Guido Bontempi - Il Ciclone



di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports books ©

«Bontempi ne stende cinquanta» titolò a nove colonne la Gazzetta dello Sport martedì 2 giugno 1987, l’indomani della maxi-caduta di Termoli al Giro che lo aveva visto andar giù per (incolpevole) primo di una pila di velocisti. “Guidone” s’infuriò di brutto («non sono un bandito»), anche se la sua presunta presa per il collo al compianto Candido Cannavò, già direttore della “Rosea”, non trova riscontri né testimoni e pare una tipica guasconata del Bontempi-personaggio. 

La spiazzante sincerità del Bontempi-persona però meritava un viaggio a casa sua («occhio agli autovelox», mi avverte via whatsapp) e nei suoi ricordi, invero qua e là non sempre precisissimi. Il suo ex diesse Davide Boifava, per esempio, da “Cardinale”, com’era noto in squadra e in carovana, lui lo retrocede a “Vescovo”; e Cannavò la Gazza la dirigeva già dall’83, qualche data quindi non torna, e non solo quella. A volte l’aneddoto gustoso sembra buttato lì più che altro per stupire e suona pure un po’ romanzato. La sostanza però c’è. E tanta. Quasi quanto quella dello sprinter-passistone, del diesse poi e infine del moto-regolatore di giuria.

Gussaghese di Ronco, classe 1960, bresciano che più bresciano non si può, Guido Bontempi è stato un corridore-simbolo dei ruggenti anni Ottanta-Novanta. E che corridore. Gregario di stampo antico e insieme velocista moderno, a volte anche nella stessa corsa, ha saputo essere sia scudiero di capitani “amici” come Battaglin e Visentini sia professionista di ventura al soldo (poi non sempre arrivato) dei mai amati Chiappucci e Roche. E alla bisogna persino sindacalista della squadra e/o del gruppo. Non deve essere stato facile andargli subito a genio, o anche solo andarci d’accordo. Qualche burba deve anche avergli pagato in un certo nonnismo il proprio noviziato, ma erano altri tempi e un altro ciclismo. E poi “Guidone”, ammettiamolo, ha un pregio raro: quello di non nascondersi. Appassionato di moto sin da corridore, dal 2014 è rientrato in gruppo come uno dei più apprezzati ed esperti regolatori delle corse Rcs. Di tutti, proprio lui. E adesso fa in modo che nessun "bontempi" ne stenda cinquanta.

Ronco, frazione di Gussago (Brescia), giovedì 1° febbraio 2018

- Guido Bontempi, per i più giovani o chi non ti ha mai visto correre: che gran corridore sei stato? Giudizio mio, eh...

«Bah, “gran corridore” è il giudizio tuo. Son alto 1,86… Poi diciamo che giudizi su di me non li do. Son sempre gli altri che danno un giudizio: se son stato o no un bravo corridore, simpatico o non simpatico, lo decideranno gli altri. Io ho cercato di massimizzare quello che avevo, dalla forza all’età, alla testa, alle amicizie, per ottenere quello che volevo ottenere. E per arrivare dove volevo arrivare».

- “Ciclone” Bontempi però dice tanto, come soprannome.

«Beh, sì. Dice tanto perché, rispetto al modo di correre di una volta, il modo di correre ai tempi moderni è molto cambiato. Perciò mi piacerebbe vedere molti di questi corridori nuovi, giovani, correre come ai tempi correvamo noi».

- Come correvate voi, trent’anni fa?

«Noi, trent’anni fa, eravamo quindici corridori, in squadra. Dieci andavano al Giro, dieci al Tour, sette erano sempre quelli, ne cambiavano solo tre. E in una squadra di dieci, quattro o cinque erano con il capitano, che doveva far classifica, due facevano le volate e uno era di scorta sia per le volate sia per di là. Perciò le squadre non venivano fatte solo per un corridore, come invece succede adesso, o solo per i velocisti, come succede in una squadra che viene fatta solo per vincere cinque o sei tappe. Noi, quando era il giorno di tirare e c’erano le salite, tiravamo per il leader della classifica, quando c’era il “tempo libero” si facevano anche le volate, perciò chi aveva la forza poteva fare qualcosina in più».

- Ti viene in mente un corridore di oggi che fa quello che facevate voi allora? Ti butto lì un nome, Michał Kwiatkowski.

«Kwiatkowski sì, fa un po’ di tutto. Sì, è veloce, può far la sua corsa, fa…».

- …l’ultimo dei gregari al Tour, ha vinto un mondiale, la Strade Bianche, la Sanremo in volata su Peter Sagan…

«Esatto. L’ultimo è questo qui. Certe volte, non sempre, lo fa anche Sagan. Kwiatkowski però può essere… un corridore degli anni Ottanta».

- Hai parlato di squadre, tu però correvi in una signora squadra.

«Noi eravamo in una signora squadra, però al confronto dei trenta corridori che le squadre hanno adesso, noi eravamo in quindici o non arrivavamo a venti. E alle corse andavamo sempre in nove, dieci corridori, perciò la doppia attività la facevamo poco. Anche perché non c’erano molte “doppie attività”. Tranne la Tirreno-Adriatico con la Parigi-Nizza, facevamo un’attività unica».

- Mi racconti di quella Carrera, uno squadrone forse anche avanti ai suoi tempi?

«Alla Carrera in quegli anni c’era uno zoccolo abbastanza coeso. A differenza di adesso non c’erano le radioline, non c’era tanta tecnologia, però eravamo molto ben amalgamati, eravamo molto amici e con molti di questi lo siamo rimasti. Ci troviamo ancora, o ci sentiamo per telefono, ci vediamo d’inverno. Eravamo un bel gruppo. Poi ogni tanto veniva inserito qualcuno di nuovo o, viceversa, qualcuno andava via».

- A contribuire ad amalgamare quel gruppo era anche il fatto che eravate un po’ tutti di qui, del Bresciano e dintorni? O questo ha inciso fino a un certo punto?

«Mah, ha inciso fino a un certo punto. Perché poi c’erano Erich Mächler, Beat Breu e Urs Zimmermann che eran svizzeri, Stephen Roche che viveva a Parigi o in Irlanda, Eddy Schepers che abitava in Belgio, Jǿrgen Pedersen in Danimarca. Però facevamo sempre base sul lago di Garda. Da casa mia al lago di Garda son cinquanta chilometri. Bruno Leali è del lago di Garda. Massimo Ghirotto in sessanta-settanta chilometri arrivava al lago di Garda. Giancarlo Perini, di Piacenza, arrivava al lago di Garda. Enrico Zaina è qui di Brescia. Mario Chiesa è di Brescia. Fabio Bordonali è qui. Roberto Visentini è del lago di Garda. Eravamo tutti qua. E forse l’unico “merito” che avevamo è che parlavamo tutti la stessa lingua. Parlavamo solo in dialetto».

- E quindi questo è stato un fattore aggregante, no?

