Paolo Cimini, il figlio di papà che sapeva vincere
Certe, sin troppo facile appiccicarle, e quasi impossibile rimuoverle.
E dire che per lui non doveva essere un problema, era il suo mestiere. O comunque lo sarebbe diventato, dopo la perdita dell’adorato papà-sponsor. Edilcimini.
«Corre perché è il padre che paga». Eccola, la prima. La più tenace da scollare, da scollarsi.
Niente lattine, flaconi e barattoli, qui. Solo il marchio: «raccomandato».
E a chi importa se in volata come in pista hai vinto in ogni categoria, dalle giovanili ai pro’.
Il tempo passa, le etichette magari si scolorano ma restano.
Scaltro e furbo come solo un commerciante nato sa essere, Paolo Cimini mi accoglie nel suo ufficio in un temperato, ventoso pomeriggio romano. Siamo in periferia, nel suo grosso capannone di Morena. Alle pareti, le gigantografie dei suoi successi.
La Edilcimini fa parte di un consorzio di rivenditori di materiale edile. Paolo ci lavora con i figli. Adesso che han finito di studiare, lui ha più tempo, la mattina, per pedalare. Ha ricominciato dopo trent’anni e adesso non smette più. In negozio ci arriva dopo, il pomeriggio. A tirare le fila però è sempre lui.
Romano, classe ’64, quattro vittorie in cinque anni da pro’, ha smesso (forse troppo) presto: a ventisei anni.
Non per caso, subito prima che in gruppo cambiasse il vento. Da specialista in volate lineari, un po’ corte ma con la sparata letale negli ultimi cinquanta metri, ha sempre saputo fiutarlo per tempo.
Al Giro ’87 corre da matricola con la Remac-Fanini (1987) e vince lo sprint di Jesolo, la tappa che precede quella di Sappada. Ma se sono venuto qui è per fargli raccontare come lo ha accolto il gruppo, e come i media lo hanno raccontato. Se ha avvertito la stessa invidiosa diffidenza che circondava Roberto Visentini, gli stessi pregiudizi verso uno troppo bello e benestante per fare il corridore. Con in più le «aggravanti», per i malpensanti, della romanità e del papà ex sponsor.
Personalità e romanità debordanti, simpatia contagiosa, battuta fulminante, e fumantino il giusto: guai anche solo a provare a fotterlo.
Dei cento e passa intervistati, solo lui controlla se davvero ho messo in pausa il registratore quando la riservatezza delle confidenze lo richiedeva. Non sa, o non si fida, Paolo il Caldo, che a differenza di altri colleghi il sottoscritto ha una parola. E la mantiene. Forse, nell’ambiente, nella prima come nella seconda carriera non dev’essergli capitato spesso.
Questione di etichetta.
Quella, se l’hai dentro, ti resta appiccicata. Non si scolora. E nessuno può staccartela.
“Edilcimini”
Morena (Roma), 21 febbraio 2019
- Paolo Cimini e il ciclismo: com’è cominciata? Com’è arrivata la passione, com’è nata?
«Io ho iniziato dai nove anni. Mio padre era un amante del ciclismo, mi ha messo in bicicletta, mi è piaciuto, la passione c’era e abbiamo continuato».
- E i risultati, subito?
«I risultati, sì, subito. Da giovanissimo ho vinto tante gare. Poi da esordiente, allievo, juniores e dilettante: ho sempre vinto, in tutte le categorie. Anche da professionista».
- L’etichetta da predestinato ha pesato nel salto fra i pro’?
«Ha pesato a livello psicologico, però m’ha dato un motivo in più per andare più forte. Proprio perché c’era questa etichetta, sai, di “raccomandato”. Che poi oggi, se vai a vedere, tutti ’sti professionisti che “passano” je chiedono tutti i soldi, no? Ce l’hai lo sponsor? Sennò non ti faccio correre… Io avevo la fortuna che mio padre era un amante. Io andavo bene perché avevo sempre vinto, in tutte le categorie. E lui dava una mano a un corridore in cui magari credeva. Nel contesto, tu questa cosa la sentivi. Ma io nel gruppo sono stato sempre ben visto. Sono stato e sono ancora amico di tutti quanti. Non mi sono mai fatto voler male dai corridori di una certa importanza. Senza far nomi…».
- I nomi quelli erano: gli Sceriffi…
«Però a me questo ha dato lo stimolo per andare più forte, allenarmi meglio, fare più sacrifici e ottenere e quei risultati che ho ottenuto».
- Queste voci da dove venivano? Fuori del gruppo? Perché papà ci metteva i soldi…
«Più che altro dalla regione, tu sei di Roma e magari so’ quelli più invidiosi, capito?».
- Perché qui, si dice sempre, non c’è mai stata una grande tradizione, vero?
«Certo, certo… Cimini è “passato” perché Cimini c’aveva il padre che sponsorizzava e quindi… Era più una cosa locale che poi a livello nazionale».
