CONNIE "THE HAWK" HAWKINS - Il volo spezzato del Falco



Figlio del ghetto e leggenda dei playground newyorkesi, aprì la via ai maestri del gioco “sopra il ferro”. Estraneo allo scandalo delle scommesse nel college basketball, fu bandito da NCAA e NBA. Quando fu “riabilitato”, non era già più il vero The Hawk. Falco a metà

di Christian Giordano ©
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«È stato Elgin prima di Elgin, Julius prima di Julius, Michael prima di Michael. A livello individuale, il più forte giocatore che io abbia mai visto». Per Connie Hawkins, più che un giudizio un’investitura. Ad accollargli la metaforica spada sulla spalla, ai microfoni della ESPN, sua maestà Larry Brown, allora coach dei Philadelphia 76ers ma suo avversario in campo nella finale ABA 1967-68.

Non che a certi nomi occorrano i relativi cognomi, ma specifichiamo. Giocando quindici, venti anni avanti ai suoi tempi, Hawkins ha lastricato la strada – meglio: aperto le vie aeree – ai vari Baylor, Erving e Jordan. Passava la palla come una point guard, tirava come un’ala piccola, dominava le plance, ha inventato movimenti come solo Baylor prima e Dr. J e MJ poi. Come ha scritto Frank Deford, «se il basket moderno inizia con Baylor, allora inizia anche con Hawkins: Oscar Robertson e Baylor hanno definito i primi due spot del gioco ma Hawkins ha fatto altrettanto con gli altri tre». Mani enormi, gran controllo del corpo (2,02 x 98 kg), palla mulinata col palmo, ampie falcate, voli a braccia (lunghissime) aperte cominciati staccando dalla lunetta e chiusi da schiacciate tanto terrificanti quanto, per l’epoca, rivoluzionarie. Tutto questo e molto di più era The Hawk, il Falco, nickname scontato per la radice del cognome ma soprattutto per le planate in picchiata a canestro. E poi saltava, oh se saltava. Non altissimo, ma per tantissimo.
Chiedete a chiunque di enunciarvi gli “eroi” dei playground newyorkesi dell’epoca d’oro e nessuno mancherà di citarlo, accanto ai soliti noti Earl Manigault e James Williams, Herman Knowings e Jackie Jackson, Joe Hammond e Richard Kirkland. Con una differenza. Mentre gli artisti dell’aria Goat, Fly, Helicopter, Jumpin’, Destroyer e Pee Wee hanno fallito il salto più difficile, quello nei pro, Hawk è stato fra i pochi pionieri del basket di strada a mantenere lo status di leggenda anche sui parquet della NBA. Anche se, al contrario dei più fortunati Lew Alcindor (Kareem Abdul-Jabbar) e Nate “Tiny” Archibald, ci arrivò con un grande avvenire dietro le spalle.

Cornelius Lucius Hawkins nasce il 17 luglio 1942 nella Grande Mela, ma dove peggio non potrebbe, a Bedford-Stuyvesant, ghetto afroamericano che i più ottimisti definiscono, con un soave eufemismo, «una gran brutta zona di Brooklyn». Per dare un’idea: come racconta Mark Kurlansky nel suo 1968: The Year That Rocket The World, già nella primavera di quell’anno, «negli Stati Uniti le manifestazioni studentesche nelle università erano ormai così abituali – una trentina al mese, e in istituti diversi – da richiamare persino studenti di scuole superiori e medie. In febbraio, centinaia di eight graders si accalcarono all’ingresso, occuparono le aule e staccarono gli allarmi antincendio alla Junior High School 258 di Bed-Stuy. Chiedevano cibo migliore in mensa e più balli».
Oltrepassata Flatbush Avenue, Atlantic Avenue forma un triangolo che nel codice genetico scritto e conservato nel proprio dna ha il fenotipo dell’enorme, endemico tasso di violenza e il genotipo del talento cestistico; una miscela che ne fa una delle migliori fucine d’America. 
Un ideale quintetto all-time di questo antico neighborhood anglo-olandese (dai nomi del Duca di Bedford e di Peter Stuyvesant, governatore-moralizzatore delle New Netherlands nel 1600) potrebbe schierare, sacrificando nel mezzo un’ala di ruolo come Hawkins: 
Stephon Marbury (Coney Island); Bernard King (Fort Greene); Chris Mullin (Flatlands) e Billy Cunningham (Flatbush).
E come rimpiazzi di stralusso: Lenny Wilkens (anche lui di Bed-Stuy come Jamaal Tinsley) o Mark Jackson; Lloyd “World B.” Free (Brownsville); Rolando Blackman (nato a Panama City ma cresciuto a Flatbush) e John Salley (East Flatbush).
A guidarli dalla panchina, imbarazzo della scelta tra i due “Red” più vittoriosi – Auerbach o Holzman – e gli stessi Wilkens e Cunningham. 
Il tutto, si badi bene, togliendo d’ufficio un nord-caroliniano DOC nato a Brooklyn per un capriccio del destino, Michael Jordan.

