Sergio Neri: «Il ciclismo è diretto da somari»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Sergio Neri, riminese classe 1934 ma da mezzo secolo romano d'adozione, è un monumento - ancora attivissimo - del giornalismo italiano. 
Come scrisse il suo antico sodale Paolo Facchinetti, «da inviato fece servizi sugli astronauti, sui primi voli lunari, sulla democrazia dei giovani svedesi, sulle tribù selvagge africane»
Una vita al Corriere dello Sport-Stadio (di cui fu anche direttore), nel 1976 fondò il mensile Bicisport e la Compagnia Editoriale che da allora lo edita. 
Lo incontro, in compagnia del vicedirettore Tony Lo Schiavo, a giornale appena chiuso e all'indomani del Giro, conclusosi nella capitale tra le polemiche per la pericolosità del percorso cittadino e la neutralizzazione, ottenuta dai corridori dopo tre dei dieci giri previsti: una figuraccia in mondovisione.
Mi accoglie con garbo e cortesia, ma anche con un'antica distanza che, dopo l'iniziale fase di studio, il suo caldo vocione baritonale accorcia giusto quel po' per rendere la chiacchierata un filo meno formale. Il filo della memoria invece lo riannoda e dipana con grande lucidità.


redazione di Bicisport
Roma, lunedì 28 maggio 2018


- Direttore Sergio Neri, se le dico Sappada il suo primo pensiero qual è?

«Il primo pensiero è allo splendore del Giro di quest’anno. Abbiamo appena concluso un Giro che in copertina su Bicisport, che abbiamo chiuso questa mattina, abbiamo definito meraviglioso. Perché è stato un Giro che ha riproposto, come succedeva tanti anni fa, quel ciclismo che piace alla gente. Quel ciclismo messo in moto dall’audacia e dai sogni. Sappada: Sappada ha tutto. L’eroismo e il non-eroismo del ciclismo, che più che uno sport è un mestiere di vita. Quindi nel mestiere di vita ci sono i pregi e i difetti degli uomini, i chiari e gli oscuri di ognuno di noi. Quello che ricordiamo, di trentun anni fa, è più un oscuro che un chiaro, però anche quello è da interpretare. Perché dentro quel fatto ci sono delle storie umane che, vedo, tutti continuano a raccontare. E con testimonianze anche nuove. Ho ascoltato l’altro giorno un'intervista a un corridore dell’epoca, un gregario, che pare sia stato – dico pare, perché non ricordo questo particolare – il primo promotore della fuga».

- Glielo confermo io: Ennio Salvador. Sono andato a trovarlo e mi ha raccontato che ce l’aveva con Visentini per un aiuto promesso e non mantenuto al campionato italiano dell’anno prima.

«È probabile. Perché il ciclismo è un mestiere di vita in cui ci sono anche piccole vendette, piccole ritorsioni, dispetti, regali. È così, il ciclismo: è una storia di fatica. E nella fatica c'è tutto. Nel viaggio della fatica, c’è tutto».

- C’è chi sostiene che sia la vita una metafora del ciclismo, più che il viceversa.

«Può darsi, può darsi. Ci sta» [ride].

- Non trova curioso, come fatto storico, che a Sappada, trentun anni dopo, abbia vinto un altro corridore di lingua inglese, Simon Yates, con quell’attacco ai -17,3 km, e che in quella tappa si sia ritirato Nicolas Roche, il figlio di Stephen?

«Certo, andare a pizzicare… Sono fatti curiosi, non ci avevo pensato ma è curioso. Anche questa ira di Visentini, che continua ad esprimersi con grande, così, dispetto nei confronti di Roche... Visentini che poi nel ciclismo non si è mai più visto, perché si è dedicato totalmente allo sviluppo dell'azienda di famiglia. E probabilmente la ferita gli ha fatto così male che si è allontanato dal ciclismo quasi condannando questo sport al negativo della sua vita».