- A livello nazionale lo è diventata quando Cimini è passato professionista ed è andato al Giro d’Italia...
«Allora, guarda, io ho fatto quella vittoria di Jesolo e all’epoca c’era [Adriano] De Zan che dice: “Paolo Cimini, co-sponsor della…”. Cioè, anche il giornalista, no? Pace all’anima sua, però… Non andava detto. Professionalmente, non va detto. Ripeto sempre: se oggi tu vuoi correre, devi tira’ fuori i soldi. Ma non solo nel ciclismo, questo, eh. Qui bisogna rivedere lo sport a tutti i livelli, tutte le discipline. Qui, oggi, siccome c’è la crisi nel lavoro, c’è la crisi nell’occupazione, c’è la crisi, c’è la crisi anche nello sport. E quindi ti chiedono i soldi per “poter correre”. E ci sono tanti talenti che vengono persi perché non hanno la possibilità di tirare fuori i soldi, lo sponsor dietro non ce l’hanno: quanti te ne perdi? ’na marea. Io sono riandato in bicicletta dopo trent’anni e non c’è un ragazzino. Per strada non vedo un ragazzino. Dice: perché stai a Roma… Eh, ma anche in provincia. E ci sono province in cui non c’è il traffico di Roma, e squadre non ci sono. Una volta noi ci sceglievamo la corsa. Dice: lì ce sta quello, andiamo da quest’altra parte… Cioè: c’erano dieci corse. Mi ricordo, da allievi, c’erano dieci corse. Una stava a Tarquinia, una stava a Frosinone, ’n’altra stava a Cefrano, ’n’altra stava a Rieti, n’altra a Viterbo, n’altra a Roma... ce n’era ’na miriade. Oggi non c’è più niente. A chi è dovuto questo? A chi è dovuto? Dobbiamo parla’ de politica? Non lo so... Vogliamo parla’ de politica?! Boh. Non so se è questa l’intervista, ma...».
- Se ha qualcosa d’interessante da dirmi, ben venga.
«Se capisce da sola, no? L’hanno distrutto il ciclismo, l’hanno distrutto…».
- E chi l’ha distrutto?
«Non lo so chi l’ha distrutto».
- E perché?
«Non lo so. Però il risultato finale è questo».
- E lei perché ci ha messo trent’anni a tornare in bici?
«Perché io ero nauseato. Ero stanco. Ho lasciato perdere, a ventisei anni».
- Perché da professionista è durato “solo” quattro-cinque stagioni?
«Perché i sacrifici erano tanti».
- L’anno dopo la vittoria di tappa a Jesolo del Giro ’87, c’è stata quella al Laigueglia: lì si è capito che quel ragazzo di Roma andava davvero forte?
«Sì. Ho vinto il Laigueglia, poi l’Etna e l’anno prima, l’87, la tappa del Giro d’Italia. Sì…».
[Mi mostra le foto appese alle pareti del suo ufficio, nda]
«Quella è al Giro dell’Etna. Quella, per distacco. Io so’ partito a 800 metri, in mezzo alle case, e così so’ arrivato».
- Mi racconta del Giro ’87, che cosa ricorda? È famoso per l’affaire-Sappada, e va bene, ma da uno che in gruppo c’era che cosa mi può dire?
«Io mi ricordo tanta fatica: quella, soprattutto. Mi ricordo poco. Mi ricordo che c’è stato il “disguido” dentro la Carrera, no? Tra Roche e Visentini».
- Chiamalo “disguido”… Ecco, voi in corsa avevate sentore che stava succedendo qualcosa?
«Sììì».
- Anche i giorni prima?
«Ognuno voleva vincerlo quel Giro, no? Visentini c’aveva le sue ragioni, Roche c’aveva le sue ragioni, e in salita andava un po’ più forte. Non so’ stati gestiti. Ma noi in gruppo, noi ce facevamo l’affari nostri, non è che ce toccava più de tanto. Era un problema loro. Li vedevi là, era un problema loro».
- È vero che alcuni direttori sportivi nelle ammiraglie prendevano in giro Boifava? E che la querelle-Carrera era un po’ diventata la barzelletta in gruppo?
«Eh, penso de sì. Perché tu quando c’hai du’ galli a cantare, dentro la squadra, gestirli è difficile. Se non riesci a gestirli, te prendono in giro. Come in tutte le cose».
- Lei conosceva più Roberto che Roche? O nessuno dei due?
«Un po’ alla lontana, perché io ero “passato” da poco. L’87 era il [mio] secondo anno da prof e ancora ero sbarbatello. Li conoscevo e basta».
- Sia lei sia Visentini venivate da una famiglia diciamo benestante – perché i ricchi veri magari sono altri, di un’altra fascia – e in più eravate entrambi bei ragazzi, piacevate alle donne. Tutto questo vi accomunava un po’ oppure no? Avete mai avuto modo di parlarne?
