Philippe Brunel, «dalla parte del ciclismo»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Sala stampa Palafiori
Sanremo (Imperia), sabato 17 marzo 2018

- Philippe Brunel, nel 1987 avevi ventun anni e sei stato testimone di un Giro storico. Se ti dico “Sappada”, che cosa ti viene in mente?

«Mi viene in mente la trahison, come si dice in francese, tra Roche e Visentini. L’attacco di Roche in discesa e, dietro, Visentini, suo partner della Carrera in maglia rosa, che tira, che fa l’andatura per riprendere Roche: un momento, più che di crisi, di divisione dentro una squadra con due dei più grandi corridori del tempo». 

- Vista da un osservatore francese, che cosa successe in quella tappa?

«Roche ha tradito anche gli ordini del suo direttore sportivo Boifava, che cercava di far vincere Visentini, perché anche il patron della Carrera, Tacchella, voleva che un italiano vincesse quel Giro, perché sul piano commercial penso che era più forte, più interessante per lui. Roche era un corridore di grande classe, lui aveva sentito che si doveva mettere à la disposition di Visentini al Giro d’Italia, ma Visentini prima del Giro mi ricordo che aveva detto “io in luglio vado in vacanza”, vuol dire che Roche non avrebbe avuto l’aiuto di Visentini durante il Tour de France e dopo Stephen ha sempre detto che questa frase l’aveva innervosito. E dunque non sentiva che Visentini era un corridore molto leale. E dunque, da quel momento, penso che ha fatto la sua gara per vincere il Giro d’Italia, senza preoccuparsi delle consignes».

- Secondo te è stata un’azione nata in corsa o Stephen Roche l’ha preparata prima, assieme al suo gregario Eddy Schepers?

«Penso sia stata un poco préméditée, perché Roche ha raccontato che prima di quella tappa di Sappada c’era stata la crono di San Marino e Visentini era in macchina e Roche ha fatto il percorso, si allenava sul percorso per vedere che necessitava questo percorso e dopo Visentini ha usato tutti gli insegnamenti di Roche e già Roche non ha capito questo, perché dopo anche Visentini ha vinto questa crono. E Roche è lui che si è sentito tradito in questo da Visentini e ha detto “lui ha approfittato di tutto quello che gli ho detto” e dunque da quel momento c’era già la divisione. E Roche ha fatto tutto per vincere il Giro d’Italia senza più preoccuparsi di Visentini».

- Può succedere una Sappada nel ciclismo di oggi? E perché ancora oggi, dopo trent’anni, ancora se ne parla? Qual è il ver motivo?

«Perché profondamente il ciclismo è un affare di umanità. Tra i corridori sono rapporti di stima, di rispetto, anche di gelosia, d’invidia. E sono cose che sono già arrivate nel ciclismo, da Coppi e Bartali a Hinault e Greg LeMond. Sono cose che possono arrivare perché sono due grandi capifila nella stessa squadra. Io mi ricordo anche De Vlaeminck e Moser in una Parigi-Roubaix. Era il primo che attaccava che vinceva. È sempre stato così, è normale».

- Che ricordi hai invece del Roche giovane, che emigrò dall’Irlanda alla Francia per correre da dilettante nella ACBB?

«Era un corridore veramente lui aveva una classe “cristallina”, come si dice in Italia, una classe folle, vinceva facilmente. Aveva anche uno stile in bicicletta. Si vedeva anche a vista che lui era un corridore. Non andava fortissimo in salita, anche se lui aveva vinto, prima di quel Giro d’Italia, nell’85 all’Aubisque e fece terzo in quel Tour, dietro Hinault e Lemond. Diciamo che al di là dei millecinquecento metri di altitudine era un po’ “giusto” in montagna ma sennò era un corridore completo, che andava bene anche nelle classiche. Un corridore un po’ alla Nibali di oggi».

- E nel pantheon, tu che in Francia hai potuto ammirare – come storia – un Anquetil, un Hinault, come collochi Roche tra i grandi?

«Roche è un po’ particolare perché è l’uomo di un anno. L’87 è stato il suo anno, un corridore che è un po’ – come diceva Andy Warhol – ha avuto il suo momento. Lo vedo un po’ così, ha concentrato tutta la sua qualità tra maggio e settembre dell’87. Roche è stato un grande corridore e anche un enigma. Diciamo così perché alla fine non ha più rifatto quasi niente dopo».

