HOOPS PORTRAITS - Elvin Hayes: Big E, Big Numbers
«Alla fine aver vinto il campionato completa il quadro, perché nessuno potrà mai più dire che E non è un campione».
– Elvin Hayes
di CHRISTIAN GIORDANO
Checché ne sentiate o leggiate in giro, Elvin Ernest Hayes è stato uno dei giocatori più forti di tutti i tempi. In 16 stagioni di NBA (dietro solo alle 20 di Jabbar) ha saltato solo 9 gare, non ha mai giocato meno di 80 gare stagionali e si è ritirato terzo di sempre per punti (27.313, ora è settimo), quarto per rimbalzi (16.279) e partite (1.303) e secondo per minuti giocati: 50.000 esatti. Sì, e fu intenzionale. Il suo problema è che era troppo innamorato di cifre e statistiche. Le sue. In pochi però sanno o ricordano che il miglior Hayes si è visto al college, alla University of Houston.
Nato il 17 novembre 1945 a Rayville, Louisiana, Hayes ha giocato alla locale Eula D. Britton High School. Cresciuto, anzi esploso fino a 2.04 per 107 kg, era un agonista feroce dotato della rara combinazione di velocità e potenza che gli consentivano di dominare con punti e rimbalzi e un immarcabile fall-away/turnaround jumper, il tiro in sospensione in avvitamento all’indietro che diventerà poi uno dei suoi marchi di fabbrica.
Anche qui, però, occorre un distinguo. Michael Jordan, Kevin McHale e Hakeem Olajuwon svilupparono quel tipo di tiro ma per motivi diversi. Jordan, per esempio, per evitare l’intimidazione fisica ben riassunta dalle Jordan Rules dei Pistons, i Bad Boys che cercavano con le cattive di impedirne, o limitarne, l’entrata a canestro. A differenza di Hayes, per MJ quell’arma andava però a completare un arsenale già amplissimo. E se aggiungete il dato statistico che Hayes è il giocatore con più fall-aways nella storia della NBA, un’idea sull’Elvin clutch-performer ce la si può fare.
Spesso sottovalutato, invece, il suo apporto difensivo. Arrivato nel college basketball la stagione in cui se n’era appena andato Bill Bradley, accumulò medie irreali nella squadra dei freshmen: 25.1 punti e 23.8 rimbalzi a partita. La media punti che addirittura crebbe stagione dopo stagione, con i Cougars – trascinati da lui e da Don Chaney – che presto diventarono una superpotenza da titolo.
Nel 1967 Houston chiuse al terzo posto il Torneo NCAA, sconfitta in semifinale da UCLA, e per la stagione successiva, con Hayes e Chaney nel loro anno da senior, le attese erano altissime per spezzare, finalmente, l’egemonia dei Bruins di coach John Wooden, campioni NCAA per sette stagioni consecutive.
Fu il coach di Houston, Guy Lewis, a fiutare per primo l’opportunità di fare marketing in occasione dello scontro diretto, in calendario per il 20 gennaio 1968. Convinse il proprio ateneo e le autorità locali a fare disputare la partita dal piccolo palazzetto del campus della facoltà all’immenso Astrodome. Annunciata come la Partita del secolo, scatenò un’immediata caccia al biglietto per un evento che, s’intuiva, avrebbe fatto epoca.
UCLA veniva da una striscia di 47 vittorie, ma Houston sembrava in grado di batterla. O perlomeno di poterci provare. La copertura mediatica fu straordinaria. E, ancora più sorprendente, la partita sarà a game for the ages. Da tramandare ai posteri.