«No, non abbiamo mai avuto modo di parlarne proprio perché io ero al secondo anno da professionista, quindi io con lui non è che c’ho avuto rapporto di amicizia più di tanto. Ci salutavamo in gruppo e basta».
- E rispetto a Visentini, Cimini dal gruppo come è stato accolto?
«No, io sono stato accolto bene. Anche in squadra. Le prime volte che andavo con la mia squadra – io so’ “passato” con la Fanini ma c’erano dei [gran] professionisti. Ho corso con Baronchelli, con Contini… Non m’hanno mai creato problemi. Poi io ero uno che… Me s’ho dato da fare, insomma. Io andavo forte, non è che ero l’ultima ruota del carro, quindi tevedono… Se tu vai forte, in bicicletta, ti rispettano tutti. Ti rispettano tutti. Poi, ci devi saper fare, naturalmente. Non è che tu c’hai lo sponsor allora te permetti di dire quello, di dire quell’altro o vuoi fare come ti pare».
- Questa è una bella differenza rispetto a Visentini.
«Ti devi saper comportare».
- Saper stare al mondo.
«Eccerto. Se poi tu sei un arrogante, allora poi… Non va bene. E trovi delle difficoltà con le persone, no? Le prime esperienze de vita sono lo sport. Lì t’impari a vivere. Poi, se sei arrogante, lo sei anche dopo, al di fuori, quando finisci deanda’ in bicicletta. E troverai le stesse [difficoltà]…
- Solo che giù di bici non è la stessa cosa…
«Ti devi saper raffrontare, dopo. Quando finisci de anda’ in bicicletta, ti devi saper raffrontare col mondo esterno. Quella può essere un’esperienza, la vita però è un'altra cosa. Se hai un carattere troppo forte, aggressivo, permaloso, nella vita “normale” non va bene; ma non va bene neanche nello sport, eh. Quindi se questa cosa qua non l’hai capita, dopo, nella vita reale, naturalmente te trovi male...».
- E quindi, proprio perché lei sapeva come rapportarsi, con i gregari che lavoravano per lei, che le tiravano la volata, non ha mai avuto problemi?
«No, come io lavoravo per gli altri, lavoravano per me in quelle gare che magari puntavo. Eravamo tutti amici. Io mi sono trovato benissimo nelle squadre in cui sono stato».
- Per quel che possiamo raccontare, perché la sua carriera è durata così poco, specie in rapporto ai mezzi che aveva? Perché a 26 anni un velocista ha ancora margini di crescita…
«Certo. Io ancora ero nel pieno della maturità. Perché lì si parlava di maturità a trent’anni, ed io potevo ancora avere una maturità, dai 28 ai 33 anni, che sarebbe stata l’apice. Io poi sono stato male. In un Giro di Sicilia presi un’infezione, mi vennero piaghe dappertutto perché mi diedero degli antibiotici sbagliati. E ’na cosa e ’n’altra, gli ultimi anni ho sofferto. A una gara andavo bene, in altre andavo male. Mi mancava la continuità perché non digerivo bene quello che mangiavo. E quello è stato un po’…».
- Cioè: non assimilava bene i cibi?
«Non assimilavo. Sì».
- E questo ha inciso sulla decisione di smettere?
«Sì, ha inciso parecchio: un buon cinquanta per cento».
- E l’altro cinquanta? La sicurezza di avere in famiglia un’attività ben avviata?
«Sì, forse quello pure non m’ha fatto tener duro. Perché era un momento che magari, di lì a poco, avrei superato, no? Però poi, sai, devi trovare la squadra. Anche se io nel ’90, quando ho smesso, avevo vinto. Però un conto è quando ti dicono: guarda, te do trenta milioni – di lire, perché all’epoca si parlava di lire – e invece l’anno prima, quando avevi vinto, ne prendevi cento…».
- Un bel salto: ma della quaglia…
«Dico: scusa, io ho dimostrato quello che dovevo fare, anche se poco ma il mio l’ho fatto, ho messo a tacere tutte le chiacchiere che c’erano. Dico: l’attività ce l’ho… Anche quello, come dici te, potrebbe aver inciso».
- Altra analogia con Roberto, qui. Anche lui alla fine, non avendo più certi stimoli e comunque potendo continuare un’attività già ben avviata, insomma un pensierino cominci a farcelo… Torniamo al perché ci ha messo trent’anni prima di risalire in bici. So che il motivo è abbastanza singolare, è bello raccontarlo…
«Allora, io ogni tanto andavo a correre a piedi, okay? Poi, è stato proprio un caso, perché avevo detto: io in bicicletta non ce salgo più. Non so per quale motivo, se ero stanco, se tutte le chiacchiere, se il ciclismo l’avevo visto in un certo modo e oggi non c’è più… Oggi, vai in bicicletta e non vedi più un regazzino che va in bicicletta… Io ho riiniziato… Correndo a piedi m’è venuto un dolore sotto l’arco plantare; vabbè, dico, mo’ me passa, me passa… Sai, abituati a fa’ i sacrifici, da corridore ce correvo sopra. Niente, non me passava. Dico: qua, ragazzi, se sposa mia figlia il 27 luglio, io devo fa’ qualcosa. E allora…».