«È stato forse anche per quello, perché riuscivamo a esprimerci meglio. O a comunicare meglio tra di noi. Abbiamo avuto anche degli stranieri, e se volevano stare con noi, dovevano adeguarsi. Volodymyr (Vladimir) Pulnikov abitava qui, a Rovato. Beppe Martinelli è di Rovato, Sandro Quintarelli è di Verona. Eravamo tutti veneto-lombardi, e la Carrera era veneta, perciò eravamo tutti della zona. L’amministratore Gianfranco Belleri abita qui a Ome, a cinque chilometri da casa mia. Eravamo tutti in zona e così finivamo sempre a parlare tutti in dialetto».

- C’è qualcuno che magari all’inizio, anche per via della lingua, ha faticato ad ambientarsi? Ti faccio un nome: Patrick Valcke.

«Valcke è entrato come meccanico, poi lui seguiva Roche. Io ho avuto un buon rapporto anche con lui. Ho fatto degli anni in cui, dopo il Tour, rimanevo in Belgio per andare a fare i circuiti e dormivo a casa sua. Mi accompagnava lui, perciò io con Valcke non ho avuto problemi. Poi nella vita ci sono delle scelte. Uno segue una via. Uno segue l’autostrada, uno sceglie una via di campagna… E poi ognuno dà quello che può, segue dove vuole seguire o le persone che vuol seguire».

- La Carrera andava a prendere tanti corridori stranieri. Roche fa terzo al Tour ’85 e Boifava va a prenderselo per l’anno dopo. Non era così una consuetudine per le altre grandi squadre italiane dell’epoca, no?

«In quegli anni la Carrera voleva espandere – o almeno, voci… – il suo mercato e prendere uno o due corridori per nazione. Se guardi: avevamo un colombiano (Henry Cárdenas, nda), uno spagnolo, due svizzeri, un belga, un irlandese, un tedesco non mi ricordo se c’era, però avevamo Zimmermann che era della Svizzera tedesca ed era più tedesco che svizzero. E poi c’eravamo noi italiani. Perciò già allora [la Carrera] voleva un corridore per nazione. Noi eravamo molto collegati con il rappresentante della Carrera Benelux, che abitava in Belgio e aveva l’ufficio in Lussemburgo, perciò eravamo sempre in contatto con loro. Ecco perché era cominciata già allora l’internazionalizzazione del marchio, e loro [i patron Tacchella, nda] volevano un corridore per nazione. Poi ad amalgamarci ci siamo arrangiati da soli». 

- Questo perché lo sponsor, la Carrera Jeans, era un’azienda atipica rispetto agli altri marchi italiani presenti nel ciclismo dell’epoca? Penso per esempio ai tanti mobilifici, Del Tongo, Famcucine, Scic. Penso a Scibilia, patron della Gis, che diceva: «Per me il Giro di Puglia è più importante del Tour de France». La Carrera aveva un’altra visione, altri mercati...

«Del Tongo vendeva in Italia, Carrera vendeva in Europa. Almeno, quando correvamo noi c’era solo l’Europa. Ogni tanto facevi una scappatina in America perché c’era una corsa particolare. Come a Montreal, quando siamo andati in Canada. Oppure andavi in Messico perché c’era l’amico dell’amico, [Luigi] Casola, che ci chiamava per andare in Messico e andavi in Messico. Però il nostro ciclismo era in Europa». 

- La Carrera era avanti per tante cose, per esempio è stata la seconda squadra italiana ad avere il pullman per i corridori, dopo quella di Stanga che l’aveva preso usato dalla PDM. 

«La prima squadra ad avere il pullman è stata la Mercatone Uno-Saeco. Alla Carrera, finché c’ero io, cioè fino al ’93, non c’era. Eravamo sempre con le macchine, coi furgoni. Non c’era. Nel ’94, quando sono andato alla Gewiss, avevamo un bus di sei-sette posti, ma non era un pullman, era un ibrido».

- Un van?

«No, ci voleva sempre la patente C. Era sempre grosso, era come quello che Bruno Reverberi ha avuto fino a sei-sette anni fa. Come il van della Gazzetta, era un van così. Era un bus».

- Anche dal punto di vista organizzativo Boifava è sempre stato all’avanguardia, cercava di trovarvi gli alberghi migliori, facevo in modo di rendervi i trasferimenti il più possibile agevoli.

«Gli alberghi li dava sempre l’organizzatore, perciò prendevamo quelli. Eravamo molto più avanti invece come materiali, come abbigliamento ciclistico. Perché noi per sette-otto anni abbiamo usato Descente. La Descente vestiva una squadra per nazione». 

- Per scelta aziendale?

«Una squadra per nazione. Perciò noi abbiamo avuto per sei-sette anni materiale Descente che era all’avanguardia. E il nome Descente, ancora adesso, è all’avanguardia in tutti i settori». 

- Eravate all’avanguardia anche nel look. È vero che hanno fatto scegliere a voi le divise?

«Siamo andati in un negozio Carrera a Verona e ognuno prendeva quello che voleva in base ai suoi gusti. L’abbigliamento “da riposo”, in albergo, era più o meno uguale per tutti. Per quello di rappresentanza, ognuno sceglieva l’abbigliamento che voleva, basta che fosse Carrera. Non era abbigliamento che usciva dall’azienda. Dovevamo andare in negozio. Siamo andati tutti in un negozio in piazza Bra a Verona e abbiamo scelto ognuno il suo capo di abbigliamento, per tutti uno diverso dall’altro». 

- Per appassionati e collezionisti quella della Carrera è una maglia ancora oggi mitica. Claudio Chiappucci mi ha detto: la nostra era una vera “maglia”, non era un giornale. Intendeva dire che con quei colori, con quell’unico marchio, e non un patchwork di piccoli sponsor, oltre che bella era immediatamente riconoscibile...

«C’era solo il marchio Carrera. [prima era Carrera-Inoxpran, nda] Dopo sono venuti Carrera-Vagabond, Carrera-Tassoni. [infine, nel 1996, Carrera-Longoni Sport, nda] C’era solo un marchio».

- E quei pantaloncini tipo-blue jeans…

«I pantaloncini di jeans erano stati fatti dalla Descente, i primi anni; poi per diversi anni abbiamo corso con un marchio italiano ma siccome quell’azienda era nata da poco, il materiale era sempre Descente, marcato però in Italia».

- Dal punto di vista del budget, com’era la forbice tra la Carrera e le squadre medio-piccole, sapresti quantificarla? Eravate così avanti rispetto alle altre?

«Questo non lo so. Noi prendevamo anche molto di premi, perché alle corse c’eravamo sempre. Quantificarla, non saprei, anche perché allora c’era la lira. C’era anche un modo diverso di prendere i soldi, di tutto. Adesso squadre italiane ce ne son poche, son tutte all’estero. Diciamo che io con la squadra Carrera e con qualche squadra che ho seguìto dopo, con la legge che c’è ancora attuale, son andato in pensione».

- Quali erano le altre squadre del livello della Carrera? E ce n’era qualcuna di livello superiore?