A proposito di fato, con Hawkins ci va giù pesante. Dall’inizio. 
Quinto di sei figli, la madre ormai cieca mantenuta dal sussidio statale, il padre alcolizzato e visto per l’ultima volta a nemmeno dieci anni, l’infanzia in una baracca dove ci si corica vestiti perché il riscaldamento non è di serie – l’istinto di conservazione che, nonostante tutto, non ti permette di soccombere, a volte segue percorsi strani. 
Quello del Nostro passa per i campetti di asfalto e cemento dove al magrolino color ebano, troppo debole per le gang e troppo timido per farsi degli amici, riescono cose agli altri impossibili anche solo da immaginare. A 11 anni Connie si costruisce un pezzetto del rispetto di sé schiacciando al playground della PS3, scuola pubblica di quartiere che si affaccia su Hudson St, tra Grove e Christopher St. 
Le voci, come The Hawk, volano per tutto il vicinato.
Si narrano storie incredibili sulla sua capacità di “sottrarsi” alle leggi di gravità, e lui ci mette del suo per alimentarle. «Dicevano che, se proprio non le infrangevo, di sicuro ero lento ad obbedirvi» racconterà, diventato famoso, al Philadelphia Inquirer. 
Ma a 13 anni è già strafatto di marijuana e a 14 passa la giornata agli angoli delle strade a bere vino di infima qualità. Come ad Harlem faceva Manigault, a detta degli aedi del genere il monarca assoluto dello “street game”. Se Connie non fa la stessa fine o quella di un altro “maledetto” di Bed-Stuy come il terzo figlio degli alcolizzati Lorna Tyson e Jimmy Kirckpatrick, altro fuggiasco, Mike, nato a pochi isolati di distanza 24 anni dopo, si deve forse al destino cinico e baro che gli aveva smazzato le carte poco gastoniane di cui sopra.
Alla faccia delle schifezze ingurgitate-aspirate-sniffate sin dalla preadolescenza, al momento di andare all’high school è lui il miglior prospetto delle scuole medie della City. 
Anche se alla junior high era entrato in squadra un anno prima dei compagni (in seconda classe anziché in terza), Connie non è certo una instant star alla Boys High School, giocando poco da sophomore (secondo anno) di 1,90 per appena 65 kg. 
Da junior, scollina di poco la doppia cifra di media nella stagione senza sconfitte della Boys campione della Public School Athletic League; quasi consequenziale, per il New York Post, nominarlo nel primo quintetto cittadino. 
Da senior, alzatosi di statura e irrobustitosi fino a 1,97 x 85 kg, Hawkins segna 25.5 punti a partita (con un high-game di 60) e guida l’ancora imbattuta Boys High al secondo titolo PSAL consecutivo. Stavolta, alla conferma nel quintetto All-City si aggiunge la nomina di All-American 1960 da parte della rivista “Parade”. 
Nonostante un curriculum scolastico che accanto a un seventh grade reading level riporta lo sconsolante «IQ 65» (giudizio: challenged, cioè un Intelligence Quotient ben al di sotto della media), circa duecentocinquanta college sbavano per vestirlo con i loro colori. 
Per accaparrarselo, orde di reclutatori gli offrono pasti, visite ai campus e gli allungano contante o i biglietti per le partite. Prima che scelga la University of Iowa, Hawkins è preso in considerazione persino dalla bianchissima Kentucky. Coach Adolph Rupp chiama un suo contatto, Jimmy Breslin del quotidiano New York Journal-American, e gli chiede: «Ma questo Connie Hawkins è bianco o colored?». Quando gli viene risposto che Hawkins bianco non è, l’interesse del Barone svanisce. Da lì in poi, come ha scritto Alexander Wolff di Sports Illustrated, Rupp chiese «gentilmente di indicare con un asterisco i giocatori di colore così mi risparmiate il fastidio di mandare i miei reclutatori».

Ora, anche a tanti anni di distanza resta irrisolto il mistero che porta un bro brooklyniano nel granaio del mondo per indossare il nero-oro degli Hawkeyes, a meno di non voler cedere alla poco probabile suggestione del nome. 
Nell’immaginario sportivo americano, gli Hawkeyes di IU non sono certo i cestisti ma gli energumeni color latte con le orecchie triturate da anni di lotta libera; tappa obbligata di un’esistenza da spendere nei campi o nelle assicurazioni o nella nota azienda di pneumatici che ha nella capitale Des Moines, resa celebre dal travel writer Bill Bryson, la sede principale.

Connie in Iowa resta un anno, ma senza disputare gare ufficiali poiché ai tempi la NCAA non consente l’impiego dei freshmen, le matricole. In allenamento però umilia la star della varsity (prima squadra), Don Nelson, che poi giocherà per 14 anni nella NBA. 
Nel dicembre 1961 Hawkins è a New York, secondo alcuni per le vacanze di Natale, secondo altri per essere interrogato dagli inquirenti che indagano sul nuovo scandalo delle scommesse nel college basketball, scoppiato dieci anni dopo quello che di fatto aveva sancito la perdita dell’innocenza – se mai c’è stata – dello sport universitario USA. 
Hawkins non sarà mai arrestato né accusato o anche solo indirettamente implicato. Gli sarà fatale però il collegamento con l’intrallazzatore Jacob (Jack) Molinas, conosciuto nel 1960 quando Connie era la stella della Boys High e, guarda caso, se lo ritrovava dappertutto.

L’estate prima di entrare a IU, Hawkins girava spesso a bordo della Buick di proprietà di Molinas ma guidata dall’amico-rivale Roger Brown, star della locale Wingate High (nella memorabile finale del 1959, al Madison Square Garden, The Rajah vinse il confronto diretto 39-18, ma a prevalere, 62-59, fu la Boys di The Hawk, che contribuì anche con 13 rimbalzi), e in compagnia delle ragazze di turno. 
Come Brown nel suo anno da freshman a Dayton, Hawkins riceve da Molinas altri “favori”. Uno di questi sarà l’errore della vita. 
Più che mai in bolletta, prende in prestito da Molinas 250 dollari (200, stando ad altre fonti, nda), con la promessa di restituirli. A mantenerla, prima che scoppi il bubbone del 1961, è uno dei fratelli di Connie, Fred. La cosa sorprende persino Molinas, che non si aspettava di rivedere quei soldi, da lui considerati «un investimento (!) per il futuro». 