Sulla carta il confronto tra Hayes e il celebrato centro di UCLA, Lew Alcindor, doveva essere un mismatch. E lo fu: ma perdente per i Bruins. Hayes segnò 29 punti nel solo primo tempo, infilando 14 dei suoi 19 tiri tentati su azione. In più rifilò ad Alcindor diverse delle sue 8 stoppate totali. A 44 secondi dalla fine, punteggio sul 69-pari. E fu Hayes a deciderla: con i liberi del 71-69. Big E chiuse con 39 punti e 15 rimbalzi. Alcindor, che la settimana precedente aveva avuto problemi alla cornea dopo uno scontro, si fermò a 15 punti. In tre stagioni, Hayes giocò tredici gare a Torneo NCAA, chiudendo la carriera universitaria con il record per punti segnati (358) e media-rimbalzi (17.1). Non per niente uno dei soli cinque numeri ritirati dai Cougars è il suo 44 che oggi pende dalle volte dell’Hofheinz Pavilion, l’arena nel campus della University of Houston.
Nei pro’, magari non lo volevi in campo negli ultimi tre minuti delle grandi partite ma Big E è stato davvero il Karl Malone della sua generazione. Un’ala grande dal fisicone scolpito nella pietra, con cifre impressionanti che però spariva un po’ quando, come si dice di là dell’Atlantico, il pane deve essere imburrato. Insomma, quando conta per davvero. Con un paio di differenzine: Malone due finali NBA consecutive le ha perse, Hayes una l’ha vinta e una no, per non parlare di quella vinta dai Milwaukee Bucks di Lew Alcindor & Oscar Robertson nel 1971: non pervenuto; il Postino, che tra i colleghi era più quotato, di MVP ne ha alzati due, mentre Elvin non è mai andato neanche al ballottaggio.
Nel 1979, l’anno dopo il titolo e della finale-rivincita persa contro Seattle, i tifosi dei Bullets ne salutavano ogni bella giocata con cori di «Emmm-Vii-Pii». Una litania. Alla fine, però, in tutta la sua pur straordinaria carriera Big E entrò nei primis sei solo tre volte: quinto nel 1974, terzo nel 1975 e nel 1979.
Non va però dimenticato che Hayes i primi quattro anni da pro li ha giocati ai Rockets, dove oltre ai 27 punti e 16 rimbalzi di media si era procurato, stando a uno Sports Illustrated del febbraio 1974, si anche la fama di «ball hog (mangiapalloni), mela marcia, dumbbell (stupidotto) e perdente nato». Con la squadra trasferitasi nel 1971 da San Diego a Houston, città dove Elvin aveva furoreggiato al college, sembrava naturale puntare su di lui come uomo-franchigia. Invece il management pur di liberarsene lo cedette prima ancora che cominciasse la stagione 1972-73 per cash più Jack Marin, noto nella lega più che altro per l’inquietante voglia rossa sul braccio destro, oggi mimetizzata con dei tatuaggi. E al proposito, in Tip Off: How the 1984 NBA Draft Changed Basketball Forever, Filip Bondy racconta uno strepitoso aneddoto su Hayes, tornato a Houston nel 1981. Prima della sua ultima stagione ai Rockets (1983-84), Big E si atteggiava a mentore del promettente rookie Ralph Sampson, che invece coach Bill Fitch prendeva da parte per intimargli: «Stai lontano da quel coglione buono a nulla».
Neanche nella vittoriosa Finale NBA del 1978 mancarono i suoi critici. Hayes segnò 133 punti nelle prime sei gare della serie ma soltanto 19 nei quarti periodi. Un calo che indusse Curry Kirkpatrick di Sports Illustrated a scrivere che «ancora una volta nelle grandi partite l’individualismo aveva prevalso su Elvin, ancora una volta sparito nei momenti di crisi tra il suo nascondersi e il suo lamentarsi con tutti degli arbitri. È un imperativo per i Bullets che il loro unico vero giocatore di “nome” e per 10 anni All-Star giustifichi il proprio status non dissolvendosi alla fine della settima partita». Il motivo di tanto furore cronachistico? Elvin in Gara7 aveva segnato 12 punti ed era uscito per falli con ancora 10 minuti da giocare in una gara, decisiva, e punto a punto. Hanno vinto il titolo in trasferta senza di lui. Lo trovo interessante».
Nei festeggiamenti del dopopartita, pronta la replica col nick in terza persona singolare: «Possono dire quel che vogliono. Ma dovranno dire anche una cosa: “E è campione del mondo, indossa l’anello”». Anche questo è interessante.
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