«In Italia, più o meno [allo stesso livello], c’erano l’Ariostea e quella di Gianluigi Stanga [Supermercati Brianzoli, poi Château d’Ax, Gatorade, Polti, nda]. All’estero c’erano la Panasonic, la Système U di Cyrille Guimard con Laurent Fignon e tutta la banda francese, in Spagna c’era la Kelme, non eravamo tantissime squadre. Poi c’era la PDM, che in pratica era la Philips. Erano quelle le potenze dell’epoca. Poi c’era l’Hitachi di Claude Criquielion. Eravamo una decina di squadre. E possiamo dire che essere nelle dieci-dodici squadre in Europa era, in sostanza, come essere nel Pro Tour adesso».

- Si può dire che all’epoca non c’era una Team Sky che si staccava tanto dalle altre, come invece succede oggi? La forbice era meno allargata?

«La forbice era meno allargata, sì. Perché lottavamo sempre. Quando facevamo le cronometro a squadre, per tre quattro anni abbiamo lottato anche al Tour. Erano tutte sempre lì, due, tre, quattro secondi, non minuti come fanno adesso. C’è da dire che anche i materiali che c’erano allora, c’era solo quel materiale e quello era per tutti. Adesso invece c’è più tecnologia, più ricerca, più tante cose».

- Nella cronosquadre al Giro ’87 avete dato una bella batosta a tutti. E quell’anno avete vinto anche quella del Tour.

«Lì al Giro, sì, perché abbiamo sovvertito non l’ordine ma la decisione della squadra di partire con una certa conformazione di bici. Invece in due o tre abbiamo deciso di cambiare la conformazione delle bici e delle ruote. E se vai a veder le fotografie, su nove corridori, sei-sette avevamo tutte e due le ruote lenticolari. Da La Spezia, dopo che eravamo partiti, adesso non ricordo più la salita che abbiam fatto, siamo scesi nel prender la Versilia e il vento era a favore perciò andavamo molto di più degli altri».

- Tu eri uno di quei due-tre?

«Sì. Io l’avevo provata però bisognava anche essere abbastanza pesanti. Perché se trovavi la ventata, ti portava via la bici da sotto. Perciò il vantaggio non era la ruota dietro ma quella davanti».

- Com’era il percorso della cronosquadre al Giro ’87, 43 km da Lerici a Lido di Camaiore?

«Partiva da [vicino] Sarzana, mi sembra, poi andavamo già in Versilia, andavamo a Camaiore, attraversavamo Camaiore e ritornavamo indietro. Su nove corridori, non vorrei dire sette, siam partiti con le due ruote lenticolari, mentre le altre squadre sono partite solo con una. Quasi tutti avevamo la doppia ruota lenticolare. Visentini ce l’ha, Cassani ce l’ha. Mächler e Ghirotto sì».

- Alcuni di voi avevano il casco. Visentini no, tanto per cambiare… 

«Qualcuno lo metteva, qualcun altro no. Io ho sempre lottato per il no, perciò… Quasi tutti avevamo le ruote lenticolari. E questo è stato il nostro vantaggio. Siamo saliti senza strafare, adesso non ricordo più come si chiamava la salita che abbiam fatto subito, pronti-via. Abbiam fatto la discesa “normali”, perché in discesa con le ruote così non era tanto… per chi non era pratico. E poi, quando ci siam messi in pianura, in pratica restando a ruota non pedalavi mai».

- E invece la cronodiscesa del Poggio, subito dopo il prologo di Sanremo? Torriani la cronodiscesa l’ha messa solo in quel Giro lì, nell’87, poi l’ha abbandonata. Il figlio Gianni mi ha detto che era ritenuta era troppa pericolosa, e il gioco non valeva la candela. Lì però Roche è andato giù con la bici normale.

«Io invece l’ho fatta con la bici da cronometro, perché era l’impostazione, per me, più consona. Poi avevo anche chiesto di avere delle ruote… di avere qualcosa… ma la squadra mi ha detto no, se vuoi corri così, o è così. E allora… son andato così. E dopo, quando ti dicono o vai così o vai così, non è che ti impegni neanche più di tanto».

- Ah sì?

«Eh sì. O credi in una cosa o non ci credi». [sorride amaro, nda]

- Tu invece ci credevi. E perché la bici l’avevi chiesta “così”?

«Perché sapevo come volevo andare. Perché in discesa mi avrebbe aiutato. Quello che perdevo magari in curva, lo recuperavo sul rettilineo».

- E perché la squadra ti ha detto no?

«Decisioni della squadra».

- Dai, togliamoci il dente. Perché trent’anni dopo ne parliamo ancora, di quella parolina magica: Sappada? 

«Ah, non lo so, siete voi che…».

- Sempre colpa dei giornalisti? Magari abbiamo ingigantito noi il tutto…

«Ingigantito no, io so che quando abbiam fatto la festa [per il trentennale della doppietta Giro-Tour ’87, il 30 settembre 2017 a Caldiero, nda]…

- C’eran quasi tutti tranne…

«Tutti tranne [Visentini]… E anch’io non dovevo andare. Perché non era stata ideata così, quella festa lì…».

- C’era anche tanta gente che c’entrava poco o niente…

«Non è uscita come quella che doveva essere. Quando son salito sul palco, ho trovato Imerio [Tacchella] e gli ho detto: Ma quella storia lì non è uguale a quella che avete raccontato voi oggi… M’ha detto: “Tasi!” [Taci, in dialetto veneto, nda]».

- E allora questa è la tua occasione per dirmi com’è andata veramente…

«L’idea della festa era nata da Jørgen Pedersen. Pedersen ha chiamato i sette-otto corridori che hanno fatto sia il Giro sia il Tour e ha detto: facciamo una festa solo noi, così ci ritroviamo tutti. Ho detto: va bè, se è solo per noi, così…».

- E quindi l’idea era di una festa solo tra voi corridori, era nata così?

«No, era nata solo per noi corridori e per il personale che c’era in tutte e due le trasferte. Ho detto: va bè, facciamo tra di noi, tanto per fare una chiacchierata, ci troviamo, ci spostiamo…».

- Anche perché è bello, no?

«È bello, così. E invece poi è andata che la Carrera e Davide [Boifava] hanno preso il sacco, come diciamo noi, e l’hanno messo sopra. L’hanno fatta diventare loro, e alla fine hanno fatto una festa per Roche e Chiappucci…».

- Perché, erano i due nomi di spicco?

«Chiappucci [al Tour] non c’era, prima cosa: e già doveva essere eliminato. Doveva essere solo [un cosa] tra di noi, invece poi alla fine hanno fatto che sul palco han chiamato solo Roche. Hanno fatto un monologo Roche e Chiappucci e tutti gli altri son stati lì a far le comparse».

- E a te ’sta cosa ha scocciato un po’?

«Molto. E ti ripeto: Ghirotto, Mächler e chi non è venuto hanno fatto bene a non venire».

- E chi non è venuto? Il Ghiro, Mächler e poi?

«Il Ghiro, Mächler e ancora qualcuno mi sembra. Visentini, Perini. Visentini credo sarebbe venuto se…».

- Se era solo una cosa tra di voi?

«Io penso di sì. Perché era tra di noi, era una cosa ristretta e tutto il resto…».