Molinas aveva avuto un ruolo di primo piano anche nei fattacci del 1951, ma come Joseph (Joe) Hacken, suo “socio in affari” dai tempi del natio Bronx, se l’era cavata per mancanza di prove. Nel secondo caso i due non saranno altrettanto fortunati anche perché a coprirli non c’è il fratellastro di Hacken, Cornelius Kelleher, uno dei tre fixer di Manhattan coinvolti nell’affaire-Manhattan College. 
Tra il 157 e il 1961, viaggiando da un campus all’altro a offrire ragazze-squillo e soldi, Molinas era diventato il cervello di una cospirazione che controllava 476 giocatori di 27 college prima di chiudere bottega per l’arresto di 37 atleti di 22 atenei tra cui Billy Reed di Bowling Green, Fred Portnoy di Columbia University, Ed Boiler di LaSalle, Ray Paprocky di New York University, Terry Litchfield, Anton Muehlbauer e Stan Niewierowski di North Carolina State, Hank Gunter e Art Hicks di Seton Hall, William Chrystal e Mike Parenti di St. John’s.
In manette, per aver truccato (almeno) 43 partite, finiscono anche i complici Aaron Wagman, arrestato con Hacken nel marzo 1961, Joe Green, il “contatto” coi giocatori, e David (Dave) Budin, insegnante di junior high school a Brooklyn ed ex giocatore di Brooklyn College che lavorava per Molinas. A trascinare nel fango l’incolpevole Hawkins sarà proprio Budin. Hacken e Molinas, invece, faranno di tutto per scagionarlo. 
Nonostante le nove condanne per scommesse, Hacken era un patito di basket. Si vantava di aver “aggiustato” per la prima volta una partita nel 1938, appena 18enne. Poi si era specializzato sulle combine di boxe, legandosi al racket gestito dal famigerato Frankie “Mr. Gray” Corbo. Insomma non era una verginella, ma non inseguiva secondi fini perorando l’estraneità di Hawkins. 
Dal carcere, nel 1965, Hacken spedisce a un giornalista del New York Post un biglietto su cui aveva scritto che Connie era innocente. Nel 1969, da un’altra prigione di New York firma per i legali di Hawkins una dichiarazione giurata nella quale afferma di non essere a conoscenza di alcuna cospirazione che legasse Hawkins al fixing delle partite. Analoghe deposizioni le sottoscrive Molinas, che ammette la propria intenzione di servirsi di Connie per avvicinare giocatore ma solleva Hawkins da ogni coinvolgimento. 
Del resto, Hawkins era troppo ingenuo per certe cose. Anzi, secondo i maligni – si legge in Foul! The Connie Hawkins Story, best-seller autobiografico scritto nel 1972 con Dave Wolf e storia di cui la DreamWorks di Steven Spielberg ha acquisito i diritti cinematografici – «non era in grado nemmeno di afferrare il concetto del “point-shaving”» (i giocatori che “limano” gli scarti secondo le puntate, nda), figuriamoci metterlo in pratica, direttamente o indirettamente.

Di tutt’altro genere il background del genio del male Molinas (per chi crede faccia testo, IQ 175). Dopo una turbolenta carriera da All-American alla Columbia University nella Ivy League, nel 1953 era stato la prima scelta dei Fort Wayne Pistons della NBA. Dopo appena 29 gare, il 10 gennaio 1954 il commissioner della lega, Maurice Podoloff, lo aveva espulso per aver puntato su una decina di partite, anche se sulla vittoria dei Pistons (il resto venne a galla in seguito). Era il preludio allo scandalo del 1961.

