"Cruijff draaj”, la veronica che cambiò il mondo
“Mio Dio, ma cos’ha fatto?!”.
Una Rivoluzione non può lasciare indifferenti, in nessun caso: perché è il cambiamento per antonomasia, e l’essere umano fatica ad accettare i cambiamenti. L’uomo è un animale abitudinario e conservatore, salvo in rarissimi casi scritti oggi sui libri di storia. Ecco perché, di fronte alla sovversione di un ordine precostituito, ci spaventiamo. Vediamo il castello di certezze nel quale ci eravamo rifugiati crollare, quasi fosse di sabbia, lasciandoci in balìa del vento del cambiamento. Perciò, inizialmente, tendiamo a reagire con perplessità, stupore, se non vera e propria paura. Poi, quando la Rivoluzione avrà fatto il suo corso, saremo anche pronti ad accoglierla favorevolmente. Ma non all’inizio. All’inizio sobbalzeremo sulla poltrona e sgraneremo gli occhi e ci interrogheremo fino a perdere il sonno. “Cosa sta accadendo? A cosa porterà tutto questo? Dopo, sarà meglio o peggio?”.
La Rivoluzione di cui parliamo oggi era già iniziata da un po’, diciamo almeno due o tre anni, ma il mondo ne prese davvero coscienza il 31 maggio del 1972. E dato che tutto aveva avuto inizio in Olanda, la scena madre non poteva avvenire altrove. Non Amsterdam, ma Rotterdam. Al Feijenoord Stadion l’Ajax e l’Inter si stanno giocando la Coppa dei Campioni. Gli olandesi l’hanno già vinta un anno prima, replicando al successo dei rivali del Feyenoord nel 1970. La Rivoluzione parte da lì, non dimentichiamocelo. Dalla terra dei tulipani e di Erasmo, che non a caso scrisse un’opera intitolata “L’Elogio della Follia”. Quella roba lì è Follia, del resto: i biancorossi di Amsterdam fanno qualcosa di mai visto prima su un campo di calcio. E sì che negli occhi il mondo ha ancora le magie del Brasile di Rivelino, Gerson, Tostao e Pelé. Ma qui siamo ad altri livelli. Qui si monta la ghigliottina che decapiterà il Vecchio Calcio.
Totaalvoetbal, lo chiameranno i giornalisti: calcio totale. Difficile trovare una definizione migliore per quell’approccio all’idea stessa del football. E’ tutta una questione di spazio: spazio da occupare, spazio da plasmare e dal quale farsi plasmare, spazio da sfruttare. La geometricità non può non essere insita negli olandesi, del resto; come del resto la fantasia. Arte e geometria al servizio della Rivoluzione. E qui non parliamo né di Marx né di Einstein. No. L’uomo che incarna e simboleggia questa nuova visione del calcio e del mondo si chiama Johan Cruijff e veste il numero 14.
E questo, se ci pensate, è già un segnale di rottura: i fuoriclasse, di solito, vestono il 10, al limite il 9. Lui invece sulla maglia, all’inizio per casualità, poi per scelta, ha un numero inconsueto. Johan viene notato dagli osservatori dell’Ajax: nonostante abbia qualche problema fisico (già da bambino aveva i piedi piatti ed una leggera malformazione alla caviglia destra), il dodicenne è evidentemente un predestinato. Perciò gli ajacidi lo mettono sotto contratto e, di lì a sei anni, Cruijff è già una stella. Il mondo intero lo conosce, ma ancora non sa di avere a che fare con il Profeta. Se ne accorge proprio quella sera di fine maggio del ’72: la Rivoluzione è ufficialmente iniziata e sta per compiersi. A noi comuni mortali non resta che sobbalzare sulla sedia e sgranare gli occhi.