[Il riferimento è all'intervista rilasciata da Visentini a Claudio Ghisalberti della Gazzetta dello Sport e pubblicata il 18 maggio, due giorni prima della tappa di Sappada 2018, nda]

- È stato "solo" per quell'episodio o magari Visentini l'ha usato un po' come pretesto per non volerne più sapere dell'ambiente? Ma solo dell'ambiente perché so che in bici va ancora.

«Lei mi fa una domanda che merita una piccola riflessione, perché Visentini non è mai stato un corridore ben integrato con gli altri. Lo si attribuiva, questo fatto, al carattere di Visentini: un po' chiuso, un po' altero, un po' aristocratico, diciamo così. Forse. Forse sì, però quell'episodio lo ha ferito molto ed è un episodio che ha ferito anche altri. Io ricordo Boifava, che guidava l'ammiraglia della squadra, che raggiunse Roche in fuga e lo invitò a fermarsi ad aspettare, minacciandolo addirittura di buttarlo nel fosso con la macchina. Ma ormai Roche aveva deciso che quello era il suo destino. E infatti vinse il Giro, poi il Tour e il campionato del mondo».

- Per lei fu tradimento o "soltanto" un'azione di corsa?

«Un'azione...».

- Studiata, premeditata?

«Metà e metà. No, proprio premeditata no. Però che Roche ce l'avesse nella testa, sì. È capitata l'occasione e l'ha colta al volo».

- Roche non l'aveva studiata due sere prima in camera con il gregario Schepers dopo aver visto in tv quell'intervista in cui Visentini aveva detto: io a luglio vado al mare, non vado al Tour?

«Dopo, sì. Poi si può scrivere di tutto, si può creare di tutto. Non penso fosse così premeditata, anche se gli elementi per pensarlo ci sono. Molte storie del ciclismo nascono sulla strada, come nella vita di ognuno di noi».

- Che ricordi ha di Roche e Visentini, visto che li ha conosciuti bene?

«Sì, li ho conosciuti bene però fino a un certo punto, perché non si lasciavano conoscere molto a fondo, soprattutto Visentini. Mi ricordo che fu invitato a Milano da Ernesto Colnago, il famoso costruttore, quando Visentini fu maglia bianca, all'esordio, e quindi era un corridore in odore di santità, diciamo così. Colnago organizzò una festa per premiarlo...».

- Parliamo del '78, giusto?

«Sì, quando esordì Visentini. Colnago mi chiese di parlare per illustrarlo, questo ragazzo. Io lo feci ma mi resi conto che poi, alla fine, lo feci senza essere entrato nell'animo di questo ragazzo. Perché non era facile entrarci, in quell'animo nascosto».

- Una questione caratteriale o perché magari in gruppo era visto in maniera diversa, perché di buona famiglia, bello, talentuoso?

«No, penso fosse una cosa caratteriale».

- E Roche invece?

«Stephen Roche, un normale corridore al quale ci si avvicinava normalmente. Tutto nella normalità. Non era uno che avesse delle aperture brillanti. O disponibilità, soprattutto, di grande cordialità. Normale».

- Al di là di Sappada, che cosa ricorda di certe campagne di stampa dell'epoca? I media italiani spingevano per Saronni e Moser. Visentini era diventato un po' un anti-Moser, perché si lamentava per le spinte e i traini di cui ai tempi si abusava. E in particolare lo sceriffo, con le sue legioni di tifosi trentini che lo seguivano in tutta italia.

«Sì, questo è vero».

- E che cosa ricorda?

«Niente di particolare. Mi ricordo l'autentica "disperazione" dei titolari dell'azienda Carrera, i Tacchella, che la sera [di Sappada] non sapevano da che parte guardare. Erano stralunati. Stravolti. E convinti di aver subìto, col loro corridore, da un altro loro corridore, un grave torto. Eravamo nllo stesso albergo [l'hotel Corona Ferrea, nda] e mi ricordo che nella hall dell'albergo - io stavo rientrando perché mi ero attardato in sala stampa - loro erano ancora lì che guardavano. Poi uno di loro mi venne incontro, guardandomi. Non mi chiese niente ma sembrava quasi che fosse lì a chiedermi di scambiare un sentimento di dolore».