- L’altro problemino, a parte l’arco plantare, qual era? Qualche chilo di troppo?
«Eh, c’avevo qualche chilo di troppo, sì. Dovevo presentarmi all’altare con mia figlia, non è che potevo fa’ brutta figura. Pesavo 96 chili…».
- Per un metro e…?
«Un metro e settantasei».
- Un po’ troppi, no?
«Eh, un po’ troppi… C’avevo una faccia bella piena, e non va bene. E quindi m’ero messo a correre a piedi. Poi non ci sono più potuto andare. E a giugno del 2018 ho ripreso la bicicletta».
- Trentun anni dopo la vittoria a Jesolo…
«E in quel mese ho fatto tremila chilometri, andatura normale però ho fatto tremila chilometri e me so’ presentato all’altare… in un certo modo».
- Tiratissimo.
«’azzo. Avevo il vestito – perché, sai, ci vai una quindicina di giorni prima, a prendere le ultime misure – che [mi] stava un po’ attillato. Però, in quindici giorni, proprio perfetto. [ridiamo, nda] Stava perfetto. E dico: mo’, quando ho fatto il matrimonio, poi smetto. Invece ancora ci vado. Ancora ci vado, in bicicletta. Adesso m’è ripresa [la voglia]. Me piace. Mepiace farmi belle passeggiate lunghe».
- Con amici?
«Con amici, sì, sì. Con amici con cui correvo da dilettante».
- Ah sì, siete rimasti in contatto?
«Eh sì, ho ritrovato tutti. Poi ho ritrovato anche gente che non sa anda’ in bicicletta. Però quello poco male, dai…».
- Quelli ci sono anche tra i professionisti…
«Sai, tra i professionisti, gente che ci sapeva andare era la maggior parte, qui è gente che ha iniziato tardi e crede di saper andare in bicicletta. Io non gli voglio insegnare niente però devono pure rendersi conto che in bicicletta non ci sanno andare. In bicicletta ci si va in un certo modo. Si va insieme, si va, si cammina insieme, si torna a casa tutti insieme».
- Mi spieghi bene: che cosa intende?
«Poi c’è la rivalità, no? Quello va più forte, quello va più piano. Una volta t’aspettano loro, una volta li aspetti te, ma non si parte, pronti-via e tu il primo chilometro prendi già la fuga a cinquanta all’ora. Che dovemo anda’ a fa’ le corse? Allora, se tu devi fare le corse, ché ci tieni a fare il risultato, allora esci per conto tuo. Non mi chiamare. Non mi invitare ad uscire con te. Capito?».
- Io pensavo si riferisse ad aspetti tecnici, amatori che sbagliano nei fondamentali...
«Oltre a questo, anche che non sa anda’ in bicicletta. Perché in bicicletta non se va a cinquanta all’ora dove c’è il traffico, dove ce stanno i semafori, dove ce sta la siepe, il lungomare… E che stai rasente al lungomare, sulla siepe… Tu devi camminare al centro, perché se esce un animale, un cane, un qualcosa, tu vai tutti per terra. Io quando esco con ’sta gente qui, io sto sempre davanti. Io sto sempre davanti. Se non sto in prima posizione, sto in seconda posizione. Non me la rischio. Perché uno che c’ha un’attività, non ti puoi rischiare. Qua oggi se caschi ti fai male, eh. Gente che è andata a fa’ Rocca Massima col ghiaccio, è scesa col ghiaccio e s’è rotta la clavicola. E c’ha un’attività. E poi che raccontiamo ai figli che stanno qui nell’azienda, e che je racconti? Dopo, dalla ragione passi alla parte del torto».
- Visentini correva sempre a destra o a sinistra mai nella pancia del gruppo, perché aveva paura. Roche invece era un artista del limare. Se lo ricorda? E lei invece in gruppo come correva?
«Sì, lui c’aveva un po’ paura. No, a me piaceva limare la ruota, stavo bene dentro al gruppo, ero un velocista quindi sapevo… Ho fatto tanta pista, da giovane. M’ha dato tanto, la pista».
- Altra differenza col Visenta, questa. Lei si rivede in qualche corridore di oggi, come caratteristiche? Penso per esempio, con le differenze del caso, a uno come Viviani, capace di vincere ad altissimo livello sia in pista sia su strada.
«Mah, io non…».
- Non ci si rivede?
