FOOTBALL PORTRAITS - Gullit, cervo esce di foresta (2005)



Dall’impegno sociale al sexy football, dalle polemiche con i suoi allenatori ai matrimoni falliti, dalle imprese sul campo alle difficoltà in panchina, da Arrigo Sacchi a Nelson Mandela: “Cervo esce di foresta” ha sempre avuto vissuto a modo suo, facendosi forza della sua potenza fisica, della sua enorme classe e dell’istintività tipica di uno spirito libero

di CHRISTIAN GIORDANO
Eurocalcio, n. 58 – agosto 2005

Vujadin Boskov ha regalato frasi e locuzioni ormai entrate nel linguaggio comune dei calciofili. Una di queste definisce Gullit «cervo che esce di foresta (di brughiera, nella versione originale, nda)», una pennellata di rara efficacia e che ritrae tutto: l’imponenza e la regale maestosità dell’animale calcistico, la strapotenza fisico-atletica e quel senso di selvatica naturalità che lo ha sempre accompagnato, in campo e fuori. 

Dal sexy-football al reggae, dall’anarchia tattica e sentimentale ai dreadlock (qualcosa di più delle semplici treccine), alle quali gli avversari, pur di fermarlo, non esitavano ad aggrapparsi, dalla presunta arroganza alla diplomazia zero, dalle battaglie giudiziarie (per gli alimenti non pagati) a quelle per i diritti civili. 

Ruud Gullit nasce ad Amsterdam il 1° settembre 1962 da Ria Dil, ragazza-madre del quartiere Jordaan, e George Gullit, affascinante emigrato del Suriname, ai tempi colonia olandese (l’indipendenza arrivò con un pacifico passaggio di sovranità nel 1975).

George vi era arrivato nel 1958 con la compagna di allora e tre figli, ma fino alla fine dei suoi giorni sarà presente nella vita di Ria e del piccolo Ruud. Il ragazzino, legatissimo alla madre, trascorre ore e ore a giocare a calcio sui campetti del quartiere (lo stesso dei genitori di Johan Cruijff), prima di trasferirsi con lei ad Amsterdam est, nel Mercatorbuurt (rione del mercato) che dà sulla celebre Balboaplein, la piazza dove tireranno i primi calci Edgar Davids, Clarence Seedorf e Patrick Kluivert e dove affronta spesso Frank Rijkaard, un altro che farà strada. 

Nel frattempo, la signora Ria, per provvedere al frugoletto e a se stessa, svolge più lavori, quindi Ruud sta parecchio con il nonno materno, Ruudje, al quale oltre che il nome deve la capacità di sentirsi ovunque a proprio agio e di mostrarsi sempre aperto e socievole.

A 8 anni firma il suo primo cartellino come ‘junior’ dei Meerboys (alla lettera, i ragazzini del mare), dove la leggenda, tramandata dall’allenatore del tempo, Judy Terreehorst, narra che i marcatori neppure si scrivevano, tanto i gol li segnava tutti Ruud.

Dopo tre stagioni nel piccolo DWS (Door Wilskracht Sterk, liberamente traducibile con il nostro "anima sana in corpore sano"), nel 1978 sostiene un provino con l’Ajax ma non viene preso e così la sua avventura nel calcio dei grandi comincia all’Haarlem, dove lo chiama il tecnico gallese Barry Hughes, ex giocatore del West Bromwich Albion.

Nel 1979, quel fisico michelangiolesco (1,86 per 83 kg), i movimenti da pantera e una tecnica perfettibile ma straordinaria in velocità, inducono Hughes a sbilanciarsi in un’intervista rilasciata al giornalista olandese Theo Koomen: «Een nieuwe ster is geboren!», è nata una stella; che, dopo aver fatto furoreggiato nelle selezioni giovanili, riceve dal neo-Ct Kees Rijvers un inaspettato regalo nel giorno del 19esimo compleanno: l’esordio in nazionale A, all’Hardturm-stadion di Zurigo, in Svizzera-Olanda 2-1. 

Quasi ovvio che un simile talento cerchi e trovi la grande ribalta.

Nel 1982, dopo 30 gol in 85 gare di Eredivisie, gliela offre il Feyenoord, dove Ruud ha la fortuna di giocare accanto a due totem del calcio olandese: nella prima stagione Willem (Wim) van Hanegem, che in patria è considerato l’anti-Cruijff, nella seconda il Profeta del gol in persona che, in rottura con il presidente dell’Ajax, Ton Harmsen, chiude la carriera con i rivali di sempre.