Il bello è che nel novembre 1954 una decina di accademici di varie università avevano firmato un accordo per formalizzare la nascita di una lega sportiva elitaria, di esclusiva razza bianca, definita dal giornalista Paul Zigg «the last bastion of “pure” collegiate athletics».
Ironia della sorte, ad architettare uno dei maggiori scandali nella storia dello sport americano, era stato uno dei membri di quell’ultimo bastione di purezza: un ebreo bianco, ex studente di Columbia, detto The Spaniard, lo Spagnolo, per via dei tratti latini che incarnavano il tipico prodotto del multirazziale Bronx. 
Legato al capomafia Tommie (Ryan) Eboli e al gran Capo Vincent “The Chin” Gigante, Molinas era troppo furbo per “fixare” direttamente le partite. Eccezion fatta per l’ex Jamaica High Billy Reed, che Molinas aveva “curato” personalmente, il compito era svolto da Hacken, Green e Wagman. Dall’ufficio del procuratore distrettuale Frank Hogan – l’unico a non convincersi dell’innocenza di Hawk, ma purtroppo uno che contava –, un detective registra Hacken mentre questi dà disposizioni a Wagman e a Green di chiamare i giocatori per dire loro di stare calmi. Hawkins non viene contattato. 
Arrestato nel gennaio 1962, quando ormai credeva di averla ancora una volta scampata (tranne Hacken, tutti i fixer avevano confessato e così la quasi totalità dei giocatori allertati), nel 1963 Molinas è condannato ad una pena detentiva compresa tra i 10 e i 15 anni. Legale di fama, ne sconterà “solo” 5, in una prigione federale (principalmente ad Attica, dove la sua storia ispirerà il noto film con Burt Reynolds, “Quella sporca ultima meta”) e una volta uscito, citerà in giudizio la NBA. Invano, perché la Lega venne brillantemente difesa da un rampante avvocatino dello studio legale Procksauer, un newyorkese di Chelsea di origine ebrea uscito due anni prima dalla rinomata Columbia Law School: David Stern. 
Molinas morirà 43enne, il 3 agosto 1975, alla maniera dei gangster: con una pallottola in testa, nel retrocortile della sua villa sulle colline di Hollywood, sotto gli occhi della sua donna, Shirley Marcus, appena arrivata da New York e ferita di striscio nella sparatoria.
Il collegamento con Molinas – in campo Hawk non poteva influire, giacché i freshmen non giocavano – e il «non aver riferito i tentativi di corruzione» (ma non c’erano prove che Connie ne fosse a conoscenza) valgono a Connie la “lista nera” dei college e dei pro. IU gli ritira la borsa di studio e lo espelle. Ostracizzato dalle altre università, Hawkins subisce pari trattamento dalla NBA, giovane lega pro in lotta per la sopravvivenza e quindi molto attenta alla salvaguardia (pazienza se distorta) della propria immagine. 
Hawkins è eleggibile per il draft NBA del 1964, eppure nisba. La NBA dichiara che si tratta di una semplice «matter of coincidence» e che ogni squadra ha deciso unilateralmente di non sceglierlo. 
D’altronde, pur non essendoci stati provvedimenti “ufficiali”, il nuovo Commissioner Walter Kennedy non aveva fatto mistero della posizione della Lega: Hawkins era ritenuto “persona non grata”, locuzione che in inglese rimane invariata. 
Ancora oggi, sul proprio sito ufficiale la NBA scrive che a Hawkins «fu ingiustamente negata l’opportunità di mostrare il proprio talento negli anni più produttivi e alla maggior parte degli appassionati di basket quella di ammirare il meglio che un giocatore così innovativo aveva da offrire». 
Non occorre essere Ryszard Kapuściński ed essersi formati alla scuola delle Annales francesi, per «costruire una storia dal basso, capace di andare oltre le veline ufficiali» per capire che fu proprio la NBA – senza averne titolo – a togliere al giocatore e ai tifosi quelle opportunità.
Hawkins, senza istruzione né soldi né lavoro, deve così rinunciare a tutto: al college, a quella NBA dove sin da 16enne, secondo i più cinici, «avrebbe potuto fare quel che voleva tranne firmare autografi», in sostanza alla via di fuga dal ghetto. Torna a Bed Stuy come un reietto e poi, a 19 anni, inizia una nuova vita da nomade del basket minore. 
In autunno firma per 5000 dollari con i Pittsburgh Renaissance della neonata American Basketball League fondata da Abe Saperstein, proprietario degli Harlem Globetrotters e di tre franchigie della nuova lega. Subito MVP e capocannoniere (a 27.5 punti di media), Hawkins trascina i Rens al secondo posto nella Eastern Division (41-40, 4 vittorie dietro i Cleveland Pipers futuri campioni) e nei playoff, dove Pittsburgh esce nei quarti per mano dei Washington-New York Tapers.
Il livello tecnico della ABL è modesto (si picchia come fabbri), ma il traballante circuito dà a Connie di che vivere permettendogli di fare ciò per cui è nato, giocare a basket. La cosa migliore della ABL, recita una famosa frase che gli viene attribuita ma che cambia padrone a seconda del momento, era l’avere una franchigia alle Hawaii (gli Hawaii Chiefs a Honolulu, nda). 
La peculiarità però dura poco, così come il tiro da tre punti, adottato in seguito dalla ABA e solo dopo dalla NBA, e l’area allargata come quella in vigore nei tornei olimpici. La ABL chiude infatti i battenti il 31 dicembre 1962, a neanche metà della seconda stagione. Saperstein assegna il titolo ai campioni in carica Kansas City Steers, che capeggiano (22-9) l’unica division rimasta, comprendente le sei franchigie superstiti. Hawkins, che in 16 partite stava viaggiando a 27.9 punti per gara, è di nuovo a piedi. Quando, nel 1964, Saperstein se lo porta ai ’Trotters, Hawkins deve fare buon viso a cattiva sorte: non sarà vera competizione, ma quei soldi gli servono perché, ha ricordato nel 1992, «c’era la concreta possibilità di restare senza lavoro». 
Cinque anni dopo l’addio di Chamberlain per la NBA, un’altra star assoluta entrava nei Globetrotters. 
Al contrario di “the Stilt”, appena uscito da Kansas e rimasto per la sola stagione 1958-59, Hawkins – che pure, nel 1994, riceverà l’anello di “Harlem Globetrotters Legend” – non si adatterà mai a quell’ambiente. Hawkins vi approda perché non ha dove andare, anche se non c’erano dubbi che fosse pronto per giocare nei pro’. Quelli veri. «Connie gioca contro di noi, in estate – diceva allora il centro dei Knicks, Willis Reed – «e tutti noi sappiamo che sarebbe una superstar anche nella NBA». 

