto. Non fosse andata com’è andata, Zlatan sarebbe una delle sentinelle che se ne stanno sedute con gli occhiali scuri e lo stereo acceso dentro macchine di lusso all’imbocco di Rosengård, il quartiere anni ’60 diventato una bomba di tensioni sociali. L’indirizzo è Cronmans väg 5a. Due camere e cucina a 400 euro al mese. Anna Bencić indica il balcone al quinto piano. “Era là che abitavano. Quando la madre usciva, mi chiedeva di tenere d’occhio Zlatan. Se ne stava sempre da solo ma non era difficile scoprire dove si rifugiasse”. Törnrosen, lo chiamavano il campetto degli zingari. “Un’altalena, un’area giochi, un palo da bandiera e un campo da calcio”, così lo descrive Ibra nella sua autobiografia. È diventato lo Zlatan Court. Pure su Google Maps. Ibra lo ha sistemato a spese sue. All’ingresso c’è una stella con l’impronta dei suoi piedi, i ragazzini si spingono per infilarci le scarpe dentro. Jonas si mette in posa: “Per favore, portami in Italia”.
Non ci sono scuole calcio a Rosengård. C’è la strada, c’è l’asfalto di Zlatan. Ogni tanto passa un osservatore. Figlio di un bosniaco e di una croata, Ibrahimović ha tracciato una via che la Svezia del calcio batte convinta. Mentre il tennis si dispera perché non affascina i sobborghi, senza un giocatore fra i primi cento dopo gli anni di Borg Edberg e Wilander, l’Under 21 ha vinto gli Europei con Isak Ssali Ssewankambo di radici ugandesi, Erdal Rakip d’origini macedoni, Kerim Mrabti di padre tunisino e Amin Affane marocchino, Ferhad Ayaz turco, Dino Islamović bosniaco. Senza Ibra non ci sarebbe tutto questo. Il 31% dei residenti a Malmö è nato all’estero, sei immigrati su dieci hanno passaporto svedese. In prevalenza iracheni, slavi, polacchi; negli ultimi anni molti siriani e turchi. Una città con un’età media di 36 anni. Gli immigrati fanno i tassisti perché le licenze sono gratuite.
Ola Gällstad è stato il primo allenatore di Ibrahimović nelle giovanili del Malmö. “Non so quanti lo avrebbero definito il più dotato, di certo tutti lo avrebbero indicato come il più determinato. Chiunque lo abbia visto a 14 anni non si stupisce che sia arrivato dov’è adesso”. L’Hotel Clarion ha creato la Zlatan Suite, al ventisettesimo piano, ci si dorme con novemila corone a notte. Quando Ibra è tornato da avversario per la Champions, volevano dargli le chiavi, mentre il Turning Torso di Calatrava si illuminava con una gigantesca Z in cima. I 21mila biglietti furono venduti in 28 minuti. Il nuovo stadio è stato costruito di fronte al vecchio, quello in cui il Malmö del ’79 andò in finale di Coppa Campioni con i gol di Ljungberg. C’è una sola foto di Ibra all’interno. Dopo la cessione all’Ajax i rapporti si guastarono, questione di soldi. “Forse un giorno ci sarà un museo”, azzarda Rune Smith, inviato per il quotidiano del pomeriggio Kvällsposten. Il 28 febbraio del 2000 fu il primo a intervistare Zlatan. Pagine 30 e 31. Titolo: “Entro tre anni sarò professionista in Italia”. Ne impiegò quattro. Confessò: “La squadra dei miei sogni è l’Inter”. Rune Smith riaccompagnò quel diciottenne in macchina a casa. Davanti a un caffè racconta: “Capii che sarebbe diventato un grandissimo perché era un giocatore inusuale. Alto ma veloce, potente ma tecnico. Non riuscivano a togliergli la palla”. Smith finì per seguirlo pure all’Ajax. È il solo giornalista di cui Ibrahimović parli con affetto nel suo libro. “Abbiamo continuato a incrociarci in nazionale: ciao Rune, ciao Zlatan. Quando diventi una stella, vieni circondato da un sistema che ti isola. Ogni tanto sento suo padre. Ma Ibra non tornerà. Avrebbe tifosi sotto casa a ogni ora del giorno”. La casa allora l’ha venduta, 836 metri quadri di fronte la spiaggia di Ribesborg, nella Malmö più chic. In cambio di 30 milioni di corone – in euro sono 3 e qualcosa – ora appartiene a Carl Söderberg, dei Colorado Avalanche nella Nhl.
Il regista Fredrik Gertten ha ricostruito la scalata di Ibra nel documentario “Becoming Zlatan”. “Per la Svezia è stato più importante di Borg. È popolare in Cina, in America, è il simbolo di chi combatte contro le persone che non credono in te: un insegnante, un preside, l’establishment. La sua psicologia è semplice. Si lega a chi lo rispetta. Capello sì, Guardiola no. Il calcio gli ha permesso di restare se stesso, in altri contesti avrebbero provato a normalizzarlo. Non ci sono molti altri motivi di orgoglio per Malmö. Ma Zlatan appartiene al mondo. È diventato troppo grande per essere ancora soltanto nostro. A lui piacciono le sfide: dimostrare che non esiste paese in cui non possa eccellere”. Come nel neologismo accettato dalla Sprakradet, la Crusca svedese, la sfida è zlatanare. Dominare.
(da la Repubblica del 18 giugno 2016)
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