«No, sarebbe troppo. Confrontarsi con uno di oggi sarebbe troppo. Come si dice, arrogante? Ognuno ha fatto la sua stagione… È un ciclismo moderno, è tutto diverso. Noi ci allenavamo tutto a sensazione. C’erano i primi test che si facevano, il cardiofrequenzimetro…».
- …che era uno scatolone…
«Oggi tutti fanno i test, si esce e si fa il test. Si fa l’allenamento in test, con le tabelle. A me sembra un po’ esagerato. Magari una via di mezzo, secondo me, sarebbe meglio».
- Lei correva tutto l’anno, dal Laigueglia al Lombardia?
«Sì, sì. Ma il Lombardia non l’ho mai fatto».
- La sua stagione allora quando finiva?
«Finiva a ottobre, le ultime corse che facevamo. Non mi ricordo se era il Lombardia o se c’era qualche gara prima. Stamo a parla’ de trent’anni fa, eh. Poi, in questi trent’anni so’ stato proprio fuori, completamente fuori».
- Il ciclismo non l’ha più seguìto, neanche alla tv?
«Alla tv l’ho seguìto. Però, dopo otto anni, è morto mio padre Roberto e quindi mi son dovuto mettere… Morto mio padre, nel ’98 mi son dovuto mettere anima e corpo nell’attività, no?».
- Lei è figlio unico?
«No, ho una sorella».
- Mancato suo padre, l’attività di famiglia era tutta sulle sue spalle?
«Sì, perché mia sorella dopo [ne] è uscita. Se n’è andata, so’ rimasto da solo.
- Non essendoci più suo papà, è anche per quello che ha un po’ abbandonato il ciclismo? O le è venuta un po’ la nausea dell’ambiente?
«No, no… So’ tutte cose… Sono passioni, no? Come a te piace gioca’ a tennis… So’ fasi di vita, poi ti riprendi. Me lo dicevano: Guarda, vedrai, poi a cinquant’anni te riviene voglia. Ma dai, che stai a di’… Eh. Mo’, adesso, se è stato il matrimonio di mia figlia o perché comunque questa voglia di andare in bicicletta mi doveva rivenire… Anche perché, come dicevamo prima, deve essere una cosa salutare, sentivo bisogno di qualcosa. Adesso che ci vado mi sento molto meglio. Sono più dinamico. Quando arrivo al lavoro, sono più brillante, più sorridente».
- Quando ci va, in pausa pranzo o alla chiusura?
«No, io vado la mattina, mi piace andare presto. Mi alzo la mattina presto, fino a mezzogiorno sto in bicicletta. Almeno cento chilometri, centoventi-centrotrenta… A me, se me fai fa’ settanta chilometri, neanche me ne va de anda’ in bicicletta, se devo fa’ solo settanta chilometri…».
- Quante uscite fa a settimana?
«Tre volte: martedì, giovedì e sabato o la domenica».
- Esce con qualsiasi tempo?
«Nooo. Ecché torniamo al discorso: che, dobbiamo fa’ le corse? Se piove, piove…».
- Torniamo alle squadre della sua epoca: la Carrera era così “grande” rispetto alle altre? Oggi la forbice tra chi è nel World Tour e chi no è enorme. Allora invece facevate tutte lo stesso campionato: la piccola Fanini poteva correre contro le big…
«Ti potevi confrontare coi forti. Anche se non avevi la possibilità di andare in una Carrera, in una Del Tongo, in una GiS, comunque ti potevi raffrontare con quelli. E tu hai vinto in mezzo a quelli che c’avevano delle squadre molto più forti delle tue. Però ci potevi stare. Oggi neanche gli danno la possibilità. E dopo a questi dicono: Guarda, io il Giro d’Italia non lo posso fa’. E dove li trovano i soldi, con ’sta crisi che c’è? Non lo so, non sono addentro però vedo che la cosa, oggi come oggi, nel ciclismo è molto complicata. Il ciclismo è molto complicato».
- Quindi al di là delle sue uscite da cicloamatore, il ciclismo professionistico non lo segue più neanche da appassionato o da semplice spettatore?
«Lo seguo, guardo il Tour, guardo le gare importanti perché mi piace, perché avendolo fatto capisci com’è la dinamica della corsa e tutto quanto, e mi piace; ma non lo seguo da vicino».
- E la diverte ancora?
«Sì. Meno, naturalmente, perché non vedo un italiano, vedo questi altri, tutti stranieri. Ma sai, gli italiani sono due o tre. ’na volta ce n’erano ’na marea de italiani. Eravamo i più forti. Adesso vanno forte gli inglesi. Gli inglesi? Là non c’era il ciclismo, almeno che io sappia. Di ciclismo non c’era una squadra, in Inghilterra. O non c’era un ciclista proprio, in Inghilterra».
