A casa di Luka



NE PRILAZITE
Na ovom području je velika
opasnost od mina

Vietato oltrepassare. Grave pericolo di mine. 

C’è ancora, quel cartello: Conficcato nel terreno e nel cuore, anche adesso che scappare non si deve più.

Zadar (Zara), oggi “solo” Croazia. Fino a vent’anni fa, molto, troppo di più. A casa di Luka non ci arrivereste mai per turismo, né vorreste. Sessanta km dalla costa dalmata, area rurale, depressa e montagnosa, si svolta a destra per Modrići. Al plurale: i Modrić abita(va)no qui. Tempo imperfetto. Come il mondo che abitiamo.

Il loro di mondo, quello dei Modrić, era cambiato per sempre il 18 dicembre 1991. Nonno Luka, ex operaio stradale, da buon uomo dei campi è sempre stato abitudinario. E quel giorno, non aveva fatto eccezione. 

Dopo pranzo era risalito al pascolo con la sua mucca. A un certo punto il soffio del vento è rotto dal rumore di rami spezzati. Si ferma una macchina, c’è gente che corre e grida. Poi solo spari. L’indomani, a 500 metri dalla casa di famiglia, i suoi familiari trovano Luka riverso in una pozza di sangue. Con lui altri sei, tutti anziani: Stipe Zubak, Zubak Zorka, Ivan Maruna, Manda Maruna, Božica Jurčević e Martin Bužonja. I miliziani serbi della SAO Krajina, responsabili di pluri-crimini di guerra, avevano vinto ancora. 

L’autopsia stabilirà che i sette erano stati freddati da distanza ravvicinata. I corpi non evidenziavano segni di resistenza: la gran parte era stata colpita alle spalle. Uccisi a sangue freddo, senza un perché. O forse sì, troppi. 

La Croazia dal 31 marzo era in guerra. E a nord, gran parte della zona franca vicino a Obrovac, sulla catena del Velebit (le Alpi Bebie), era stata occupata dai ribelli serbi. La pulizia etnica era già realtà, e per non vederla la cosiddetta e non meglio specificata «comunità internazionale» si voltava come sempre dall’altra parte. 

Le minacce di morte, la casa sventrata da bombe serbe, adesso l’assassinio del patriarca: per i Modrić, prima della guerra operai in una fabbrica tessile “comunista”, era il punto di non ritorno. Stipe, figlio di Luka Sr, va al fronte come tecnico dell’aviazione, la moglie Jasminka e i piccoli Luka Jr (sei anni) e Jasmine (uno) sfollano nella più sicura Zadar, in cerca di un presente prima ancora che di un futuro.

La vista del mare avvisa di svoltare a destra, uscita per «Nin - Smilčić - Zadar-zapad (Zara ovest)». La strada, stretta e spazzata dal vento, è sempre la stessa; fino all’autostrada di un decennio fa, una delle sole due che collegavano l’interno alla costa dalmata. 

Il viaggio però è molto diverso da quello del 9 settembre 1985, quando Stipe aveva portato Jasminka all’ospedale per far nascere Luka Jr. Stesso nome del nonno. I Modrić – come altre famiglie, “fortunate” se non altro perché vive – sono stati alloggiati all’Hotel Kolovare, enorme ex complesso turistico a quattro stelle, e 191 stanze, riconvertito a centro di accoglienza per rifugiati di guerra. Il simbolo della (un tempo) splendida via Bože Peričića era, come tutto il resto, in rovina. 

Anche per il piccolo Luka tutto era cambiato. A casa del nonno poteva correre all’aperto per dieci km. Adesso non può mai uscire, per via dei cecchini. E allora gioca a calcio davanti all’albergo, tutto il giorno. Quando non hai più niente, un pallone può essere tutto. 

«Giocava sempre. Ha rotto più vetrate lui col pallone che le onde d’urto delle bombe durante la guerra», scherzano ma mica tanto gli impiegati dell’hotel. 

Lì lo nota un ex dipendente che lo segnala a Josip Balo, direttore dell’NK Zadar, il club locale. «Se la passavano parecchio male – ricorda Balo riferendosi ai Modrić – Erano rimasti senza casa, gli avevano bruciato tutto. Quell’uomo lo conoscevo, aveva già lavorato per lo Zadar, e un giorno mi fa: “Vieni a vedere come gioca quel bambino che palleggia tutto il giorno nel parcheggio. Era molto pericoloso. All’epoca, sulla città sganciavano tra le 500 e le 600 granate il giorno. Cominciavano a bombardare alle sei di mattina». 

Balo però a vederlo giocare ci andò lo stesso. E la vita dei Modrić sarebbe presto cambiata un’altra volta.

A otto anni Luka entra nelle giovanili dello Zadar. La sua nuova “casa” sarà lo Športsko rekreacijski centar “Višnjik”. Per due anni (1993-95) Miodgrad Paunović allena «un bambino molto timido e tranquillo, che non si faceva mai notare troppo, ma il cui talento in campo è parso evidente fin dall’inizio». 

Un’altra persona-chiave di quegli anni, e non solo, è Tomislav Basić, il padre sportivo di Modrić. L’uomo cui Luka ha telefonato il giorno dopo aver firmato col Real Madrid, e al quale ha subito regalato una camiseta blanca numero 19: «Durante la guerra accettavamo alla scuola calcio tutti i bambini, per dare loro una possibilità di giocare e non restare sempre rinchiusi. E così fu per Luka, un ragazzino molto gracile. Non immaginavamo sarebbe diventato un giocatore importante».

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