- Però sapendo che c’era Roche non sarebbe mai venuto, vero?

«Chi lo sa? Però se io so che è una cosa tra di noi, ristretta, è un conto. Se io devo andare a fare lo scendiletto delle persone con cui attualmente ancora non vado molto d’accordo, faccio come minerva. Minerva: lo tiri, si accende una volta poi non vien più. Adesso ogni volta che mi chiameranno non ci andrò mai più».

- Perché, la festa è diventata una specie di vetrina per la Carrera?

«No, non era una vetrina. Roche, con noi, quando ha vinto il Tour, non si è comportato bene».

- Nel senso dei premi?

«Si è tenuto tutti i premi. Chiappucci, quando ha vinto la Sanremo, si è tenuto tutti i premi. Perché? Non li ha divisi e la società gli dà anche ragione».

- Perché la società prende le parti di questo e di quello? 

«Perché la società prende sempre la parte del più forte, di quello che vince».

- Perché sta con chi le dà visibilità? E invece chi magari s’è fatto il mazzo, ciao?

«Ciao, però ha perso anche il Tour. Allora?».

- “Ha perso il Tour”: che cosa vuoi dire?

«Ah, lui ha perso un Tour, no? Quando ha vinto la Sanremo, Chiappucci?».

- Nel 1991.

«E quando ha perso il Tour?».

- Nel 1990 fu secondo dietro LeMond, nel 1991 terzo dietro Indurain e Bugno, nel 1992 ancora secondo ma dietro Indurain…

«Uno più uno? Il dottor Giovanni Falai [storico medico dei ciclisti, nda] diceva che uno più uno in matematica è due ma tante volte fa tre, quattro, cinque. E lui [Chiappucci] ha pagato quello che la società ha fatto verso i nostri confronti».

- Tra l’altro rimettendoci parecchio, perché vincendo il Tour quei soldi gli sarebbero ritornati con gli interessi...

«E non solo quello. Ha sbagliato due o tre passaggi. A buon intenditor… Li ha pagati tutti. Non è nella lista di quelli che han vinto il Tour».

- E neanche del mondiale.

«E neanche del mondiale. E neanche di tante altre corse. Alla fine la gavetta la paghi. E Roche, anche lui, quell’anno… Fino agli anni Novanta [in realtà fino al 1988, nda] chi vinceva il Tour aveva un appartamento a Merlin-Plage. [1] Poi noi avevamo vinto cinque-sei tappe, vinto cinque-sei macchine, lui le ha vendute…».

- E s’è tenuto la grana?

«No, ma ne è arrivata meno della metà. E io ogni tanto glieli chiedo. Quando lo vedo, glieli chiedo. Sono miei».

- E lui?

«Lui dice: “Eh, ormai gli anni son passati”. Ah be’, oh: io intanto te li chiedo…».

- Glieli chiedi a entrambi?

«No, al Chiappa no: non abbiam mai avuto feeling».

- Il fatto che magari non vi prendevate è più una cosa caratteriale o di ciclismo?

«No, come ho detto qui [nell’autobiografia di Chiappucci, El Diablo, scritta con Beppe Conti, nda], lui con noi non si è mai integrato».

- Questo perché era un cavallo pazzo, un po’ ingestibile?

«Lui è entrato subito facendo… non stando un po’ non dico alle regole però… neanche stando tanto al suo posto, poi ha trovato chi gli dava corda… E magari faceva la riunione, diceva una cosa, poi abbiamo scoperto che usciva e a lui ne diceva un’altra. E allora ha pagato anche tutte… Ha fatto disfare tutto il gruppo che c’era, però dopo s’è anche visto dove è andato».

- Cioè: i risultati?

«Sì».

- Di Roche e Visentini che cosa mi racconti di quella tappa di Sappada ’87? Intanto: tu…?

«Io inseguivo. Io ero dietro che inseguivo. So che dopo loro… Roche aveva attaccato nella discesa verso Sappada. E non doveva farlo, perché eravamo tutti per il Giro, eravamo con Visentini e per il Tour saremmo andati tutti con Roche. Perciò dopo è saltato fuori tutto il casino, l’ambaradan… La sera sono arrivati i tre fratelli [Tacchella], tutti e tre. Noi eravamo di qua, i tre fratelli di là».

- C’era una riunione oppure voi corridori eravate ciascuno nella vostra stanza?

«No, no, no. In riunione. Ci han fatto una riunione dopocena. Ha parlato solo Imerio, che era quello che non si vedeva mai, il biondo. Chi veniva [alle corse] era Tito. Poi c’era l’altro, Domenico, che aveva la fattoria».

- Il quarto, Eliseo, è un missionario comboniano in Congo.

«Quell’altro non l’ho mai visto. C’era Imerio, che non veniva mai. Ha parlato solo lui e ha fatto un discorso… trenta secondi, poi sono usciti. E abbiam fatto una riunione nostra».

- Voi corridori e basta?

«Noi corridori e basta. Senza nessuno».

- Tutti quanti?

«Sì, sì».

- Con anche Roche e Visentini?

«Tutti. Solo noi corridori. Abbiam parlato in due…».

- E l’atmosfera com’era, un po’ elettrica?

«Mah… Noi dovevamo scegliere dove stare: buttare tutto a monte o scegliere uno dei due. Abbiamo deciso. Abbiamo chiesto delle garanzie, da una parte e dall’altra. Mancavano anche pochi giorni alla fine, e siamo rimasti dov’era…».

- Mica tanto pochi, però: c’erano ancora tappe importanti.

«Mancava una settimana. Poi, quando siamo usciti, abbiam fatto ancora quello che dovevamo fare per rimaner lì. Cioè non abbiamo affossato la società, né dovevamo tirar i tremi in barca… Noi abbiamo chiesto delle garanzie. Roche ci ha detto di sì e allora, a malincuore, noi… Noi abbiamo sempre… Son stati loro due che poi son andati un po’ di qua e un po’ di là…».

- Schepers perché era così legato a Roche? Perché l’anno dopo è andato con lui alla Fagor?

«Sì, sì. E dopo lui… ha fatto le sue scelte».

- Quindi era vera questa cosa della Carrera un po’ spaccata? O alla fine è comunque un lavoro e quindi devi comunque portarlo a termine?

«Sì, ma si era rotto qualcosa. Il gruppo dei cinque-sei, lo zoccolo duro, è sempre rimasto uguale, e gli altri li tiravamo sempre dove volevamo andare noi. Perciò siamo sempre rimasti abbastanza… Siamo riusciti a rimanere uniti, sono loro due che si sono allontanati dal gruppo».

- Visentini e Roche?

«Sì, Roberto e Roche: uno è andato a destra e l’altro a sinistra, però il gruppo è sempre rimasto quello, ed era il gruppo dei cinque-sei che dopo giostrava fra tutto quello che era la squadra».

- Come avete fatto poi ad andare al Tour e vincerlo, con quel tipo di atmosfera in squadra? O allafine al Tour vi siete ricompattati e…

«No, no, no: perché i cinque-sei che c’erano al Giro c’erano anche al Tour. Roche e Schepers c’erano anche al Tour, perciò…».