- A parte Tom Simpson, Barry Hoban, Reg Harris e poche altre eccezioni, specie in pista…
«Poca roba. Come una volta non c’erano gli americani, poi so’ arrivati gli americani. Poi ci so’ stati pure quelli forti, no? Però il ciclismo era italiano».
- Però è cambiato il mondo…
«È cambiato tutto, certo. Però qui la scuola del ciclismo non c’è più. Ti dicevo prima a microfono spento: prima noi andavamo alle corse, la domenica, e sceglievamo la corsa. C’erano dieci-quindici corse. Oggi non c’è più ’na corsa, per ’sti ragazzini…».
- Ha mai pensato di fare come fece suo papà, cioè mettere soldi nel ciclismo e formare una squadra? Nel suo caso aveva il figlio corridore, lei ci hai mai pensato?
«No, io c’ho pensato e ci penso molto, no?, a fare una squadra e… E però, vedi…».
- Che cosa la frena? Se c’è, qualcosa che la frena…
«Mi frena chi dice: se l’ha fatto tuo padre lo devi fare te… Io sono una persona, mio padre era un’altra persona».
- Per questo gliel’ho chiesto. Ci ha mai pensato o il paragone magari la schiaccia?
«No, non mi schiaccia però vorrei fare qualcosa di diverso. Perché sennò, per come vedo io il ciclismo, se l’ha fatto mio padre è come se l’avessi già fatto. Quindi vorrei fare una cosa diversa, anche perché io sono un’altra cosa. Io nella vita la penso in quel modo lì, no? Cerco di fare altre cose. Se mio padre ragionava in un modo io vorrei ragionare in un altro. Io sono io, lui era lui. Ti pesa pure questo raffronto, perché mio padre era una persona in gamba. Molto in gamba».
- Com’era, di carattere? Vi scornavate o andavate d’accordo?
«Io mi [ci] scornavo e ci andavo d’accordo. Non avevo grossi…».
- E non l’ha mai condizionata?
«No, non m’ha mai condizionato. Un carattere forte, naturalmente, no? Di quelli de ’na volta. Eh, di quelli de ’na volta. Però a volte me dicono: dai, rifa’ la squadra, perché tu’ padre… Già se me dicono così, mi dà fastidio. Me dà fastidiooo. Dico: guarda, se l’ha fatto mi’ padre, perché lo devo fa’ per forza io…? Quando mi andrà lo farò, ma come dico io. Come lo dico io, ancora non lo so, ma ci sto pensando».
- Già però il solo fatto che ci pensi è una spia di qualcosa, no?
«Sì. Me vojono fa’ fa’ il presidente del Comitato regionale. Il presidente [Antonio Zanon, nda] m’ha detto: m’hanno detto che te candidi al Comitato regionale… “Sì, ma me so’ candidato anche a presidente del Consiglio, ma non te l’hanno detto quello?”. Qui escono delle cose…».
- Mi ricorda Silvio Martinello e le voci su una sua presunta candidatura alla presidenza federale per il dopo-Renato Di Rocco…
«Guarda, a livello locale vengono fuori delle cose...».
- La tirano un po’ per la giacchetta?
«Sì, sì… Io c’ho ’n’attività, che oggi è quello che è. Le difficoltà so’ tante, non è più come una volta…».
- Mi parli della sua attività. L’edilizia è un campo che non conosco.
«Ho rilevato quest’attività. L’azienda di famiglia è questa. Io l’ho migliorata. Ho rifatto i locali. Ho fatto un consorzio d’acquisto con altri tre punti-vendita, quindi siamo tre… È un consorzio d’acquisto: comprando insieme abbattiamo un po’ i prezzi, no?».
- E lei ne è il presidente?
«Io sono vicepresidente, responsabile delle convenzioni, dei contratti con le aziende».
- Per capire: siete un consorzio di grossisti?
«No, di punti-vendita: di magazzini come il nostro. Siamo dei punti-vendita e ci siamo messi assieme per poter venire da te, che sei un marchio importante, un’azienda importante, e contrattare magari un prezzo, un premio a fine anno, un qualcosa di questo tipo. Oggi all’azienda bisogna stargli appresso, non è più come una volta che c’avevi più spazio, c’era più lavoro, c’era meno crisi. Quindi tu c’avevi molto più tempo per fare altre cose, che riguardavano lo sport, che ne so, del ciclismo, potevi fare queste cose qua. Oggi qui ci devi stare ventiquattro su ventiquattro».
- Ha detto che c’è crisi, che tutto è più difficile: perché?
«Per la crisi del settore. Sono dieci anni che andiamo avanti con la crisi forte. Forte perché il mercato è quello che è, la grande concorrenza. E le tasse ci ammazzano, la gente spende sempre meno e quindi devi trovare delle soluzioni, te le devi inventare».
- Che cosa intende con stare qui 24 ore su 24?
