Stephen Farrand: Roche un "guappo" coraggioso
di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©
Stephen Farrand, inglese di nascita e livornese di adozione, è European Editor di Cyclingnews e ha seguìto tutte le edizioni del Giro dal 1994 in poi. Ama l'Italia al punto d'averla scelta per viverci. Dilettante di modesto talento, sognava di fare come Stephen Roche - l'epitome del corridore anglosassone passato professionista dopo la gavetta nella "Legione straniera" della francese ACBB - e invece ha finito per emulare un altro ex pro' irlandese con quel curriculum: Paul Kimmage. Giornalista più per caso che per vocazione, è oggi fra i più competenti, autorevoli e rispettati suiveur della carovana. Lo incontro nel giorno della Milano-Sanremo stravinta da Vincenzo Nibali.
Sala stampa del Palafiori
Sanremo (Imperia), 17 marzo 2018
- Stephen Farrand, perché sei venuto a fare il giornalista di ciclismo in Italia? Avevi studiato qui?
«Mia cugina stava qui. Lei è insegnante di danza, io sono venuto qui in vacanza. Ero già ciclista, volevo smettere, in Gran Bretagna ero già geometra, in cantiere, però ero appassionato di ciclismo. Avevo ventitré-ventiquattro anni. Sono venuto qui in vacanza una settimana nel 1989, mi sono preso quattro mesi sabbatici nel ’90, nel '91 mi sono trasferito. Ho iniziato a scrivere a fine '93. Ho visto Bicisport, poi una delle mie fonti di ispirazione è stata il libro di Paul Kimmage [Rough Ride, nda]. Non ho detto: se scrive Kimmage, posso scrivere [anche] io. No. Però ho detto: ma perché no? Ci provo anch'io. Mancava gente in Italia per Cycling Weekly. Prima freelance, poi per dieci anni corrispondente. Nel 2011 è finito il fisso con Cycling Weekly, sono rientrato in Gran Bretagna per avere il posto fisso con Cyclingnews. Ho fatto un anno lì, poi sono andato fuori a fare un anno con Shift [Active Media], l'agenzia di Manolo [Bertocchi], ho fatto il Giro d’Italia con loro nel 2012. Al Tour di Wiggins, la prima volta di un inglese, io non c’ero. Ero fisso alla Shift invece di essere sulla gara… Il mio posto nell’agenzia di stampa, interessante, ho imparato cose nuove però... la sensazione di essere sulla notizia, no? Il mio vecchio posto si è liberato e mi sono rituffato...».
- Perché hai scelto la zona di Livorno?
«Perché lì c'era mia cugina. Ormai sono livornese...».
- Da un punto di vista anglosassone se ti dico Sappada, trentun anni dopo, cosa ti viene in mente?
«I ricordi della mia gioventù che leggevo su Cycling Weekly, su qualche giornale e poi qualche mensile. Anche mensili stranieri. La storia veniva raccontata dal punto di vista di Roche, ma anche di Robert Millar. Roche non avrebbe vinto [il Giro '87] senza Millar. Infatti, dopo sono stati stati compagni di squadra [alla Fagor]. Dovresti parlare con… lei, poi».
- Ma lei, Philippa (Pippa) York, parla? Perché, come Visentini, è a lungo sparita dal ciclismo.
«Adesso scrive per Cyclingnews. Daniel Benson [l'Editor in Chief, nda] l’ha incontrata, qualche volta».
- Anche Richard Moore, ma forse loro due non sono in buonissimi rapporti…
«No, perché a lei il libro di Richard [In Search of Robert Millar, nda] ha creato problemi. Io sono cresciuto con i corridori che andavano via dalla Gran Bretagna e andavano alla ACBB».
- La famosa “Legione straniera”…
«Io andavo in bici ma non ero un talento, zero contro cento rispetto a loro. Però sognavo di fare il loro stesso percorso: sopravvivere lì alla ACBB, poi passare professionista, poi correre. Era il sogno che tutti volevamo inseguire. Roche l’ha fatto, alla Peugeot. Come ha fatto Robert [Millar]. Come ha fatto Phil Anderson. Come hanno fatto altri».
- Yates, Peiper, Watson, Jones, Sherwen, Kimmage, Elliott, Boyer, Herety eccetera...
« Infatti. C’è un libro di Rupert Guinness [The Foreign Legion: Racing in Europe's Peloton, nda], che è bravo, che parla di quegli anni lì».