- La squadra che vinse il Tour era persino più forte di quella che aveva appena vinto il Giro?

«Mah. Al Tour c’era un percorso diverso, con avversari diversi. Perché al Tour [Roche la maglia gialla] l’ha presa agli ultimi giorni, non tanto prima».

- Alla 19ª tappa, a Villard-de-Lans. 

«Quel giorno lì abbiamo attaccato in discesa e al rifornimento, d’accordo con Bernard e i francesi per non far vincere gli spagnoli, e anche lì storie “fuori”. Abbiamo attaccato a un rifornimento e siamo andati fino all’arrivo, non come adesso che tante volte attaccano al rifornimento e dieci chilometri dopo si fermano. Noi abbiamo attaccato al rifornimento, nessuno l’ha preso e siamo andati fino all’arrivo. E abbiamo staccato… Delgado poi era rientrato ai piedi della salita, ma noi eravamo già lì e abbiamo fatto uno sforzo...».

- Delgado poi prese la maglia gialla sull’Alpe d’Huez e la perse nella cronometro di Digione, tre giorni dopo l’impresa di Roche a La Plagne, con Stephen svenuto all’arrivo e soccorso con la maschera dell’ossigeno. 

«Sì, però noi in un paio di giorni abbiamo ribaltato il Tour, e sempre con l’appoggio anche di Bernard, che era della Toshiba, non Bernard Hinault, Jeff… Era sempre fatto tutto con lui».

- Torniamo a Roche e Visentini: tu da che parte ti schieri?

«Visentini di testa era molto vulnerabile. Era forte come atleta. Visentini era più forte di Roche come atleta ma più debole di testa. Roche invece era più forte di testa, meno di fisico, di forza, ma era più forte di testa. Quello che ha ottenuto l’ha ottenuto con la testa, perché Roche in corsa riusciva a sfruttare – l’ho sempre detto – anche le formiche che c’eran per strada, pur di arrivare al suo obiettivo».

- Questo perché era bravo a leggere la corsa e anche a tessere alleanze?

«Sì, anche a tessere alleanze. Però se non hai la forza per rimaner lì ed esser lucido, puoi avere tutto quello che vuoi. A Visentini invece tante volte bastava un niente, una parola detta… invece di dirla scherzando la dici così e lui perdeva la testa. E perdeva tutto. Visentini era fragile, era fragile di testa. Il problema del Visentaera che lui era fragile di testa».

- Visentini, zero in volata. Forti a cronometro e in salita. Il motore l’avevano entrambi, quindi la differenza era solo nella testa?

«La testa. Per me la differenza era la testa. Come corridore Roche era qualcosa in meno di Visentini, però come testa Roche era dieci volte superiore. E conta: la testa conta. Tante volte devi solo alzar la testa. Devi vedere. E se non hai la gamba, dici: mi salvo. Visentini però, se non aveva qualcuno che lo incoraggiava o qualcosa, lui saltava».

- E questa cosa che lui amava correre in decima posizione a destra, o tutto a sinistra, quindi mai nella pancia del gruppo, sempre vento in faccia?

«Lui correva sempre così, era il suo modo di correre».

- Per paura di cadere?

«Lui correva sempre in seconda, terza fila, da solo, sulla destra. Da solo. Quando lo vedevi in mezzo al gruppo…».

- …c’era qualcosa che non andava?

«O lo potevi attaccare, perché era morto. Visentini quand’era forte correva da solo, là da solo, perché era forte. Roche invece era sempre in mezzo, limava a destra e a sinistra… Roberto no: viaggiava sempre da solo sulla destra, in seconda o terza fila, perciò voleva dire in quindicesima-ventesima posizione. Era sempre così. Quando lui non era lì, è perché aveva qualcosa».

- Ti volevo chiedere di quel titolo della Gazzettache ti fece infuriare, te lo ricordi ancora?

«Quando son stato l’unico ad attaccare Cannavò al muro?».

- Era quella circostanza lì? Quando titolarono…

«“Bontempi ne stende cinquanta”. Eravamo caduti il giorno prima. In prima pagina, a caratteri grossi così…».

- L’ho letto, ma il titolo era suo? Non di un titolista?

«No, no: l’ha fatto lui. Il giorno dopo sono arrivato, avevo la mia bici di qua e con una mano l’ho alzato tanto così da terra. Al Giro d’Italia avevo sempre quattro giornalisti: Paolo Viberti, Beppe Conti, Galdi dell’Ansa e il quarto non me lo ricordo più. E in quattro non riuscivano a tirarmi via. Io avevo in mano la bici e l’ho preso per il collo. E dopo, veniva lì e tutti i giorni…».

- Di quel titolo si è mai scusato?

«No, no. Mai. Lui tutti i giorni veniva a salutarmi. Anche dopo, quando era direttore della Gazzetta, ogni tanto veniva e mi diceva: ti ricordi…? Certo che mi ricordo, ma leisi ricorda? “Certo che mi ricordo…”».

- Tu gli avevi tolto il saluto o ci parlavi normalmente?

«No-no, quando veniva lo salutavo. Lui mi salutava e io lo salutavo. Se voleva un’intervista, la facevo. Poi lui è andato su di grado e non veniva più lui, veniva Bergonzi, veniva Zomegnan, venivano gli altri. Però l’ho preso per il collo, l’ho alzato e in quattro per tirarmelo via…».

- Che cos’era successo in quella tappa di Termoli?

«Eravamo caduti in volata, io e una trentina».

- Perché hanno dato la colpa a te?

«Perché son stato il primo a cadere. E dietro è caduto tutto il gruppo. Io ero il terzo o quarto della fila, neanche ho toccato quello davanti. M’è andata via la ruota, non so come mai. Son caduto, nel cadere mi sono girato e io non mi sono fatto niente. Son caduto, mi son girato e ho visto il muro. Son passati via i primi dieci-dodici, hanno fatto tutto il mucchio, si son salvati gli ultimi… Io ero così: li vedevo tutti che pom-pom-pom! Ed io non mi son fatto niente! E son stato il primo a cadere. E allora mi han dato la colpa, accusandomi che avevo fatto, disfatto e… E allora l’ho preso per il collo».

- Di quel Giro ’87 che altri ricordi hai? Ci saran stati anche momenti belli, se non altro alla fine, no? L’avete vinto.

«Ma sì. Noi, dopo, alla fine, ci divertivamo sempre».

- Dei mondiali che hai fatto cosa ricordi?

«Di mondiali ne ho fatti quattro, tre li abbiam vinti. Tre vinti e un secondo posto. Uno, quello di Argentin [a Colorado Springs ’86]. Quello di Fondriest, e lì gli è andata bene [a Renaix ’88]. E il il primo di Bugno, a Stoccarda. Di quello mi ricordo che ho tirato tutto il giorno, centocinquanta chilometri e poi mi son fermato. Mi sono messo in testa al primo chilometro, me la son fatto tutta a tirare, tirare…».

- Erano quelle le tue consegne?

