BIKE PORTRAITS - Herrera, e Lucho fu


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«Quando ho iniziato a vedere dei culoni che in salita volavano come aeroplani, 
ho capito. E ho preferito dire stop.»
- Lucho Herrera

di CHRISTIAN GIORDANO ©
© Panache magazine

El jardinerito de Fusagasugá. Perché da ragazzo raccoglieva fiori nei campi attorno alla cascina dov'era nato, circondata da palme e banani sulla collina fuori la città, a cinquanta chilometri da Bogotá, in cui oggi campeggia la sua statua a braccia al cielo.


Classe 1961, dbambino teneva al guinzaglio un cucciolo di ratto che sarebbe cresciuto fino al metro di lunghezza.

Poi ci chiediamo perché questi colombiani, venuti su a tremila metri senza niente se non il sorriso e un’irrefrenabile voglia di vivere, van così forte in salita e non han paura neanche del diavolo.

Quella volta che il Tasso ne assunse le diaboliche sembianze, Luis Herrera non si scompose granché. Quel demonio di Bernard Hinault voleva lui la tappa. Ma il piccolo giardiniere lo mandò per fiori. Se la sarebbero giocata, la tappa. Fino alla fine.

Non c’erano abituati gli europei ad averceli in gruppo, gli escarabajos. E neanche ce li volevano, perché in gruppo i colombiani non sapevano correrci. E però in salita andavano, eccome se andavano. Il boss finanziario del Tour, Félix Lévitan, aveva sentito di come in Colombia il ciclismo fosse, per popolarità, secondo solo al calcio, e pure ben sponsorizzato. Si convinse così a invitarne, al Tour del 1983, un team che lo rappresentasse. Non una squadra di club, ma una sorta di nazionale colombiana.

Oggi, un Nairo Quintana e un Egan Bernal big della generale e un Fernando Gaviria re delle volate ai grandi Giri paiono scontati, ma a metà anni Ottanta quella fu una rivoluzione. E pioniere fra i pionieri fu Lucho Herrera, il primo sudamericano a vincere una tappa al Tour.

Sguardo triste come una salita, e a volte uomo impenetrabile, Herrera corse la sua prima Grande Boucle nel 1984. Con Bernard Hinault e Laurent Fignon che sull’Alpe d’Huez duellavano alla morte come nobiluomini d’altri tempi, Lucho attese il momento giusto e poi scappò via, lasciando i due galletti a marcarsi l’un l’altro. L’anno dopo conquistò la maglia a pois di miglior scalatore e, dopo un tacito accordo con Hinault, la tappa di Saint-Étienne. Al ritorno in patria, trovò ad accoglierlo un milione di persone.


Nel 1987 rivinse la classifica-scalatori al Tour (ne vincerà due anche alla Vuelta e una al Giro) e s’impose alla Vuelta a España. Nel 1992 si ritirò.

Mai stata facile la vita dei primi “scarafaggi” nel vecchio continente, vuoi per la volatilità delle sponsorizzazioni ministeriali locali (per referenze chiedere a Gianni Savio e a Claudio Corti), vuoi per la disorganizzata gestione dell’ex fuoriclasse Luis Ocaña, tutto tranne che il prototipo del business manager. Vincitore del Tour ’73, l’ex rivale di Eddy Merckx voleva trasformarli di colpo in professionisti provetti all’europea anziché farli progredire per gradi. 
Non poteva funzionare, e non funzionò.

I colombiani avevano un altro modo di correre, e altre abitudini. Da loro poche corse duravano più di 160 km, ma le salite potevano esser lunghe anche cinquanta. Al Tour, invece, al massimo una ventina. E le discese erano dritte, non piene di tornanti.


Herrera, poi, era solo uno scalatore, e neanche dotato di spunto veloce. Se era in giornata bastava e avanzava, ma per un grande giro di tre settimane no. Ci provò anche ad andare più forte a cronometro e in pianura, ma come tanti specialisti (su tutti René Vietto e Andrew Hampsten) se progrediva da una parte, regrediva dall’altra. E non dimentichiamo che cos’erano, in gruppo, i primi anni Novanta.

Il doping? C’era, eccome. «Quando ho iniziato a vedere dei culoni che in salita volavano come aeroplani, ho capito. E ho preferito dire stop».

Lucho tornò a vivere in Colombia con la moglie Judith Xiques Villa, ex modella, e si mise in affari col fratello Rafael come allevatore di bovini. Smesso di correre, il suo patrimonio ammontava a cinque milioni di dollari, e il business delle mucche non fece che incrementarlo.

Fama e ricchezza però ne fecero un bersaglio dei rapitori, e nel 2000 fu sequestrato dai guerriglieri delle FARC, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia. Altrimenti note come Ejército del Pueblo. Dopo sette ore di marcia nella giungla per raggiungere un loro nascondiglio, fu rilasciato venti ore dopo. Incolume. Non si seppe mai chi e quanto pagò per il suo rilascio. E circola voce che Lucho abbia continuato a pagare per la propria protezione.

Stando a Raphaël Géminiani, «Herrera è stato uno dei migliori scalatori puri della sua generazione: leggero come una piuma, fatto per volare. Solo in Colombia, però. In Europa il miglior Herrera non si è mai visto. Una Vuelta e due Giri del Delfinato non sono niente per uno scalatore di quel talento. Ma lui preferiva essere il migliore in Colombia. Non ha mai voluto adattarsi al ciclismo europeo perché non era la sua ambizione. Peccato per lui e per tutti i colombiani, che sono degli autentici appassionati».

Dopo che Lucho vinse la Vuelta 1987, il presidente della repubblica colombiano, Virgilio Barco, decretò il 15 maggio giorno di festa nazionale. E anche in Francia il suo nome evocava rispetto.

Quando, nel novembre 1985, un’eruzione vulcanica uccise in una notte 25mila suoi connazionali ad Armero, la Francia inviò in Colombia aiuti umanitari. In segno di riconoscimento, Herrera portò con sé al Tour ’86 due pezzi di roccia lavica scura che furono posati, insieme con una targa, sotto il ponte vicino la cappella, sul penultimo tornante dell’Alpe d’Huez. 

Per el Jardinerito era finalmente tempo di raccolto. E quelli erano i suoi fiori più belli.

CHRISTIAN GIORDANO ©
© Panache magazine

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