Agli Harlem, il veterano Charles “Tex” Harrison cerca di prendere sotto la propria ala il giovane e sensibile fuoriclasse, ma serve a poco. 
Carattere chiuso e introverso, Hawkins patisce il retaggio della difficile infanzia trascorsa a Bed-Stuy dove, tra le altre cose, era deriso dai coetanei del quartiere, che lo schernivano per gli stracci – per di più di taglia sempre troppo piccola – con cui andava in giro. 
«Mi sono sentito uno zimbello così a lungo nella mia vita – dirà – che non volevo ritrovarmi in altre situazioni nelle quali la gente potesse ridere di me». Connie non voleva recitare la parte del clown, che però era proprio una delle prerogative di quella, alla lettera, squadra-spettacolo. La riluttanza alla teatralità a uso dei tifosi, unita alla crescente sensazione di sprecare gli anni migliori in competizioni di seconda fascia, lo allontana sempre più dai Globetrotters; anche se solo qualche anno dopo, Connie comprenderà appieno le ragioni di tanta amarezza: «Quello che facevamo in campo era comportarci come degli Zio Tom. Fare le smorfie, i sorrisi, il ballare intorno: è così che volevano farci agire, ed è così che a molti bianchi piaceva pensare che fossimo realmente».
Hawkins osserva più a fondo la questione del razzismo che permeava la società americana, la prima volta che con i Globetrotters viaggia in Europa. «Non appena scesi dall’aereo,» dirà «mi sentii come sollevato. La gente ti tratta in maniera diversa, qui. Ragazzi, qua ti sorridono. A casa, ho sempre avuto la sensazione che ce l’avessero con me perché sono di colore». «Vecchio mio, goditela fin che sei qui – gli disse in una di quelle occasioni Harrison – Da questa parte dell’oceano – forse perché siamo ’Trotters – siamo dei re. A casa, ancora siamo niente».
Hawkins ne aveva anche per l’uomo che gli staccava gli assegni, naturalmente sempre troppo bassi; dopo un paio d’anni che era in squadra, Hawkins prendeva ancora 35 dollari a partita. Alla fine, in quattro anni porterà a casa quanto Chamberlain in un mese ai Philadelphia Warriors della NBA. Ma il risentimento di Hawkins verso il grande vecchio derivava anche degli atteggiamenti padronali di Saperstein verso i giocatori. «Fino a che recitavi la parte del ragazzo umile e riconoscente», ricorda Connie, «Abe con te era buono. Dovevi lasciargli credere che era un grande, che aveva sempre ragione. Dovevi mandare giù tutte le sue manie e i suoi stereotipi». 
Il 15 marzo 1966, i Globetrotters intesi come organizzazione piangono la scomparsa del fondatore-proprietario, deceduto 63enne proprio nel quarantennale della squadra, che l’anno dopo rimarrà anche Hawkins. Connie resta a Pittsburgh, dove gioca in una lega industriale della Young Men’s and Women’s Hebrew Association. La squadra si chiama Porky Chedwicks e il biglietto costa 50 centesimi. 
Dopo che nessuno lo aveva scelto al draft del 1965 e del 1966 (un po’ troppo per una mera “questione di coincidenze”, nda), il Board Governors della NBA vota per la radiazione di Hawkins, mettendo fine, se non altro, alla fiera dell’ipocrisia. 
Nell’estate 1967, Connie tocca il fondo. Vive in una catapecchia del North Side di Pittsburgh, con i due figli, la moglie e il fratello di lei, affetto da una forma di ritardo mentale. 
Ancora una volta, la salvezza assume le sembianze di una nuova lega. Già 25enne, firma per i Pittsburgh Pipers della American Basketball Association. 
L’incarico di commissioner è affidato a George Mikan, che della lega concorrente era stato la prima superstar. La sua prima mossa di dirigente illuminato (e interessato) è quella di aprire le porte ai giocatori della lista nera del 1961: tra gli altri, oltre a Hawkins, cui Big George consiglia di tirare di più per fare più spettacolo; Roger Brown, che in passato ha rinunciato alla ABL perché guadagnava di più lavorando alla General Motors; Doug Moe, l’ex North Carolina che, respinto al mittente ogni tentativo di corruzione, aveva pagato a caro prezzo i 75 dollari offertigli da Wagman per volare nel New Jersey ad un incontro organizzato da un amico di Moe, Lou Brown; Tony Jackson, la star di St. John’s che, come Hawk e , non aveva riferito delle scommesse. 
Hawkins firma per un bonus iniziale di 5.000 dollari, altri 15 mila di stipendio per il primo anno e 25 mila per il secondo più l’opzione di diventare free agent al termine della seconda stagione. Ad assisterlo nella trattativa stavolta ci sono gli amici avvocati David e Roz Littman, gli stessi che per suo conto, nel 1966, quando Connie era ai ’Trotters, avevano intentato contro la NBA una causa anti-trust per 6 milioni di dollari.

Nella ABA The Hawk disputa due grandi stagioni e diventa uno dei giocatori-simbolo della lega, di quelli capaci di riempire le arene e di dare credibilità (non solo tecnica) al carrozzone. A dire il vero gli addetti ai lavori si aspettavano che la principale attrazione fosse Rick Barry, finalmente strappato ai San Francisco Warriors della NBA, ma una sentenza del tribunale lo aveva costretto a stare fermo una stagione. Così Hawkins, Brown e Moe, passarono dalla polvere dell’ostracismo NBA all’altare dell’olimpo ABA.
Una situazione simile a quella vissuta dalla point guard Charlie Williams, che, pur non essendo un giocatore di quel livello, diventerà una delle chiavi del successo dei Pipers. Prima della nascita della ABA, Williams si era promesso ai Seattle SuperSonics della NBA. Ma poi la Lega gli aveva usato lo stesso trattamento riservato a Hawkins e così si era ritrovato a fare il titolare a Pittsburgh. L’arrivo del veterano Chico Vaughn, talentuosa guardia dal gran tiro da fuori esibito già dall’altra parte della barricata, ai St. Louis Hawks e ai Detroit Pistons, significava per coach Vince Cazzetta il miglior backcourt della ABA. 
Trascinati dai voli e dalle schiacciate in picchiata del Falco che fanno letteralmente impazzire la Pittsburgh Civic Arena, ma senza scordare i rimbalzi presi dal centro Tom “Trooper” Washington e i punti e i passaggi del sesto uomo Art Heyman, i Pipers dominano la Eastern Division (54-24). Hawkins guida la lega nei punti a 26.8 di media (che crescerà a 29.9 in postseason) col 51.9% dal campo, secondo della ABA dietro il compagno di squadra Washington, cui aggiunge 13.5 rimbalzi (secondo dietro Mel Daniels di Minnesota) e 4.6 assist (quarto) a sera; cifre che gli valgono l’ovvio premio di MVP e la nomina nel quintetto All-ABA assieme a Williams, Larry Jones, Moe e Daniels.
Nei playoff, Pittsburgh passeggia contro Indiana Pacers (3-0) e Minnesota Muskies (4-1) lungo il cammino verso il titolo. In finale i Pipers rimontano dal 2-3 al 4-3 i New Orleans Buccaneers delle stelle Larry Brown, Moe, Jimmy Jones sulla scia di due grandi prove di Hawk. In Gara6, sfiora la tripla doppia: 20 punti, 16 rimbalzi e nove assist. Nel 118-112 di Gara7, marcato da Moe, una delle ali difensive più forti del torneo, l’MVP e capocannoniere della lega (a 26.8 di media più 13 rimbalzi a sera) ne mette 41. La ABA non è solida (i primi campioni portano a casa 2200 dollari a testa e una coppetta), ma rispetto alla defunta ABL il talento abbonda. E al contrario dei Trotters e della ABL, a darsi una struttura professionistica almeno ci prova.