«No, io dovevo star lì, vedere se riuscivo a finir la corsa. Poi invece mi son trovato che mi sentivo di andare così e son andato».

- Quintarelli e Boifava. Con loro come ti trovavi?

«Di Quintarelli ti posso raccontare un aneddoto. Tour de France, eravamo in camera io e Ghirotto. Tappa dell’Alpe d’Huez, noi tutto il giorno a inseguire. Quando è entrato, come ha aperto la porta, io stavo mangiando una mela e gliel’ho tirata. S’è stampata sul muro. Con me c’era il dottore…».

- Il dottor Giovanni Grazzi?

«Grazzi m’ha guardato, Ghirotto ha preso l’asciugamano ed è andato via: “Io non ho visto niente…”. [ride, nda] Quintarelli aveva il vizio che quando eravamo nei gruppetti [i velocisti che in salita si staccano, nda] ci lasciava da soli. Milasciava da solo, perché per la maggior parte c’ero io nei gruppetti, e lui stava sempre davanti a veder la corsa. E io mi dovevo arrangiare un po’ con i belgi, un po’ con gli olandesi a prender da bere e da mangiare. Quel giorno lì ero arrivato in crisi di fame, ero più morto che vivo. E com’è entrato mi sono incazzato».

- E perché lui in corsa non ti seguiva con l’ammiraglia?

«Perché lui voleva andar a vedere la [testa della] corsa».

- E lasciava a piedi il suo corridore?

«Che poi era anche quello che alla fine gli risolveva i problemi».

- Qual era il punto: che tu non le mandavi a dire?

«No, mai».

- È questo il punto?

«Sì».

- In questo somigli molto a Roberto Visentini…

«Non lo so. Di Roberto t’ho detto, era fragile di testa».

- Mi riferivo al non mandarle a dire. Se vedeva una cosa che riteneva ingiusta, era più forte di lui: non poteva star zitto.

«Sì, sì. Anch’io: uguale».

- Roche invece era più politico?

«Roche era più politico. Io, quando ero in squadra, quello che avevo io volevo lo avesse anche l’ultimo arrivato. Invece tante volte uno aveva un particolare…».

- Il discorso delle ruote di prima…

«Delle ruote o anche delle bici. Un giorno a una corsa gli ho detto: “Ma perché quel signore lì usa questa bici ed io non posso usarla?”. “Eh, ma te…”. Allora, o lui usa la bici come la mia o lui l’arrivo non lo vedrà mai. E ha anche perso le corse. Perché lui usava sempre materiali che non erano quelli della squadra. Noi eravamo obbligati a usare materiali della squadra e lui no. Allora dicevo: perché devo aiutare uno che non sta alle regole come invece stiamo noi?».

- Quel “lui” aveva forse un soprannome accattivante, diabolico?

«Non lo so chi era. E allora lo facevamo diventare “normale”».

- Lo “normalizzavate” voi?

«Lo “normalizzavamo” noi. Finché lui non è riuscito a disfare il gruppo. Però lui, una volta che ha disfatto il gruppo, due volte lo hanno mandato a casa perché non era in regola, non ha più visto l’arrivo, quando noi eravamo in altre squadre gli correvamo contro…».

- Funziona così?

«Funziona così, è una legge non scritta ma è così».

- Non ci arrivo. Avete due ammiraglie: Boifava dietro, sulla maglia rosa, e Quintarelli davanti, su Roche e Schepers, e lui non assiste i suoi corridori perché sta lì a guardar la corsa? 

«Sì».

- Questo la gente non lo sa, e non solo non lo immagina ma nemmeno se ne capacita…

«Allora ti racconto un aneddoto. Tour de France. Giorno di riposo. Cosa fanno adesso le squadre nel giorno di riposo?».

- Conferenza stampa il mattino (il Team Sky no, la fa alle 14 o alle 16) e sgambata il pomeriggio. O viceversa.

«A parte quello, la sgambata. Allora: sgambata con nove corridori, la macchina del direttore sportivo qua…».

- Quale direttore sportivo, l’uno o il due?

«Il direttore sportivo. Facciamo questi cinquanta-sessanta chilometri, prima di arrivare in albergo, e questo è il bar. Arriviamo, cosa facciamo? Otto si fermano qui al bar, il nono corridore si ferma di fronte in un altro bar, col direttore X qua. Di fronte».

- Motivo? 

«Te cosa avresti fatto?».

- Non so. Sarei andato a chiedergli il perché?

«Il giorno dopo avevan tutti gli occhiali, e nessuno l’ha aiutato. E allora? Vedi, i “caffè”, quanto costano? I “caffè” costano centinaia di migliaia di euro, non un euro…».

- Sto pensando a una situazione simile nel mio lavoro: c’è gente che alla macchinetta del caffè si costruisce una carriera. Io, che non prendo caffè con nessuno e tantomeno coi capi, magari – metaforicamente parlando – do lo straccio per terra, qualcun altro magari finisce che va a fare l’inviato sulla luna…

«No, no: addetti stampa e inviati non c’erano. Non c’erano. Noi siamo otto corridori in un bar, ognuno ha pagato il suo caffè o uno ha pagato il caffè a tutti. Quell’altro era nella stessa strada, nel bar di fronte, tavolino esterno anche lui, col direttore sportivo che gli ha pagato il caffè. Questa è una delle tante… che il corridore e il direttore facevano nei nostri confronti».

- Qual è quella che ti è rimasta più indigesta: quella del caffè o quella dei materiali diversi?

«Mah… La più indigesta può darsi sia quella in Sicilia. Eravamo alle gare. Un corridorea febbraio compie gli anni e al massaggiatore diciamo: un corridorecompie gli anni, dai, compra una torta e una bottiglia che stasera [i soldi] te li dà. Si festeggia, te li dà, tanto lui… Stasera si festeggia poi lui ti paga. La sera il corridore, spalleggiato dal “suo” direttore sportivo, s’è rifiutato di pagare la bottiglia e di festeggiare il compleanno con noi. Pur non avendo pagato ha voluto ugualmente prendere la torta e il vino. Uno di noi si è alzato, gli ha portato via sia la torta sia il vino, sia al direttore sia al corridore e son stati cacciati via dal tavolo. Abbiamo fatto la colletta e abbiamo rimborsato il massaggiatore. Perché al massaggiatore avevamo detto: oggi che sei in corsa, fai rifornimento, vai, ti fermi, compri la torta e la bottiglia e poi stasera te li paga. E la sera a tavola li abbiamo cacciati».

- Sono cose così meschine. Alla fine parliamo di cifre ridicole, no? Più che la tirchieria è il gesto… E uno si perde in un bicchier d’acqua così…

«Ecco dove tante volte… Lui si è perso una grande corsa per un caffè. Ecco dove ha perso la grande corsa. È così».

- Raccontami un po’ della tua, di carriera. Una signora carriera.

«Il primo anno, ero il velocista della squadra. Ero lasciato lì non dico allo sbando però se arrivavo, arrivavo; se non arrivavo, era uguale».