- Era Tito, Tito Tacchella?

«Sì, Tito Tacchella».

- Nei giorni successivi, Roche pedalava in gruppo con ai fianchi Robert Millar e Eddy Schepers, perché aveva paura di sabotaggi o delle intemperanze di certi pseudotifosi italiani. Lei che cosa vide? Per esempio è vero che a Roche sputavano addosso vino rosso e riso o tiravano pezzi di carne come per dirgli ti facciamo a pezzi?

«Ci fu qualche preoccupazione però non successe granché».

- Lei era al seguito del Giro con l'auto di Bicisport, giusto?

«Sì, certo».

- Però lei queste cose non le ha viste?

«No, onestamente no. Non le ho viste. Però giravano minacce, cose. Ma erano anche molto dilatate da una certa fantasia popolare».

- Mi parli della Carrera di quell'epoca: si possono fare paragoni con le grandi squadre di oggi, al di là dell'ovvia differenza di budget?

«C'è differenza di budget, però era una squadra, diciamo, moderna. A quei tempi si poteva definire moderna, perché il ciclismo era popolato di squadre di estrazione artigianale. La prima a salire questo gradino della modernità fu la Salvarani, gestita da Luciano Pezzi. E la Carrera andò ancora più su, come immagine e come disponibilità economica».

- Com'era la forbice tra le grandi squadre e le medio-piccole rispetto a quella che c'è oggi?

«Meno della forbice che c'è oggi fra il Team Sky e le altre, non solo la Bardiani ma anche le altre squadre. Lasciamo stare la Sky, che non fa testo perché è troppo fuori categoria, però con le altre c'è una esagerata differenza che va corretta. Se non la correggono il ciclismo italiano paga un prezzo molto alto, perché non ha più squadre per far crescere i propri giovani talenti. Per cui, vengono Yates, Dumoulin, gli altri stranieri. Quest'anno concludiamo un bellissimo Giro d'Italia, ma praticamente di roba nostra non c'è nulla. Sì, Pozzovivo, un corridore di medio valore, tra l'altro afflitto da un cognome difficile da usare come titolo in prima pagina. Lei prenda "Coppi eroe delle Dolomiti" e metta "Pozzovivo eroe delle Dolomiti": fa ridere».

- Ma in questo ciclismo moderno - dei misuratori di potenza, delle radioline eccetera - si possono verificare episodi come quello di Sappada '87?

«Magari si rappresentano in altra forma e in altro modo, ma si possono realizzare».

- Il caso Froome-Wiggins al Tour 2012 poteva essere analogo, ma alla fine è rientrato.

«Forse oggi è più difficile. Perché il denaro ha una presenza talmente forte che rallegra e intimorisce tutti. Per cui i corridori oggi stanno molto attenti a qualunque "sgarbo", qualora avessero in mente di farlo, per paura di perdere il vantaggio di un buon contratto».

- Questo ci ricollega a quanto successe nei giorni successivi a Sappada. C'erano in ballo grossi premi e forse la carriera per i gregari della Carrera. Chiappucci, che era al terzo anno da pro' e veniva dal gravissimo incidente al Giro di Svizzera, rischiava di restare a piedi. E di fronte ai 45 milioni di lire di premio per la vittoria del Giro, è chiaro che la squadra poi avrebbe seguito la maglia rosa, che a indossarla fosse stato Roche o Visentini. E allora in questo senso come valuta la figura di Boifava? Era stretto tra la brescianità che lo accomunava a Visentini di cui era stato compagno da corridore e il dover portare a casa comunque la maglia rosa.

«In Boifava, anche in quella circostanza, è prevalso il sentimento...».

- Non la suprema ragion di stato? 