«Oggi con un’attività commerciale devi sta’ 24 ore con la lampadina accesa. Ti devi inventare. Ci pensi anche la notte. Ti svegli e pensi. Quando c’era meno concorrenza tu c’avevi guadagni molto più alti, c’era molto più lavoro. Quindi potevi staccare un po’ di più. Oggi ti devi specializzare. Devi stare sempre appresso alle nuove tecnologie, internet, social network, e-commerce. E quindi devi fare tremila cose, oggi. Ti devi specializzare. Non va più un determinato canale di vendita, lo devi differenziare e ti devi specializzare. Oggi la nostra differenza da un GDO, la grande distribuzione, è la specializzazione. Allora, se ti specializzi in un canale, non hai concorrenza. E devi essere preparato, devi studiare, devi leggere».
- La sua è un’azienda a conduzione familiare?
«Conduzione familiare: ci sono io, ho quattro figli di cui tre sono in azienda. E così posso uscire in bicicletta. Perché sennò come facevo a uscire in bicicletta?».
- Vede che tutto torna?
«È venuto tutto preciso. Perché fino all’anno scorso, fino a due anni fa, ancora i ragazzi studiavano. Una s’è laureata, l’altra s’è diplomata, stavano tutti a scuola. Adesso hanno smesso di andare a scuola e stanno in azienda e quindi io so’ più libero per pote’ anda’ in bicicletta. Ma io in bicicletta penso. Mi rilasso e penso».
- Mi racconta qualcosa del suo ciclismo che le piacerebbe leggere o che venisse raccontato?
«Mah… più che raccontato, più che leggere, mi piacerebbe rivedere il ciclismo nostro con più corridori italiani, più giovani che vanno in bicicletta. A me piacerebbe rivedere questo. Essere ancora amante e appassionato di questo sport. E mi piacerebbe vedere meno politica e più fatti concreti e aiutare ’sti ragazzi a anda’ in bicicletta. Rifare la “scuola”, anche nelle scuole. Non so, mi piacerebbe rivedere ’sto ciclismo risollevato. Perché il ciclismo è sempre stato uno sport con la più alta concentrazione di appassionati. O di “visitatori”. O di quelli che vedono soltanto il ciclismo. Se tu vedi il Giro d’Italia: quanta gente hai, milioni di persone…».
- Tra l’altro ben disposti, sempre con un sentimento di festa, no? Non si va come allo stadio a far la guerra, tranne qualche idiota che dà fastidio ai corridori… Per chiudere il discorso su tutte le balle che si dicono quando uno viene da un background, diciamo così, non privilegiato, quanto l’ha condizionata la fama di “figlio di papà”? Non troppo, da quel che mi ha detto…
«No, essere passato per lo sponsor che mi portavo dietro, non m’ha condizionato. Mi ha spronato a fare meglio, per me».
- Sono andato a rileggermi alcuni titoli dell’epoca. «Cimini dimostra che non conta solo papà». «Cimini ha dimostrato di non essere passato professionista grazie ai soldi del padre». Tutti uguali...
«Sì, tutti uguali. Perché una volta vedevano soltanto questo».
- Poi, capirai, bel ragazzo, occhi chiari, soldini in tasca… L’associazione era immediata, sin troppo facile…
«Sì, sì, perché una volta era più… Ce n’erano pochi di questi che “passavano”».
- E quindi c’era bisogno dell’etichetta per “tirar fuori” la storia?
«No, non hai bisogno dell’etichetta. Però una volta era proprio l’etichetta che faceva la differenza, perché erano pochi quelli che “passavano” con l’aiuto. Oggi ci sono corridori che gli dici: quanti soldi me porti?, e te faccio correre? Cioè, anche lì, si è modificato tutto, no? Come il mercato dell’edilizia anche nel mercato dello sport si è modificato tutto. Ma non solo nel ciclismo, in tutti gli sport. Questo è un bene un male? Io non lo so. Però la differenza, ti posso dire, è che io non lo facevo per soldi».
- Per passione?
«Per passione».
- Anche Roberto, ancora adesso.
«Anche Roberto. E dovremmo essere [stati noi] quelli da premiare. Invece di essere, quell’altri, tutti mercenari: quanto me dai che corro con te, o quanto non me dai che corro per te. Noi correvamo per passione…».
- O quelli che le corse le vendevano.
«O per vende’ le corse. Perché se vendevano le corse. Prendevano i soldi, erano tutti mercenari».
- Oppure i soldi magari li non prendevi però lasciavi vincere quello che ti prometteva di portarti poi ai ben più remunerativi circuiti, no?
«Eccerto. Noi eravamo puliti».
- A differenza del Visenta però, lei sapeva farsi voler bene, lui magari un po’ meno…
«Ripeto: io sono stato benissimo in tutte le squadre in cui ho corso, sia alla Fanini, sia alla GiS Gelati, sia alla Jolly Componibili».
- Mi fa un confronto fra i patron che hai avuto?