Al Rucker Tournament, quell’estate, Hawkins nemmeno si presenta, ma al momento di votare gli All-Star della competizione gli allenatori votano per lui. «Se decidi di organizzare un All-Star Game a Harlem» dirà Bob McCollough, ex giocatore harlemiano che con Freddie Crawford, alla morte di Holcombe Rucker, aveva assunto la direzione del torneo (meglio: summer league), «o voti per Connie o non voti». Giuntagli voce che lo hanno votato, Hawkins si presenta per giocare la Partita delle stelle e ne vince il premio di MVP. Non basta? Eccone un’altra. Nel libro che Terry Pluto ha dedicato alla storia della ABA, “Loose Balls”, l’ex agente Ron Grinker, scomparso nel 1997, rievoca un aneddoto gustoso. A fine Anni 60, andato al Roosevelt Field per vedere una gara estiva dell’amico Barry Kramer, pro’ ai Nets nel 1969-70, sente girare la voce che Hawkins giocherà. A primo quarto inoltrato, comincia a fare buio ma di Hawk, niente. All’improvviso, eccolo sbucare, scalzo e mezzo alticcio, dal vicino campo da baseball. Mentre Connie s’infila le scarpe la gente comincia a cantare «Hawk, Hawk, Hawk». Contro grossi nomi come Roger Brown, Hawkins nei primi tre possessi va in coast-to-coast e chiude con tre schiacciate diverse. Anche qui, folla in delirio.

Per la seconda stagione ABA l’azionista di riferimento dei Pipers, Bill Erickson, uomo d’affari di Minneapolis, commette l’errore di trasferire là baracca e burattini nella speranza di far meglio dei Muskies, partiti l’anno prima, e dopo solo una stagione, alla volta di Miami. Sarà un disastro. Il nuovo coach Jim Harding, si ritrova mezza squadra bersagliata dagli infortuni (Hawkins, Williams, Vaughn e Heyman) prima di farsi licenziare per aver messo le mani addosso al presidente Gabe Rubin. Connie disputa appena 47 gare, ma segna come mai in carriera, 30.2 punti a sera (secondo della ABA dietro Barry di Oakland) tirando col 50.3 dal campo, cui aggiunge 11.4 rimbalzi (quinto nella lega) e il bis come All-ABA, stavolta accanto a Barry, James e Larry Jones e Daniels. Ma anche con Hawkins sano, i Pipers (36-42), guidati dal GM Vern Mikkelsen e poi dal nuovo coach Gus Young, non sono più quelli dell’anno prima e salutano la compagnia già al primo turno, nelle semifinali della Eastern (3-4 dai Miami Floridians).
I Pipers tornano a Pittsburgh per la stagione 1969-70 (e cambiano il nome in Condors la stagione dopo), ma senza The Hawk, che chiude la sua carriera ABA a 28.2 punti, mantenuti anche nei playoff, e 12.6 rimbalzi di media. 
Nel 1969 accadono un paio di cosine significative. In primavera, fa scalpore un articolo della rivista “Life” che dà la stura a una massiccia campagna di stampa per sostenere l’estraneità di Hawkins alle vicende del 1961. Nel pezzo si racconta che all’epoca Connie era solo un ragazzino terrorizzato, poco istruito e molto insicuro che, intimidito dai metodi e dalle minacce degli agenti, li aveva assecondati in tutto, ammettendo anche ciò che non aveva commesso. 
Nel frattempo, il contenzioso legale si avvia a una soluzione. Il vento cambiato e soprattutto lo spettro di scucire per intero i 6 milioni portano il Commissioner NBA Walter Kennedy a più miti consigli: meglio transare a 1.295 mila dollari, un’annualità da 600 mila dollari a partire dai 45 anni e 250 mila in contanti, metà subito e metà spalmata su cinque anni, la durata del contratto garantito per 410 mila dollari che finalmente Hawkins è libero di firmare. Con chi, però? Con i Phoenix Suns, franchigia al secondo anno che, perso il sorteggio ufficiale con i Milwaukee Bucks per la pick numero uno al draft NBA 1969 (Lew Alcindor), avevano vinto quello ufficioso con Seattle. Giocando con le parole, un columnist di Phoenix lo definirà «il più grande comeback (gioco di parole tra rimbalzo e ritorno, rientro – nda) nella storia del lancio della monetina».