«Poi, dopo, ci avrà ragionato. Ma guardi che anche i Tacchella quella sera, come stavo raccontando, erano colpiti. Ci tenevano sì a vincere, ma erano anche colpiti nel sentimento. perché gli era dispiaciuto sinceramente il fatto».

- Fu però anche una bella botta pubblicitaria, me lo ha ammesso lo stesso Tito Tacchella.

«Ah, su quello magari ci avranno ragionato dopo. Ma di primo acchito erano colpiti nel sentimento. Io me li ricordo come adesso. Erano lì, dispersi».

- Perché mi ha detto che in Boifava prevalse il sentimento?

«Perché Visentini è italiano, era un suo corridore, aveva corso con lui, quindi per quanto Roche fosse un campione, però era inevitabile che il gesto provocasse una reazione negativa in chiunque amasse l'avventura che si stava compiendo».

- Il gregario belga Eddy Schepers e il meccanico-massaggiatore tuttofare francese Patrick Valcke, che cosa ricorda di questi personaggi?

«Sono personaggi un po' mercenari - in senso buono - Hanno contratti brevi, di breve durata, un anno, due anni, e quindi devono continuamente rilanciarsi, essere amici di tutti. Essere legati un po' qua e un po' là. Quindi non mi sorprende nulla di questa realtà».

- Giro dell'83, il Giro "del Guttalax". Era un'Italia in cui potevano succedere quelle cose lì. Lei che cosa ricorda di quell'episodio?

"No, non è che potevano succedere quelle cose lì. Guardi, lei ha qui vicino a me Tony Lo Schiavo, che ha condotto un'inchiesta con gli Arrigoni, che erano dietro le quinte della faccenda, con Colnago che era l'uomo, il padrino - in senso buono - di Saronni. Fu un giallo-giallastro. Tony poi andò a quel Giro, raggiunse la squadra per cercare di capire. E ci arrivò vicinissimo».

- Tony, che cosa ricordi di quella vicenda che ai tempi hai ricostruito?

«Non si è mai capito chi sia stato il mandante».

- Ma non era Arrigoni, il proprietario della FIR, che forniva le ruote alla Carrera?

«No, lui mi aveva promesso che un giorno mi avrebbe detto chi era stato, poi purtroppo è morto presto e non ha fatto in tempo a dirmelo. Però era evidente che ci fosse stato un mandante». 

- Quindi dietro non c'era una macchinazione pubblicitaria per la FIR?

«No, l'obiettivo era far vincere il Giro a Visentini».

- Cioè sabotare la maglia rosa Saronni per far vincere Visentini?

«Qui siamo nel campo della dietrologia: o creare una situazione per cui, se Saronni avesse perso il Giro, avrebbe avuto un alibi. Io parlai anche con il cameriere. Lì però c'era stato un mandante, che alla fine è rimasto coperto».

- Perché nessuno sporse denuncia?

«Perché poteva essere che, nella denuncia, sarebbe rimasto coinvolto il mandante».

- Mi confermi che un agente si finse cameriere per coglierli sul fatto, nell'hotel a Gorizia dov'era in ritiro la squadra di Saronni?

«Sì».

Riprende il direttore Sergio Neri:
«Si dava per probabile che Saronni non ce la facesse [a vincere il Giro, nda]».

- Torniamo a Visentini. Da un punto giornalistico come fu dipinto il suo personaggio? All'epoca si scrissero tante inesattezze, per non dire cattiverie, su un corridore ricco di famiglia, che pare non facesse vita d'atleta. In realtà, pur essendo benestante, era un super professionista...

«Questa è la ragione per la quale lui ha sofferto. E può essere il motivo che lo ha staccato dal ciclismo. Perché lui era innamorato del ciclismo, e del mestiere che faceva. Lo esercitava in una maniera un po' aristocratica, ma in senso buono. E quella ferita deve essere stata profonda per lui».

- Suscitava invidia nel gruppo, perché non era il classico corridore che correva per fame?