Morale: nel 1983-84, al De Kuip arriva la doppietta campionato-Coppa d’Olanda, quest’ultima grazie all’1-0 sul Fortuna Sittard in finale. A fine stagione Ruud sposa il suo primo grande amore, la 21enne Yvonne De Vries, che gli darà due figlie, Felicity e Charmaine.

La vita gli sorride: in patria è una star, appare in tv, prende posizione in favore di Nelson Mandela e dell’African National Congress e si esibisce con i Revelation Time, gruppo reggae di cui in Italia pochi conoscono l’esistenza ma che, quattro anni dopo, con lui sul palco a cantare (in T-shirt nera con la scritta bianca «STOP APARTHEID»), riempirà il PalaTrussardi di Milano. 

Nel 1985, per averlo il PSV scuce 400.000 sterline, e il Tulipano Nero, pur partendo dalle retrovie (se non addirittura decentrato all’ala come gli capitava al Feyenoord per liberare spazi a Cruijff), ricambia a suon di gol (46 in 68 gare di campionato e 7 in 5 di Coppa d’Olanda) e con due titoli consecutivi. Per Ruud, e per il club, è il momento di far cassa.

L’occasione è data dal trofeo ‘Joan Gamper’, annuale torneo a inviti organizzato dal Barcellona in memoria del fondatore del club e oggi associato al marchio Estrella Damm (il prossimo 24 agosto, per la 40ª esima edizione, ad affrontare i blaugrana sarà la Juventus, nda).

Nel 1986, prima di perdere in finale (1-0) con il Barça, il PSV affronta il Milan. Il portiere Giovanni Galli & C., ancora oggi, hanno negli occhi le fantastiche sgroppate di quel fenomeno che gioca col «10» e, partendo dalla posizione di libero, sembra rinverdire l’epopea del Calcio Totale sciorinato dai suoi connazionali nel decennio precedente.

In via Turati, dietro imprimatur del neo-presidente Silvio Berlusconi, vietato perdere tempo: la mission aziendal-societaria di costruire la squadra più forte al mondo non può prescindere da quel campione che le voci di mercato danno già alla Juventus. Per la cifra record di 5,5 milioni di sterline (ma c’è chi giura fossero 6, cioè 17 milioni di fiorini o 12 miliardi e rotti di lire), il leone ‘Simba’ (uno dei suoi tanti soprannomi) scorrazzerà criniera al vento sull’erba, ai tempi ancora verde, di San Siro.

È il 1987 e quell’affare farà la fortuna di tutti: del giocatore, del Milan e del PSV, che con quei soldi costruisce uno squadrone capace, l’anno dopo, di centrare la tripletta: campionato, Coppa d’Olanda e Coppa dei Campioni.

Al suo arrivo a Milano il personaggio e il calciatore, dopo Maradona il più costoso della storia, suscitano duplice curiosità. Gullit inciampa in gaffe in sede (non riconosce Gianni Rivera nelle foto appese) e nei birilli a Milanello (durante gli esercizi con cui il neo-allenatore Arrigo Sacchi cerca di affinarne la tecnica individuale anche sullo stretto, visto che in campo aperto è già inarrestabile di suo; memorabile il gol, realizzato nel PSV, su un suo lancio a seguire per...se stesso).

Ma una volta capito lo strano mondo in cui era capitato, diventa l’idolo dei tifosi (e degli esperti del merchandising), che lo amano al punto da acquistare in massa cappellini con tanto di treccine nere posticce.

La squadra, dopo qualche stento, decolla, trascinata da Gullit, che in dicembre vince il Pallone d’oro. Dopo la sorprendente assegnazione dell’anno prima, al carneade Igor Belanov, una lungimirante intuizione dei giurati di ‘France Football’: a livello internazionale Ruud non ha vinto niente, ma legittimerà presto la fiducia. Con gli interessi.

Nota a margine: l’olandese dedica la conquista del premio a Mandela, leader della lotta contro l’Apartheid, il regime segregazionistico sudafricano.

I rapporti tra i due si raffreddano un po’ quando Gullit, pur avendone l’occasione, non riesce a incontrarlo, ma poi i due si sono chiariti e ora sono entrambi ambasciatori di GoodFund, un ente benefico che raccoglie fondi e attua progetti per lo sviluppo internazionale, la salvaguardia dei diritti umani e la conservazione della natura.