- E invece di Visentini come corridore, come personaggio, che ricordi hai?

«Un uomo molto delicato, educato, molto “italiano”, perché quando è venuto al Tour de France, veniva senza convinzione. Lui era un corridore proprio italiano, gli interessava – penso – solo il Giro d’Italia. L’aveva vinto l’anno prima in confronto di Greg LeMond, era un corridore all’altezza di Roche, è per quello che la vicenda di Sappada ha preso una forza brutale che la gente si ricorda perché Visentini era un corridore che avrebbe potuto vincere più di un Giro d’Italia».

- È vero che, paradossalmente, Visentini era più adatto al Tour che al Giro, per come era il Tour all’epoca?

«Non lo so. È venuto al Tour, ma guardate Gilberto Simoni, un altro grande corridore italiano, non andava tanto bene, non era all’altezza del Tour, perché il Tour c’è il caldo, è a luglio, sono salite diverse, penso salite meno dure. Visentini aveva fatto piuttosto bene al Giro d’Italia, la vicenda [di sappada] ha segnato perché si correva in Italia, con un campione italiano dentro una squadra italiana. È questo che ha fatto un po’ insorgere».

- In quella squadra c’erano anche personaggi non italiani, come Eddy Schepers e Patrick Valcke, che tu in Francia hai conosciuto bene: che cosa mi puoi dire di loro?

«Hanno formato il “clan Roche”, e dunque è quello che Visentini non ha capito: che non poteva vincere un Giro d’Italia senza una squadra, dal momento che non ha più un rapporto con Roche, non ha più un rapporto anche con Patrick Valcke, che faceva il meccanico, e con Schepers che era sempre vicino a Roche, perché Roche dopo Sappada ha avuto paura anche della caduta, andava nel gruppo vicino alle moto della polizia perché aveva paura di un attentato, di un tifoso che era molto aggressivo con lui. Me l’ha detto che gli lanciavano anche le pietre. C’era un brutto clima».

- In Francia c’erano anche degli alleati di Roche, penso a Bagot, oppure la rivalità con Jeff Bernard. Come vedevi il ciclismo francese dell’epoca, subito dopo il ritiro di Hinault?

«Ha avuto un crollo. Jean-François Bernard era quello che normalmente doveva assumere un po’ l’héritage di Bernard Hinault. Ha un po’ fallito, il perché non si sa. Ha fatto un grande Giro d’Italia quando c’è stata la neve al Gavia, Jean-François Bernard era lì al massimo della sua carriera, dopo non lo so, non aveva la forza mentale, nervosa… Non aveva la forza per sostenere il ruolo di campione, una virtù che fa la differenza tra i grandi».

- Bagot invece era un alleato di Roche, l’anno dopo era con lui alla Fagor. Mi racconti dei problemi con Pierre Bazzo, con Valcke? Che ricordi hai di quella squadra spagnola ma con anche tanta Francia?

«Roche in Francia è sempre stato considerato come un irlandese, non è un rappresentante del ciclismo francese. Era un campione molto a parte, un po’ individualista ma di grande classe in bicicletta. Lo vediamo così».

- Hai detto che per te fu tradimento, allora ti chiedo da che parte stai?

«Dalla parte del ciclismo. Come giornalista, non prendo mai parte. Sono lì per scrivere, per osservare un po’ le situazioni, ma io sono sempre dalla parte del ciclismo. Il ciclismo è una grande cosa. È lui che deve vincere sempre».

- Quella Carrera, che era una delle poche squadre italiane che veniva al Tour de France, era una squadra all’avanguardia per materiali, per i corridori stranieri, per i trasferimenti, era una specie di Team Sky con trent’anni di anticipo?

«È complicato per me rispondere. È un come la Sky di oggi, una squadra all’avanguardia su tutti i piani, ma l’epoca era diversa. Era già un po’ l’inizio di un ciclismo un po’ esasperato sul piano del doping, dunque diciamo che dopo questo episodio tra Roche e Visentini non annuncia, ma dopo questo episodio il ciclismo è entrato in un periodo molto oscuro della sua vita».

- E in questo ciclismo c’è ancora posto per un Visentini? Per esempio la Francia tornerà a vincere il Tour, magari con Bardet? 

«Dipende se la Sky sarà presente o no. Vediamo, siamo lì per vederlo. Io non immagino mai le cose. Sono lì per vederle, per raccontarle. Non per immaginare».

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