Di fronte alla prospettiva di volare finalmente anche nei cieli NBA, The Hawk non ha voglia di rancori. «Ero così felice di giocare, non volevo problemi – racconterà a Ron Rapoport, inviato del Chicago Sun-Times – Appena saputo che ero dei Suns, l’unica cosa che volevo era giocare». E una volta “riabilitato”, Hawkins dimostra di saperlo fare all’altezza della propria fama. Con 24.6 punti di media (sesto nella lega) in 81 gare guida l’attacco dei Suns che pure schiera altri due realizzatori da 20 punti a partita, Dick Van Arsdale e Gail Goodrich. Hawkins vi aggiunge 10.4 rimbalzi e 4.8 assist a sera e la nomina nel quintetto All-NBA con Walt Frazier, Jerry West, Billy Cunningham e Willis Reed.
Nel primo turno dei playoff, i Suns affrontano i Los Angeles Lakers di Chamberlain, West e Baylor. In Gara2 al Forum, Hawkins mette in scena, quella che Jerry Colangelo, allora coach dei Suns, definisce «la migliore prestazione individuale che io abbia mai visto»: 34 punti, 20 rimbalzi e sette assist nella vittoria (101-114) che impatta la serie. Sull’onda del primo successo di postseason nella storia della franchigia, i Suns si portano sul 3-1 prima di cedere alla rimonta dei più esperti Lakers.

Anche se le sue cifre (soprattutto a rimbalzo) calano un po’ nelle due successive stagioni, Hawkins è ancora una star da 20.9 punti di media nel 1970-71 e 21 nel 1971-72. Numeri che avrebbero fatto la felicità mezza NBA, ma non di Hawkins che nella lega ci è entrato, dopo mille peripezie, con una reputazione. Qualcuno, tra critica e tifosi, comincia a storcere il naso, a metterne in dubbio la voglia di vincere. L’atletismo c’è ancora, ma la passione, l’intensità e le ginocchia sembrano risentire degli anni spesi sul playground, sui campi minori della ABL, della ABA e di quel circo itinerante chiamato Globetrotters.

Nel 1972-73 la prima opzione offensiva di Phoenix è Charlie Scott (25.3 punti per gara), ma Hawk è ancora capace di segnarne 16.1 a sera, più col mestiere che altro. Dopo otto partite della stagione 1973-74, viene ceduto ai Lakers. Connie lascia la Valley con a referto 20.5 punti, 9 rimbalzi e 4.3 assist a partita. Los Angeles ha una squadra sul viale del tramonto. Chamberlain si è ritirato, gli infortuni concedono a West 31 presenze. Hawkins fa quel che può e cioè 12.6 punti a partita. L’anno seguente, The Hawk è uno “spot player” da 8 punti in 43 uscite. Il canto del cigno è vicino e arriva a 34 anni, al termine della campagna 1975-76, condotta con gli Atlanta Hawks a 8.2 punti per gara. 
Connie tenta il ritorno alle gare in Italia, ma senza fortuna. Nell’estate del 1978 la allora Sarila Rimini, neopromossa in A2, lo tiene in prova ma poi lo scarta per gli ormai cronici problemi alle ginocchia, gli stessi ravvisati dalla Fortitudo-Alco Bologna con la quale gioca in precampionato. 
Nel 1992, dopo l’ennesimo (e ultimo) periodo difficile senza basket torna ai Suns come community relations representative. 
Nello stesso anno diventa il primo Suns ad essere nominato nella Hall of Fame e a vedere ritirata la propria maglia: la numero 42, omaggio non al suo anno di nascita ma mito della sua infanzia, Jackie Robinson dei Brooklyn Dodgers, ammirato intrufolandosi di nascosto a Ebbets Field e non a caso il primo a spezzare, nelle Major League di baseball, la barriera della discriminazione razziale.

Oggi Hawkins è un uomo sereno, che insieme ai simboli che ne avevano fatto il Jordan dei suoi tempi (i baffoni, le basettone, la fasciatura alle dita) sembra aver perso anche quel velo di tristezza che aveva contrassegnato i brutti tempi di Bed-Stuy e di Pittsburgh. Connie lavora con i ragazzini nei clinic organizzati assieme a John Shumate, continua a essere in ritardo e ogni tanto si lascia andare ai ricordi. Come quella volta che ai Suns si fece male cadendo a terra in un’azione di gioco, o almeno così sembrava. Perché quando il trainer Joe Proski corse in campo per controllarne le condizioni, Hawk gli disse: «Volevo solo farti andare in tv per un po’». 