- Quindi dal punto di vista di un ragazzo inglese, che si è innamorato del ciclismo, a Sappada fu un tradimento o una scelta di corsa?
«Tradimento no. Per noi no. Era un atto di coraggio. Perché per fare così... Magari se guardavi i ritagli [di giornale] e sentivi tutte le voci, forse un po’ di tradimento c’era, però per noi era un atto di coraggio, perché Roche era da solo, dentro una squadra italiana, con tutti contro: gli sponsor, i compagni…».
- Tutti tranne il meccanico-tuttofare Valcke e il gregario Schepers…
«Sì, però quello è Roche, no? È intelligente, in corsa e a tavola, al ristorante. Al contrario di Visentini. Lui sapeva fare amicizie. C’è la famosa frase, nei libri di Roche: “Visentini diceva: tu mi aiuti al Giro e io ti aiuto al Tour”. Ma lui sapeva che Visentini aveva anche detto: no, io a luglio vado in vacanza. Non vado mica al Tour. Allora lui se l'è tenuta lì, l’ha sempre saputo. E poi io so che anche la squadra, dopo, ha voltato e gli è andata dietro…».
- Follow the money…
«Follow the money. Follow il successo, follow tutto. Il ciclismo è così. È andata così, però Roche... Ci vuole coraggio per attaccare, per rifiutare gli ordini della squadra in quel momento, andare contro i tifosi, andare contro la stampa italiana che “stimolava” i tifosi…».
- Parliamo di un ciclismo, di un’Italia e di un mondo molto diversi. Trent’anni fa non c’era il web, oggi abbiamo telecamere per tutta la corsa, allora in gara succedevano delle cose… A Roche hanno sputato, gli tiravano pezzi di carne come per dirgli ti facciamo a brandelli.
«Lui, con quelle gambine, sembrava "fragile come uno sparo" – come si dice in inglese [fragile like a bomb] – però era fortissimo, fisicamente ma anche di testa. Ha resistito a tutto questo. Io non so come ha fatto. Non so se un corridore oggi avrebbe la stessa forza di resistere. Però lui è emerso dall'Irlanda, in Francia e poi con la Carrera perché aveva quella sua forza interiore».
- Mi hai parlato del primo Roche, che arrivò alla Carrera nell’86 dopo la caduta del novembre '85 nella Sei Giorni di Parigi; poi l'86 pieno di infortuni, l’87 l’anno d’oro. Ma c’è un altro Roche, quello tornato in Carrera nel biennio ’92-93: tu qui puoi essermi d’aiuto perché eri già inviato.
«Non ho mai capito perché è voluto tornare alla Carrera, perché ha fatto - forse - un passo indietro. Non so se in squadra lo volevano veramente. Non c’era più Visentini, era un’altra Carrera, però forse lui ha voluto andare lì perché sapeva di altri benefici. Parliamo di Conconi e di Ferrara e tutto il resto. Il processo di Conconi: sappiamo tutti come è finita, con la sentenza del giudice [Franca] Oliva, tutto è finito in prescrizione. Conconi era una figura untouchable, quasi. Però il documento finale del giudice era una condanna morale. Io ne ho scritto. Sono andato a Ferrara qualche volta, ho seguìto il processo, ho visto alcuni documenti, i valori, le tabelle. Adesso si vede molto più facilmente, online, e ne ho scritto per Cycling Weekly. Non so se lui lo abbiamo contattato prima di pubblicare o dopo, però so che lui e i suoi avvocati hanno minacciato Cyclingnews di una causa legale e per diversi mesi non ci ha più parlato. A me dispiace, però i fatti di allora sono chiari. Gli anni '90, '91, '92, '93 sono stati l’inizio di qualcosa, e di anche triste per il ciclismo: la generazione EPO. Non so quanto ne sia stato coinvolto Roche in quell’epoca, perché la sua epoca era precedente. Forse tocca a Stephen a chiarire questo».
- Ma in corsa hai avuto la sensazione che fossero due Roche molto diversi, il primo e il secondo?
«Quegli anni lì non li ho seguiti come inviato, non lo conoscevo. Però considerando i problemi fisici, i problemi con gli sponsor, con la squadra, sì, erano diversi. Purtroppo l’apice di Roche fu nell’87, che era stato meraviglioso, tre vittorie così, chi l'ha più fatto? E chi lo farà più in futuro?».