«No, non era circondato da invidie. Era circondato casomai da soggezioni di taluni, di molti corridori, che avevano una dimensione, chiamiamola anche culturale, se così si può dire, inferiore alla sua. Non che Visentini fosse un'arca di scienza, però...».

- Invece dal punto di vista giornalistico che cosa ricorda di quei tempi, di quelle vicende?

«Fu raccontato sotto tutti gli aspetti il tradimento di Roche. Anche perché era la cosa più facile da inquadrare e da far capire. Per come la gente lo recepì, e come in realtà era stato».

- Glielo chiedo perché è stato dipinto così e quindi la gente così reagiva; ma la gente reagiva così anche perché così è stato dipinto...

«Sì, ma è stato dipinto così anche perché è stato così. La verità è questa. Quel giorno Roche ha fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare, e che nelle regole normali del comportamento delle squadre non esiste. Guardi che ai tempi di Coppi, Loretto Petrucci, che "osò" fare la volata e vincere la Sanremo, per molto meno, e senza tradire nessuno - però è partito - è stato eliminato dalla squadra. La regola del capitano un po' padrone fa parte dei carismi strutturali, mentali».

- Ne fa parte per come li recepiamo noi, perché per i media anglosassoni, ancora oggi, si trattò di una scelta di corsa; di business, come dicono loro.

«Loro hanno una concezione meno latina, meno romantica, della nostra. Noi vediamo il ciclismo come una storia, un mestiere di vita. Anche una storia di vita. E in questa storia noi ci mettiamo anche il cuore. Forse loro ce ne mettono di meno».

- Anche se il Giro appena concluso, con le imprese di Yates e Froome, la caparbietà di Dumoulin, persino i crolli dello stesso Yates e di Pinot, sembra sconfessare tutto questo.

«Questo Giro, sì. Però non è solo questo Giro. L'operazione che ha restituito Froome al cuore della gente, anzi, che glielo ha dato per la prima volta, è la dimostrazione che non è vero che esistono il ciclismo di una volta, eroico, e il ciclismo di oggi, tecnologico. Sì, è vero: oggi è prigioniero delle macchine, della tecnologia che rende il corridore un robot, cancella le strategie, le tattiche di gara e quindi lo spettacolo. Quello che Froome ha dato l'altro giorno».

- C'è anche il cambio di strategia nella comunicazione: per esempio, aver rimosso i teloni neri dietro cui i corridori del Team sky facevano i rulli. Questo avvicina la gente.

«Sì, certo. Però poi alla fine la radice, chiamiamola non antica ma storica del ciclismo, poi viene fuori. Anche se oggi la tecnologia, i soldi, la preparazione tendono a negare l'eroismo dell'uomo, del corridore. Un anno fa Gilbert ha vinto il Giro delle Fiandre con cinquanta chilometri di fuga solitaria. Se lei parla con questi moderni preparatori, tecnocrati figli della tecnologia, le dicono: no, il ciclismo di oggi non permette più queste fughe, bisogna fare lo scattino a due chilometri dal traguardo e basta, ché non la reggi. Gilbert ha retto cinquanta chilometri di fuga. Nibali alla Sanremo sul Poggio ha fatto un'azione storica, stupenda. Sagan ha vinto la Roubaix con cinquanta chilometri di fuga. E Froome l'altro giorno [ha vinto al Giro] con ottanta chilometri di fuga. Quindi quel ciclismo lì, quello che piace alla gente, che la gente vuole, che testimonia il meglio di ogni altra vicenda, l'avventura, la statura dell'uomo, c'è ancora. Si può fare».

- Non è una coincidenza che siano passati dieci anni dall'introduzione del passaporto biologico. Dieci anni fa queste azioni non succedevano.

«No, certo: non è un caso perché nel ciclismo hanno fatto irruzione i soldi. I soldi hanno portato alla corruzione: è normale. È sempre così, purtroppo. Drammaticamente normale. Tanti soldi portano a che cosa? All'idea di fare di più per avere di più. E per fare di più c'è chi mette la mano sporca».