Veronica, si chiama così. E no, non è una ragazza, ma una giravolta degna di un ballerino classico. Cruijff draaj, la Veronica di Cruijff. O Cruijff turn (non a caso il titolo inglese della sua autobiografia, uscita pochi giorni fa, è “My Turn”). Tanti modi per definire un singolo gesto, che in totale dura sì e no un secondo. A farne le spese, quella sera a Rotterdam, è "Lele" Oriali, una vita da mediano a recuperar palloni. Beh, quel giorno ne recupererà ben pochi, e uscirà dal campo con le vertigini e la nausea. Non lo prenderà mai. Mai. Nessuno, quella sera, riuscirà mai a prenderlo. È come un esercito di bufali che cercano di incornare una libellula impazzita. Cruijff segnerà due gol, e solo uno straordinario Bordon riuscirà ad impedire un punteggio più severo del 2-0 finale. Questi biancorossi sono dappertutto, arrivano da ogni parte, sembrano essere in 22, non in 11! E il numero 14… boh, è qualcosa di inumano. Dribbla, crossa, si inserisce, tira… Va al doppio della velocità, e non solo quando corre. Qualsiasi cosa faccia, tu hai appena il tempo di intuirla che lui ha già concluso l’azione. Ma intorno alla metà del primo tempo, sul risultato ancora inchiodato sullo 0-0, l’Europa intera vede il capovolgimento dell’ordine naturale delle cose. Vede la Veronica di Cruijff, e da quel momento in poi niente sarà più come prima.
Johan è spalle alla porta, dietro di lui Oriali che lo marca come un mastino. Siamo nei pressi del vertice destro dell’area interista e l’unica soluzione plausibile sembrerebbe un passaggio all’indietro dell’olandese. Sembrerebbe, già: il condizionale è d’obbligo. Perché, per citare una delle sue frasi preferite, “il calcio, più che con i piedi, si gioca prima di tutto con la testa”. Quindi finge di volersi accentrare, ma con il tacco destro si sposta il pallone alle spalle e si gira di scatto, mentre Oriali ancora cerca di capire cosa stia accadendo. Mentre CHIUNQUE cerca ancora di capire cosa stia accadendo. E’ stato un istante, ma tanto è bastato a distruggere tutto quello che è venuto prima. E’ la Rivoluzione che sventra il passato e ti mostra il futuro. La Veronica di Johan è appunto questo: la rottura totale con la tradizione. E’ David Bowie travestito da Ziggy Stardust sul palco, è Hendrix che ridefinisce il modo di suonare la chitarra elettrica; è Martin Luther King che invita gli afroamericani a sedersi nei posti riservati ai bianchi sugli autobus; è il meteorite che fa piazza pulita dei dinosauri. E non ce ne voglia nessuno, ma quella sera Oriali e l’Inter, ma più in generale il calcio europeo, appaiono come il Medio Evo spazzato via dall’Illuminismo. Quella Veronica, che si fa simbolo dell’Ajax e del calcio olandese negli anni ‘70, è una sorta di Galileo Galilei che, di fronte alla Chiesa, sostiene che non è la Terra a girare intorno al Sole, e non il contrario.
Raccontare cos’è stato Cruijff per il calcio è come cercare di spiegare Shakespeare: non basterebbe un’intera bibliografia. Il soprannome di “Profeta” è dovuto a quella che è stata la sua dote principale: vedere, cioè, prima degli altri. Di più, vedere cose che all’occhio di chiunque altro non esistono, almeno fino a che qualcuno non le mostra loro. A ben pensarci, è ciò che fanno gli artisti. Ci indicano una via da seguire: un sentiero mai battuto, nascosto dalla vegetazione, al quale non avevamo mai fatto caso. “Venite con me”, ci ha detto Johan; “sto per mostrarvi delle meraviglie di cui non conoscevate neanche l’esistenza”. E, una volta scostate le fronde che ci impedivano la visuale, abbiamo sgranato gli occhi per lo stupore. Eccolo, il sentiero di cui tutti fantasticavano, ma che nessuno era mai riuscito a trovare! Un sentiero fatto di dribbling veloci e leggeri come il vento, di accelerazioni improvvise come un temporale estivo. Un sentiero fatto di gol leggendari e intelligenza fuori dal comune. Perché “si gioca con la testa, prima che con i piedi”.
Un sentiero magico che porta alla Rivoluzione. Basta fintare il tiro, portarsi avanti il pallone con il tacco e voltarsi: per cambiare prospettiva, ché dopo una Veronica niente sarà più come prima.
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