- È vero che a volte la squadra lavorava per te, tu non ti sentivi sicuro e non volevi fare la volata, poi i compagni ti venivano a scuotere e alla fine la volata non solo la facevi ma magari la vincevi pure?

«Il primo o secondo anno, ero giovane, così, ho vinto subito. La terza corsa che ho fatto l’ho vinta [prima tappa alla Ruota d’oro 1981]. E subito dopo son venuti tutti ad aiutarmi. Poi ne ho vinte due alla Vuelta [sempre nel 1981: la prima ad Avilés e la terza a Salamanca], però nel frattempo facevo anche il gregario a Battaglin [che quell’anno vinse Vuelta e Giro]. Ho vinto la tappa al Giro [la prima semitappa, a Bibione], e facevo anche il gregario a Battaglin. Tante volte non mi sentivo, poi venivano un Ghirotto o un Perini e mi dicevano: “Dai-dai-dai, andiamo-andiamo-andiamo”. Un po’ li seguivo e un po’ no e poi andavamo a vincere. Tante volte avevo la sensazione che non ero sicuro, perché magari il giorno prima o due giorni prima avevamo tirato un po’ troppo, o eravamo tutti un po’ stanchi, e si diceva: dai, andiamo un po’ a vedere cosa fare. Li seguivo e dopo mi trovavo a vincere la tappa».

- Qual era il capitano cui ti sentivi più legato? Quello meno, neanche te lo chiedo…

«Il più legato, Battaglin».

- È stato così per tanti, corridori e non solo. Che cosa aveva di speciale, al di là delle corse? Il vostro meccanico Belluomini mi ha detto che era un campione che non ti faceva mai pesare la sua classe.

«Era gentile. Io tante volte ero lì… Il primo anno che ho fatto con lui, abbiamo vinto la Vuelta e il Giro. Alla Vuelta io ho fatto due settimane, abbiam vinto due tappe e lui era maglia oro. M’han detto vai a casa perché devi fare il Giro. Ho detto: ma nooo, ma nooo… Dopo son andato al Giro, ho vinto la (semi)tappa, ho messo la maglia rosa, poi ho avuto problemi fisici, non stavo bene, e luimi spingeva perché arrivassi all’arrivo».

- Lui, il tuo capitano…

«Lui. Mi aiutava ad arrivare all’arrivo e dopo ha vinto il Giro. Un signore come Battaglin non l’ho mai [incontrato]…».

- Avrebbe vinto anche un mondiale se non fosse stato per quel fattaccio…

«Sì, di Thurau con Raas a Valkenburg ’79. Avrebbe vinto anche il mondiale. Lì invece andò così. Un altro con cui mi trovavo bene era Visentini. Bastava poco per farlo tornare allegro come bastava poco per farlo incupire, però quando era con noi era sempre…».

- Mi racconti qualche suo aneddoto, qualche sua battuta. Per esempio, è vero che a chi gli chiedeva perché non vai al Tour lui rispondeva: ma che Tour Tour, tre funerali e già mi son ripagato il Tour… Ci sta, nel personaggio?

«Ci sta, nel personaggio. Lui pensava al Giro. Poi, il mese di luglio, il lago di Garda, lui andava in motoscafo…».

- Roche dice che in Carrera c’era questo patto (lui avrebbe aiutato Visentini capitano al Giro, viceversa al Tour) ma poi Visentini aveva rilasciato quella famosa intervista in cui avrebbe detto che lui a luglio, altro che Tour: se ne sarebbe stato a mollo, a seconda delle versioni, al mare, o al lago. A te cosa risulta?

«Questa non l’ho mai sentita. Cioè: l’ho sempre sentita “da fuori”, ma da lui non l’ho mai sentita. Noi ci allenavamo tutti i giorni. Io andavo verso il lago di Garda, lui era lì e con gli altri venivano giù, facevamo tutti gli allenamenti poi quando arrivavamo a un certo punto, a Brescia, io venivo di qua, loro andavano di là e tornavano a casa».

- Voi però lo sapevate che lui al Tour quell’anno non ci sarebbe andato, vero? Dai, non ci ha mai neanche pensato…

«Al Tour, col caldo, lui non è mai andato forte… Lui col caldo… Quante corse ha vinto in estate? Zero».

- E invece, in allenamento, è vero che lui, alle dodici, piedi sotto il tavolo, pronto per pranzare?

«No, non è vero. Non è vero. Perché io partivo alle nove da qui [da Ronco, nda], vuol dire che io tornavo casa all’una… Loro partivano alle nove e mezza. Io andavo su, sulla Gardesana, per andare a Gavardo, loro scendevano. La mattina facevo più strada io – se io facevo sui trenta chilometri, loro ne facevan dieci – però io quando arrivavo qui, ne avevo ancora dieci per venire a casa, loro ne avevano ancora venticinque. Perciò se io arrivavo a casa alle dodici e mezza, loro fino all’una e mezza non arrivavano a casa».

- Quindi è una bufala?

«È una bufala. Visentini s’è sempre allenato. E più di tutti gli altri. Perché per fare quello che fai, se non ti alleni… Non è stato mai vero perché io ero uno che partiva anche presto, otto e mezza-nove, però io facevo più chilometri la mattina e ne avevo meno al ritorno».

- Con Bruno Leali invece si vedevano alle sette e mezza?

«No, se io partivo da casa alle otto, io da qui, per andare a casa di Bruno, arrivavo su alle nove, loro si trovavano a un quarto alle nove. Il Giro era questo, fatto così: io partivo da qui e poi trovavo loro. I chilometri erano uguali per tutti, però i venticinque in più che io facevo prima, all’andata, loro li facevano dopo, al ritorno. Perciò se io arrivavo a casa a mezzogiorno, loro rientravano all’una. Se io arrivavo alle dodici e mezza, loro all’una e mezza. Se io arrivavo a casa alla due, loro alle tre».

- E il pomeriggio, riposo.

«Noi partivamo sempre alle nove, eravamo a casa alle dodici e mezza, un quarto all’una io, loro all’una e mezza. Quando facevamo il chilometraggio medio».

- Non vi davano fastidio quelle balle sul Visenta che non faceva “la vita”? Perché alla fine si sono inventati tutte quelle balle? Perché era bello, ricco di famiglia e viaggiava in Ferrari?

«Perché è sempre più comodo criticare che andare a cercare la fonte, no? Quando io andavo a fare certi circuiti, ci andavo col “127”, che era una macchina da guerra. Lui col Ferrari. A volte è venuto anche col carro funebre con dentro la bici, perciò... E invece attualmente mi dicono che nel suo lavoro è molto bravo, molto preciso, molto professionale. Allora?».