- Abbiamo parlato di soldi e di grandi squadre. Non per fare un paragone tra la Carrera dell'epoca e il Team Sky di oggi, perché ci sono troppe differenze, ci sono però anche analogie. Per esempio la scelta di andare a prendere i migliori corridori. Gli squadroni di Merckx, e prima ancora le "Guardie rosse" di Van Looy. Ma non hanno sempre fatto tutte così? 

«No, non a questi livelli. Le "Guardie rosse" di Van Looy, Edgard Sorgeloos in particolare, erano gregari buoni, solidi. Guadagnavano bene, ma non così. La Sky prende tutti capitani. Porta sette uomini alla fine di una tappa dove le altre squadre ne hanno uno, per misericordia. Ha soldi. Ha tanti soldi».

- Ma lei è del partito bordonaliano che ci vorrebbero più squadroni come il Team Sky?

«No. In Italia abbiamo urgente bisogno di più squadre come la Bardiani, perché quelle squadre lì aprono le porte ai giovani. Possono pagare poco ma quel poco va però a beneficio dei giovani. E sono le squadre che rimettono in moto il ciclismo. Noi, di squadre, non ne abbiamo più».

- È questo il punto. Non abbiamo squadre nel World Tour perché nessuno ti dà 12-15 milioni se non puoi neanche garantirgli se sarai al Giro, e non hai la proprietà del cartellino dei tuoi corridori, non hai i diritti tv...

«Non c'è dubbio, però vuol dire che i costi sono diventati talmente elevati che non se li possono permettere. Ma è anche comprensibile che non se li possano permettere. Se abbassiamo un po' questo livello, nascono altre squadre. E sono quelle che poi aprono le strade ai giovani».

- Ma qual è la strada per abbassare il livello di spese? Perché così come è strutturato il World Tour non funziona.

«No, così è esageratamente spinto. Al Giro d'Italia devono partecipare più squadre italiane come la Bardiani e magari meno del World Tour. Oppure, in una diversa regolamentazione».

- Però neanche le squadre Continental, così come sono, funzionano...

"Io parlo di Professional, che sono un pochino superiori.

- E quindi come si esce da questo vicolo cieco?

«Con dirigenti più illuminati, più competenti dei veri problemi del ciclismo. A livello nazionale e internazionale. Guardi che il fatto di Froome sta danneggiando enormemente le grandi corse, il movimento, il ciclismo: non sono capaci di risolverlo. Uno dei grandi fatti positivi del calcio è sempre stato la realtà del giudice al mercoledì, la domenica il fallo e il mercoledì la sentenza. Basta. Quello è lo sport. E quello è ciò di cui lo sport ha bisogno: la rapidità e la chiarezza delle sentenze. Ci vogliono quindi dirigenti che conoscano meglio anche tutti i problemi dello sviluppo e del rispetto delle radici del ciclismo dei Paesi che lo hanno inventato».

- Perché Diego Ulissi e Alessandro Petacchi, per casi analoghi a quello di Froome, furono subito squalificati e invece Froome no?

«Perché il ciclismo è diretto da dei somari. Tutto lì».

- Nella migliore delle ipotesi, e cioè che siano "solo" somari.

«Eh, bravo. Speriamo. Non lo so. Di sicuro però è che c'è una confusione tale...».

- Per esempio il presidente dell'UCI, David Lappartient, che a Roma sul podio finale del Giro d'Italia 2018 non premia la maglia rosa Froome ma premia la maglia bianca Miguel Ángel López: o le premi tutte o non ne premi nessuna.

«Quello ti fa pensare che nella testa del presidente ci sia qualche futuro intervento che potrebbe danneggiare anche il Giro d'Italia. Ecco cosa vuol dire essere somari. Cioè gente che non sa gestire in maniera equilibrata e politicamente giusta il movimento che ha in mano».

- Dal punto di vista giornalistico invece in questi oltre quarant'anni di mestiere, com'è cambiato anche il modo di raccontare il ciclismo?