- Mai dire mai. Dissero la stessa cosa di Merckx nel '74, invece tredici anni dopo è successo.
«Però quel successo - in modo anche subliminale, la sfortuna, la compensazione - fu con la carriera che era alla fine. Non so se fisicamente era alla fine però non è mai tornato come prima. Sì, era un altro».
- Eri ancora un ragazzo ma ricorderai la tappa di La Plagne al Tour ’87, con Roche che finì con l’ossigeno, svenuto. Oggi sarebbe possibile una Sappada, o anche una La Plagne, nel ciclismo dell’SRM, delle radioline, dei wattaggi?
«Penso di sì. Spero di sì. Magari in alcune squadre sono fissati con i watt. Il Team Sky, il controllo, no? Vogliono controllare tutto, però abbiamo visto adesso che Sky non riesce a controllare tutto, perché certe volte nel ciclismo non è come gli altri sport. Il ciclismo non è confinato in un campo di calcio. Non ci sono regole chiare. La gente parla con la stampa. C’è sempre una fuga di notizie. C’è sempre qualcosa che emerge. Io penso che né Sky né nessun'altra squadra può mai controllare un Giro d’Italia, un Giro di Francia. È il bello del ciclismo. Allora, sì: può succedere. Perché poi le nazioni sono comunque legate ai loro corridori, l’Italia con i corridori italiani, i francesi come abbiamo visto… E anche i tifosi inglesi con Sky. Quindi ci sono tanti che tifano contro Sky ma c’è anche una massa di tifosi che credono ancora in Sky. Allora, magari fra uno-due-tre anni, ci saranno ancora i francesi che tornano contro Froome, il Froome botte (il dare addosso a Froome, nda), che vogliono più un ciclismo come quello di anni fa. E se un corridore è disposto a dare tutto per vincere, nel bene e nel male... Perché un Bardet non potrebbe fare una cosa simile a quella che Roche ha fatto a La Plagne?».
- I ruoli di Boifava e Brailsford, la Carrera e il Team Sky con trent’anni di differenza: tu lo vedi questo confronto? È proponibile un parallelo?
«Sì, perché dietro c’erano grandi sponsor e forse un grande proprietà che vuole vincere, vuole dominare, no?».
- Sì, e mi riferivo anche nel loro essere all’avanguardia per scelta dei materiali, dei migliori corridori sul mercato internazionale, l'avere tanti corridori che sarebbero capitani ovunque.
«Sì, infatti Brailsford è più businessman, no? C’è più operatività. Boifava era forse una ciclisticamente più intelligente, perché per fare quello che ha fatto con la Carrera - mettere insieme quei corridori e vincere, e decidere di seguire Roche invece di Visentini - ci vuole intelligenza. E Boifava ce l’aveva. Brailsford forse non ha la stessa intelligenza ciclistica, quindi sono diversi. Ma i motivi, la struttura con gli sponsor, sono simili».
- Invece dal punto di vista “romantico”, ti senti più vicino a Visentini o apprezzi più il coraggio di Roche? Da che parte stai?
«Da ragazzino stavo da quella di Roche, però - con il tempo - mi dispiace per Visentini. Qualche volta ci ho parlato al telefono e diversi anni fa ha rifiutato di fare un’intervista con me. Poco tempo fa ho letto un’intervista e si sente che lui soffre ancora, si sente ancora tradito. Se lui sente questo tradimento, dopo trent’anni, è una cosa tremenda, che nessuno dovrebbe soffrire. Allora sto anche dalla parte di Visentini, perché, dico la verità, Roche non è che mi stia tanto simpatico. Non so, per tanti motivi, personali… Gli anni Novanta con Ferrari. Non so, per tanti motivi, lo vedo più… Per me è un personaggio un po’ “guappo”. Non lo conosco bene per dialogare con lui. Un piccolo aneddoto: eravamo al Tour, qualche fa [nel 2013, nda], e c’era la fila per la navetta, per andare all’arrivo in Corsica. E lui era lì con Skoda, lo sponsor, però c’era anche la stampa e tutti eravamo in fila, aspettando i posti. E lui ha provato a saltare la fila con i suoi ospiti».
- Più italiano di noi italiani? [rido…] Un reato di lesa maestà.
«Io, che sono anch’io “italiano”, non ho avuto paura di dire: “Oh, Stephen, qui c’è la fila!”. E mi ha guardato malissimo. Però lui è così. Era così nell’87, è ancora così adesso».
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