- In un’intervista di Marco Bonarrigo per Bicisport del gennaio 1997, Visentini ha detto che il suo è un «lavoro duro almeno come quello del corridore. Ma che ha bisogno di una cosa in più. La pietà. Ce ne vuole tanta, di pietà». Lo trovo un concetto così visentiniano

«Quando eravamo alle corse, a tavola, fuori tavola o anche se ci troviamo adesso che ogni tanto lo chiamo e gli dico: guarda, ho un amico che arriva dall’Olanda, vieni a far una cena con me? Viene. M’ha detto: ci son giornalisti? Non c’è nessuno: siamo, io, te e questo. Viene giù questo amico, Willy Wauthlé, che è olandese e guida la moto della televisione, una troupe che noleggiano in giro per il mondo. Gli ho detto che era qui. Gli ho detto: vieni giù che mi serve. “Sì, sì. Vengo”. Se io lo chiamo, però non ci devono essere né giornalisti né…, lui viene tranquillamente. E quando con Visentini eravamo sempre a dire cazzate su cazzate, di tutto e di più, lui ci stava. Però se deve andare in pubblico, non ci va. O da solo o non ci va».

- Non è vero quindi che non vuol più saperne dell’ambiente? Questo perché con voi è “solo” Roberto e non Visentini l’ex campione?

«Mi hanno detto che, quando fa i servizi funerari, è preciso, è meticoloso. Quando è morto mio papà, che era in camera mortuaria a Brescia, Roberto è venuto lì, m’ha fatto le condoglianze, è stato lì. M’ha detto: se ti serve qualcosa, ti aiuto qua con… Allora? Perciò, Visentini, basta saperlo prendere. Io se adesso lo chiamo e gli dico: Oh, mi serve un favore, fra cinque-sei giorni c’è una persona vieni a cena… M’ha detto: se non ho da fare, vengo».

- Perché ce l’ha ancora con i media, non rilascia interviste, non parla? È perché fondamentalmente è schivo, o non si fida?

«Per me, è schivo. Non si fida perché, giustamente, può esser stato fregato diverse volte».

- Questo però è un cane che si morde la coda: se non parli, alla fine a prevalere è sempre la versione di chi parla eccome.

«Sì, ma lui come ho detto prima, lui è fragile di testa e non si fida delle persone».

- Eccetto quelle che lui conosce da una vita.

«Che conosce e che sa che, se io gli dico: “Questo qua è nero”, è nero. Però se io ti dico “è nero” e, come ti giri, ti frego e dopo lo trasformo in “bianco”…».

- Secondo te un po’ l’ha pagata questa cosa di mettersi contro gli Sceriffi del gruppo?

«Ma neanche… Perché lui comunque ci andava anche d’accordo. Però gli è stato rubato il Giro d’Italia…».

- Quello dell’83, che lui come tempi effettivi su strada, senza gli abbuoni, avrebbe vinto?

«Non solo quello. C’è stata una cronometro dove un corridore ne ha raggiunto un altro. Finché non c’erano le telecamere della Rai, questo corridore ha raggiunto l’altro in pochi chilometri. Quando sono arrivate le telecamere della Rai, quello davanti non l’ha più staccato: come mai? Non riusciva più a staccarlo. In pochi chilometri l’ha preso. E i restanti, no: come mai? È una chicca, eh. Si fa per dire…».

- E quando ce l’aveva con Torriani, magari perché il patron disegnava il Giro per gli Sceriffi, o cancellava la Stelvio, si disse, per favorire Moser, o si arrivava in posti dove non c’era abbastanza sicurezza per i corridori?

«Ma lui tante volte “partiva” perché lo spingevano. Qualcun altro diceva: eeehhh... E lui prendeva fuoco, perché credeva sempre nella buona fede delle persone».

- Se a Sappada sia stato o no “tradimento”, me l’hai detto. Da che parte stai neanche te lo chiedo, mi pare evidente.

«Noi quel periodo lì abbiamo scelto la strada dei soldi, perché alla fine l’abbiam preso per quello che è: lavoro. Però arrivare all’ultima settimana e buttar via tutto… Allora le lire pesavano, non era come gli euro adesso che hai tanti euro ma alla fine hai poco in mano. Una volta le lire pesavano. Non come peso in sé ma come contrattazione, per comprare una casa, una macchina, come potere d’acquisto: una volta la lira valeva tanto. Ecco la decisione che abbiam preso noi. L’abbiamo buttata sui soldi, non sull’amicizia. Perché se la buttavamo sull’amicizia, la Carrera perdeva e Roche perdeva. Noi l’abbiam buttata sui soldi. Abbiam detto: oh, qui possiamo prendere questo o prendere niente. C’erano corridori che non prendevano tantissimo, c’erano corridori che stavano bene e c’erano corridori che stavano meglio. E abbiamo pensato anche a chi stava peggio. Ecco dove è stata la nostra forza del gruppo, che l’abbiamo tenuto assieme. Abbiam pensato anche a quelli. Io potevo dire, o chiunque poteva dire: ma chi se ne frega di questi soldi, perché… però… Io per qualche anno ho anche fatto il contratto dei “miei” corridori, di chi mi aiutava. Chi lo fa?!».

- Ah be’, oggi, con gli agenti e tutto il resto, nessuno: è un altro mondo.

«È un altro mondo. Se ne fregano. Io però cercavo di aiutare sempre chi mi stava vicino».

- E quindi, trent’anni dopo, vorresti che passasse anche questo tipo di messaggio?

«Il novanta per cento di quello che ho detto adesso, di scritto non c’è niente. Non c’è niente, nessuno lo sa. Ce ne sarebbero ancora di aneddoti da sfoderare, da spulciare o da dire. Però…».

- La mia categoria non ne esce benissimo, vero?

«Loro tenevano a quelli che… Io avevo due o tre giornalisti con cui ero molto in confidenza, e che tuttora sento per telefono e tutto. Quando gli dicevo (e mi va) facciamo due chiacchiere: se non scrivi, ti dico quello che vuoi; se scrivi, non so niente. Però loro, di quello che gli dicevo a io, non hanno mai scritto. Uno è Beppe Conti, uno è Josti, poi Paolo Viberti. Se gli dici: Se rimane tra noi, io ti posso dire cosa succederà domani. O cosa è successo, perché questo così, così e così. E loro mi dicono: “Eeehhh…”. “Oh, se lo vuoi, è così. Sennò io non so niente”. Però non m’hanno mai fregato o… messo [sul giornale] magari due o tre giorni dopo. A Beppe Conti un giorno ho detto: Guarda che quel corridore fra tre giorni va, cambia squadra, perché va così e così. Lui va dall’altra parte e mi fa: non è vero, m’ha detto che rimane dov’è. Dopo due giorni torna e mi dice: Oh, m’ha sempre giurato che avrebbe… “Eh, io cosa ti avevo detto?!”».
CHRISTIAN GIORDANO

NOTA:
[1] Dal 1976 al 1978 il primo premio era un appartamento a Merlin Plage del valore di 100 mila franchi svizzeri. Nel 1979 il valore era salito 120 mila. Nel biennio 1986-1987, oltre all’appartamento da 120 mila franchi svizzeri c’era un premio in denaro di 180 mila franchi svizzeri. Nel 1988 il primo premio era di 1.300.000 Frs e comprendeva una Peugeot 405 (del valore di 118 mila Frs), uno studio a Merlin (del valore di 190 mila Frs), un premio del Crédit Lyonnais (500.000 Frs) e un oggetto d’arte.

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