«Non è cambiato il modo di raccontare, sono cambiati un po' i raccontatori. Sono venuti a mancare un po' i raccontatori».

- Voi siete stati fortunati, avete avuto grandi maestri. La mia generazione, un po' meno.

«Il ciclismo è colpevole. Perché il doping cosa ha fatto? Ha ridotto la passione della gente verso questo sport e quindi ha portato i giornali a ridurre gli spazi dedicati al ciclismo. E i giovani aspiranti giornalisti a dedicarsi ad altri sport. Poi, un pochino si è anche persa la scuola, chiamiamola così, del racconto. Il ciclismo è racconto. Il ciclismo ti insegna a scrivere. Ti insegna a vivere l'evento che racconti. Tutta questa disaffezione ha portato via i giovani e i giornali a ridurre gli spazi, e i direttori dei giornali magari a non conoscere più, a non sostenere più, la forza, la presa degli eventi del ciclismo. Quando ho esordito al Giro d'Italia, lo raccontavo l'altro giorno qui in redazione, vicino a me a Pavia c'era Giovannino Mosca, scrittore, che ancora, magari per un vezzo suo, usava penna e calamaio. E io ero emozionato, lo guardavo con una grande ammirazione. Oggi, purtroppo, in sala stampa c'è un po' di calo di livello».

- Quali sono i maestri che l'hanno formata e forgiata?

«Io fin da ragazzino leggevo tutto quello che potevo dei grandi reportage, non solo di ciclismo. Nel ciclismo, Orio Vergani, come letture, perché avevo quindici anni. Max David, il professor Piccard eccetera. Io cominciato con Bruno Roghi, direttore del Corriere dello Sport, ho lavorato con Giorgio Fattori, poi sono andato avanti per conto mio con Antonio Ghirelli, col quale avevo un raporto di intesa oserei dire carnale, se così si può dire».

- Che effetto le ha fatto vedere il Giro tornare a Sappada trentun anni dopo? E rispetto al ciclismo di allora come vede quello di oggi?

«Dipende. Se devo riferirmi al movimento, alla forza del movimento, oggi ha una forza che allora non aveva. Allora era proprio più artigianale nel vero senso della parola. Era più un fatto di passione e oggi è un fatto quasi industriale, di affari eccetera. Se si riferisce alle storie, la storia di Froome al Giro d'Italia è una storia di trent'anni fa, di sempre. Io stamattina ho cominciato un pezzo che uscirà su Bicisport dove dico che non c'è nessunissima differenza fra questa fuga meravigliosa di Froome, ottanta chilometri, e quella mattina del 1949 a Cuneo. Dopo dieci chilometri di tappa c'era un colle, il gruppo si era un po' allungato, Bartali era nelle ultime posizioni - perché Bartali era sempre lento a mettersi in moto - e in testa, sui tornanti, c'era Giovannino Corrieri, il suo gregario. Corrieri gli fece un fischio perché Coppi s'era messo in azione. Corrieri rimane stupefatto e fa un fischio a Bartali. Bartali cerca di recuperare ma non ci riesce, Coppi va via e viene fuori la famosa Cuneo-Pinerolo. Centonovantadue chilometri di fuga là. Ottanta chilometri di fuga qua. E l'uomo è sempre l'uomo. E il ciclismo è questo».

- "...e in attesa degli altri concorrenti trasmettiamo musica da ballo", disse alla radio Mario Ferretti. Un'ultima cosa sul doping, che prima mi citato quasi en passant. Mario Fossati diceva che se io mangio bene e tu mangi male, già quello è doping.

"Sì, certo, tutto quello che vuoi. Mi sembra una barzelleta, questa. Io ero molto amico di Mario Fossati. Gli piaceva ogni tanto...".

- ...il gusto della provocazione?

«Una provocazione: ecco, bravo. Lo faceva anche Eugenio Fascetti, quando allenava il Bari: un giocatore che si allena in un modo, uno in un altro... Non lo so, non mi convince un ragionamento di questo genere». 

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