In primavera, l’altro grande straniero rossonero, il connazionale Marco van Basten, rientra in squadra da un lungo infortunio; giusto in tempo per la volata-scudetto, di fatto decisa nello storico sorpasso del 1° maggio al San Paolo.

Il Napoli è in testa a 42 punti, il Milan insegue di uno; e la vittoria vale due punti. Dopo il botta e risposta Virdis-Maradona, nella ripresa Ruud accende il turbo e serve due servizi in camera irrifiutabili, uno a Virdis e l’altro a van Basten. Il sigillo di Careca serve solo agli statistici: il 2-3 manda il tricolore dritto a Milano. Per Gullit e van Basten la magica stagione continua con l’Europeo tedesco, per l’Olanda il primo alloro della propria storia.

Gli oranje partono male (0-1 dall’URSS), poi van Basten guarisce e il Ct Rinus Michels capisce che forse è meglio impiegarlo al posto dell’ariete Johnny Bosman, riproducendo in arancione la coppia che in rossonero ha fatto faville. Tre a uno all’Inghilterra e il colpaccio di Kieft (all’82’) all’Irlanda valgono la semifinale, dove gli olandesi vendicano con lo stesso punteggio (2-1) la finale mondiale persa contro i padroni di casa 14 anni prima.

L’ultimo atto è cosa nota: capitan Gullit apre le danze con un colpo di testa di rara potenza, una delle sue specialità, e van Basten le chiude con un capolavoro balistico (shoot d’incontro da destra su cross dalla sinistra) capace di incenerire le leggi della fisica e il portiere sovietico Rinat Dasaev. Nel 1989, superato un primo grave infortunio a un ginocchio, Ruud trascina il Milan alla conquista della Coppa dei Campioni.

In finale, al Camp Nou di Barcellona, davanti a 90 mila tifosi rossoneri, a decidere sono due doppiette: la sua (fenomenale il secondo gol, palleggio e fucilata dal limite) e quella di van Basten. 

Nel 1988, intanto, era arrivato un altro tulipano d’oro: Frank Rijkaard, centrocampista totale, di fisico statuario e intelligenza calcistica fuori del comune, che sapeva agire da stopper come andare in rete. Sua Emittenza gli preferiva la meteora argentina Claudio Borghi, acquistato dal Milan ma, su pressione di Sacchi, girato in prestito al Como, bilancio: 7 partite, 0 gol e immediato foglio di via.

Con il trio olandese sugli scudi, il Milan perde (in pratica a Verona, in versione fatale-bis, diciassette anni dopo l’originale) uno scudetto che pareva già vinto e che invece finirà a Napoli. Va meglio in Coppa dei Campioni, dove grazie ad un assolo di Rijkaard il Milan batte il

Benfica e si conferma campione d’Europa (del mondo lo era diventato in dicembre superando i colombiani del Nacional di Medellín con una punizione di Evani al 119’). Il 9 dicembre, i rossoneri tornano a Tokyo per affrontare i paraguaiani dell’Olimpia Asunción, e non c’è storia: 3-0 con doppietta di Rijkaard, sigillo di Stroppa e un van Basten che non segna ma fa sognare. Per Ruud l’apice coincide con l’inizio del declino. L’idillio con Yvonne si spezza come, di lì a poco, le sue ginocchia di cristallo. 

Ma se fuori del campo la sua turbolenta vita sentimentale vivrà subito una nuova stagione con la milanese Cristina Pensa, ex modella e futura seconda moglie che gli darà due figli, Quincy (nato nel 1992), e Cheyenne (nata due anni dopo), sul terreno di gioco il "vero" Gullit si rivedrà soltanto a sprazzi, più blucerchiati (25 gol in 53 partite di campionato) che rossoneri.

Metabolizzate la delusione di Italia 90 (Olanda eliminata negli ottavi di finale dalla Germania Ovest poi campione) e l’anno di squalifica nelle coppe europee dovuta al fattaccio di Marsiglia, Gullit affronta la stagione 1991-92 in un ambiente molto diverso.

L’aut aut imposto da Sacchi alla società (via van Basten o via io) viene risolto, con l’aiuto del presidente federale Antonio Matarrese, sistemando l’Ayatollah di Fusignano sulla panchina della Nazionale. Su quella del Milan viene promosso un ‘uomo della società’, come si dice quando si crede di avere in casa uno yes-man.

Invece, il prescelto, Fabio Capello, sorprenderà tutti, forse anche se stesso: altro che ‘signor signorsì’, il bisiaco è tecnico duro quanto preparato e fa rifiorire una generazione di campioni (quella dei Baresi, Maldini e compagnia vincente) data per finita.