Quattro volte All-Star, nella NBA Hawkins vanta 16.5 punti, 8 rimbalzi e 4.1 assist a partita in regular season, che lievitano a 19.3, 11.4 e 4.8 nei playoff. Sommando queste cifre a quelle accumulate nella ABA (28.2, 12.6 e 4.3; 28.2, 12.3 e 4.3) fanno 18.7 punti, 8.8 rimbalzi e 4.1 assist in stagione regolare; e 25+12 + 4.5 assist in postseason; numeri che non gli rendono giustizia. 
Per quella, meglio ricorrere alle parole spese per lui da Sports Illustrated: «Julius, Michel e Connie rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo dell’hang time». Neanche a farlo apposta, a fine carriera Connie regala ai posteri un movimento immortale che sembra l’ideale mix tra due storiche giocate subite dai Lakers in altrettanto storiche Finali NBA: il Baseline Move del Doc in Gara4 nel 1980 e il Da Move di MJ in Gara2 nel 1991. Già a mezz’aria, The Hawk finge l’affondata, simula un finger roll e dopo un 180° schiaccia all’indietro. 
Elgin capirà.
The Hawk e il Rucker
Di aneddoti riguardanti le gesta di Hawk al playground, e in particolare al Rucker, ce ne sono a iosa. Ne raccontiamo due, non prima di aver rilevato una omissione poetica in Rebound, il film biografico dedicato a Earl Manigault. Hawkins, interpretato nella pellicola dall’ex stellina NBA Joe Smith, giocò una volta contro The Goat. E lo batté. 
Il primo, ora. In squadra con Jackie Jackson – 1.95 capace di schiacciare in testa ai 2.14 del grande Wilt Chamberlain – Hawkins affronta la squadra di Wilt, Cal Ramsey (Knicks) e Tom Sanders (Celtics). La gara è tirata e Chamberlain sciorina il consueto fadeaway jump shot. A un certo punto, gli avversari decidono di farlo tirare e di stopparlo dal lato debole con Jackson. Boato. Wilt non la prende bene. La squadra dei tre pro chiama timeout e Chamberlain non toglie mai lo sguardo da Hawkins. «Al rientro in campo – sorride Connie – Wilt fa 12 schiacciate in fila, e intendo schiacciate incredibili».
Il secondo si riferisce (probabilmente) all’edizione del 1962 ed è stata messa su carta nel 1970 da Peter Axthelm in The City Game (gioco di parole sullo sport newyorkese per definizione, nda), autentica pietra miliare nella letteratura del basket di strada. 
Attraverso i ricordi dell’harlemiano Pat Smith, il “Diabolico Dottore dal cuore nero” che ne fu testimone oculare, Axthelm ricostruisce una delle più grandi partite di playground di sempre. La squadra di Chamberlain, Clinton Robinson (183 cm di elettricità) e altre stelle dell’asfalto, era avanti di 15 sulla formazione guidata da Ed “Czar” Simmons e Jackie Jackson. A un certo punto, «ci fu un rumore strano. C’erano 4-5 mila persone a guardare la partita e improvvisamente ci fu silenzio. Tutto quello che si riusciva a sentire era un mormorio: “The Hawk, The Hawk, è arrivato The Hawk…”. Poi la folla si è aperta». 
Come il Mar Rosso dinanzi a Mosè.
Hawkins arriva, si cambia ed entra in campo. Pronti-via, e staccando ben dietro la linea del tiro libero, Connie schiacciò – in gancio! – in faccia a Chamberlain. «Nessuno aveva mai fatto niente del genere a Wilt. La gente impazzì al punto che si dovette fermare la partita per cinque minuti. Robinson decise di ripagare Hawk con la stessa moneta. Se ne andò in slalom e gli segnò davanti con un layup altissimo che quasi toccò il bordo superiore del tabellone. Poi fu il turno del leone ferito Chamberlain, che schiacciò a due mani proprio sopra Hawkins e con tale violenza che quasi staccò il canestro. Allora The Hawk ristabilì la propria legge. Robinson cercò il bis, solo che questa volta The Hawk non aspettava altro. Saltò così in alto che stoppò il tiro con il petto. A metà salto, abbassò le mani come se si stesse togliendo la maglietta, catturò la palla e gliela rispedì violentemente sui piedi. Quella giocata cambiò l’incontro. La squadra di Hawk rimontò fino a vincere la partita. Questo era The Hawk». 

CORNELIUS (CONNIE) LUCIUS HAWKINS
Nickname:
The Hawk (il Falco)
Nato: 
17 luglio 1942 a Bedford-Stuyvesant (Brooklyn), New York (USA)
Statura e peso: 
2,02 x 98 kg 
High School: 
Boys’ High (Brooklyn, 1957-60)
College: 
University of Iowa (1960-61, espulso da freshman senza avere mai giocato)
Carriera da pro’: 
Pittsburgh Rens (ABL, 1961-1962); 
Harlem Globetrotters (Independent League, febbraio 1963-1967); 
Pittsburgh Pipers (ABA, 1967-68); Minnesota Pipers (ABA, 1968-69); 
Phoenix Suns (NBA, 1969-73); Los Angeles Lakers (NBA, 1973-75), Atlanta Hawks (NBA, 1975-76)
Palmarès: 
titolo ABA (Pittsburgh Pipers, 1967-68)
Riconoscimenti alla high school:
2 volte All-City, All-Conference, All-State e All-District (1959, 1960);
All-America per Parade magazine (1960)
2 volte Team MVP e top scorer della squadra
Riconoscimenti in ABL: 
MVP 1961-62, All-Star First Team (1962).
Riconoscimenti in ABA:
MVP 1967-68, 2 volte All-Star First Team (1968, 1969)
Top scorer 1967-68 (26.8 PPG)
Riconoscimenti in NBA:
All-NBA First Team (1970)
4 volte All-Star (1970-73)
NBA First Team All-Star (1970)
Team MVP (Phoenix Suns, 1970-71)
Altri riconoscimenti individuali:
eletto nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame (11 maggio 1992)
in suo onore i Phoenix Suns hanno ritirato il numero 42 (19 novembre 1976)
anello di Legend degli Harlem Globetrotters (22 gennaio 1994)

Cifre in carriera
Lega Stagioni G FG% FT% RPG SPG APG PPG
ABL 1961-63 94 50.8 78.7 13.9 225 2.4 27.6
ABA 1967-69 117 51.5 76.5 12.6 504 4.3 28.2
NBA 1969-1976 499 46.7 78.5 8.0 2052 4.1 16.5
Totali 12 710 48.0 78.1 9.4 2781 3.9 19.9

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