Nel farlo, però, non può concedersi sentimentalismi: in cinque stagioni vincerà quattro scudetti, tre Supercoppe di Lega, una Coppa Campioni (due invece le finali perse, nel 1993 e nel 1995) e una Supercoppa Europea, ma con Gullit sono più spine che rose. Il mister dalla mascella volitiva gli rimprovera l’anarchia tattica e l’idiosincrasia alla fase difensiva, Ruud, anche quando vorrebbe (e vuole il giusto), non può: gli infortuni non gli danno tregua. Meglio dirsi addio. 

Nella stagione 1993-94 l’olandese viene ceduto alla Sampdoria e vive una seconda giovinezza: gioca con il 4 sulla schiena ma è libero di fare quel che vuole. Per i doriani significa una Coppa Italia, per lui il ritorno a casa, al Milan. Non dura.

Dopo 8 partite, il 9 novembre 1994 torna a Genova, ma a fine stagione firma, a parametro zero, un biennale in Inghilterra: al Chelsea di Glenn Hoddle. Gullit arriva secondo dietro Cantona nella corsa al Giocatore dell’anno e a fine campionato, con Hoddle che va a rilevare Terry Venables sulla panchina della nazionale inglese, diventa allenatore-giocatore. 

Nel 1997 Ruud, fermo per gran parte della stagione per un infortunio alla caviglia patito a Derby, battendo 2-0 al Middlesbrough il 17 maggio a Wembley, è il primo manager straniero a vincere la FA Cup.

Il successo gli vale il rinnovo contrattuale e l’anno successivo i Blues conquisteranno la Coppa delle Coppe (1-0 allo Stoccarda a Stoccolma), ma lo faranno con un nuovo allenatore-giocatore: Gianluca Vialli, che con l’olandese viveva ormai da separato in casa ben prima dell’esonero, avvenuto il 12 febbraio. Risibile la pseudo-spiegazione data dalla dirigenza (Ken Bates), che in realtà non vuole dargli certe cifre: era un «playboy manager». 

Nel 1998-99 Ruud ha un’altra chance, al Newcastle United. Subentra a Kenny Dalglish dopo appena due partite, ma non assimila la cultura Geordie del club, lontana anni-luce dal suo sexy-football, il calcio che deve divertire, e commette ‘errori’ imperdonabili: pecca di lesa maestà richiamando in panchina l’idolo di casa Alan Shearer e non lega con il capitano Robert Lee.

Se poi si aggiungono i 33 milioni di sterline spesi in 366 giorni, per arrivare allo stesso punto raggiunto l’anno prima dal predecessore (finale di FA Cup persa 2-0, con l’Arsenal per Dalglish, con il Manchester United per Gullit), si spiega molto se non tutto. E il 28 agosto, dopo quattro sconfitte e un pareggio, si dimette. 

Allora Ruud prova a rimettere insieme i cocci della sua vita: due matrimoni falliti (il divorzio da 1,5 milioni di sterline con la De Vries e la causa con la Pensa per gli alimenti non pagati; il difficile rapporto con i sei figli, le piccanti rivelazioni fatte al Sun dalle prime due mogli, le polemiche perché la terza, Estelle Cruijff, la nipote di Johan, gli ha dato il primo figlio, Joelle (1997), quando lei era appena 19enne. 

Si riavvicina alla religione (si fa battezzare dai Francescani, ordine conosciuto ai tempi milanesi), gira il mondo per l’emittente ITV («è stato divertente registrare con gente come Nelson Mandela, Craig David e Victoria Beckham») e a marzo 2003 diventa assistente dell’ex nemico Dick Advocaat in nazionale. 

Nel 2004 tenta il ritorno al passato, al Feyenoord. Non funziona. A Rotterdam il quarto posto significa dimissioni. Lo scorso giugno il presidente Jorien van den Henrik, un po’ a sorpresa, lo rimpiazza con Erwin Koeman, fratello maggiore del più noto Ronald (a sua volta esonerato dall’Ajax) e primo artefice del nono posto ottenuto dal piccolo e in perenne crisi finanziaria RKC Waalwijck. 

In bocca lupo, Ruud. Senza un pallone da inseguire, trecce al vento, nelle praterie, per «cervo uscire di foresta» è diventato maledettamente difficile. 
CHRISTIAN GIORDANO
Eurocalcio, n. 58 – agosto 2005



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