«Pazzi, tutti quanti».
- Persino il commendator Pietro Scibilia?
«Scibilia io l’ho conosciuto poco, lo vedevo poco».
- Lei era già a fine carriera, no?
«Sì. Però erano tutti un po’ pazzi. Per investire, o buttare soldi, nel ciclismo… Dove li trovi più oggi? Dove li trovi più?».
- Era anche un’altra Italia, eh…
«Sì. Era un altro mercato. Era tutto diverso. Secondo me bisognerebbe fa’ un passetto indietro, anche mezzo passo andrebbe bene; ma a tutti i livelli».
- Oggi però nessuno sponsor direbbe mai che per l’azienda è più importante il Giro di Puglia che il Tour…
«No, non intendo questo. Però bisognerebbe fare un passetto indietro per ridimensionare lo sport in generale. In generale…».
- Ad altissimo livello, la vedo dura. Perché un immenso carrozzone come il Tour come fa a tornare indietro? Ormai è un gigante che fagocita se stesso…
«Dicevamo prima, non so se l’avevi registrato, che oggi sì, sono squadre “di Stato”. Parlandone con un procuratore ci trovavamo d’accordo, anche lui me lo diceva: Sì, ma sono tutte società che si reggono su palafitte. Non perché non hanno i soldi, ma perché domani, se cambia un ministro, cambia un presidente del Consiglio, la squadra è finita. Perché può darsi che il ciclismo non gli interessi più».
- Questo però può valere anche per gli sponsor privati. Faccio un esempio illustre: il Team Sky, che con un budget di 35 milioni di euro annui è un pianeta a parte, a fine 2018 chiuderà, anche perché Sky non è più di Rupert Murdoch, il cui figlio, James, è un grande appassionato di ciclismo. Ora: alla nuova proprietà di Sky, il colosso Comcast, il ciclismo non interessa. E quindi se James Murdoch vorrà fare una squadra, dovrà farlo con i propri soldi…
«Io penserei meno ai soldi e più a trovare dei corridori che ti fanno divertire, in televisione».
- Eh, ma i Sagan non nascono come i funghi…
«No, tu quei corridori li dovrai pagare, naturalmente. Però penserei meno ai soldi e al business, tipo la Sky e queste grandi squadre, e più a far nascere…».
- …dei personaggi che oltre a vincere sappiano anche trascinare?
«Esatto. Costruiamo dei personaggi».
- Cioè quello che Moser, Saronni, Hinault hanno fatto per il vostro ciclismo…
«Quello che ha fatto Cipollini, coi pro e i contro e tutto quanto. Però erano personaggi che facevano innamorare il tifoso. Io non vedo più nessuno. Leva Nibali, poi chi ce sta? Aru? Poi? Io non vedo un ricambio generazionale».
- Lei ha detto che mentre va in bicicletta pensa e che nel ciclismo vorrebbe fare qualcosa di diverso. Che cosa? Non ha ancora trovato una chiave?
«No, non ho trovato una chiave…».
- Si riferisce però più all’attività di base, ai ragazzini o a quella di vertice, ai professionisti?
«No, io penso molto più ai ragazzini. Perché devi trovare, devi ricostruire il vivaio, dalla base. Qui a Roma è molto complicato ma in Italia ci sono delle regioni che son sempre state forti a livello giovanile. Ma in questi anni ne vedo sempre meno. Sempre meno corse. Oggi una squadra del Lazio, per esempio, deve andare a correre in Toscana perché qui non c’è una gara; o in Toscana, o in Lombardia, o in Emilia. E poi ce sta una gara ogni quindici giorni, magari non c’è più… Ne mancano ogni settimana, cioè: de che stamo a parla’?».
- Perché cercano di metterla in mezzo? Vogliono affidarle degli incarichi? E in che ambito, politico-federale? Qualcosa del genere?
«Ma non lo so…».
- Lei però ci si vedrebbe in quei ruoli?
«Ma io sì, mi ci vedrei, ma proprio non sono interessato. Dice: Oh, ma ti sei candidato per il presidente del Comitato regionale? Ma guardate, state tranquilli perché per me chi c’è adesso [Antonio Zanon, nda] ce po’ sta’ a vita eterna, perché a me non m’interessa proprio. Io gli ho detto: Guardi, me so’ candidato pure a presidente del Consiglio, non solo a presidente del Comitato regionale. Me fanno ridere, guarda…».
- Mi dia una bella chiusa sul suo amore per il ciclismo, su cosa ha significato per lei nei suoi pochi, ma direi intensi anni da pro’. Quello che pensa, così, in libertà…
«Sarà retorica ma il ciclismo ti dà tanto. Ti dà la disciplina, il sacrificio. È un insegnamento di vita. Un insegnamento di vita che, se tu non lo provi, se i ragazzi di oggi non lo provano, non glielo sai neanche spiegare. Perché è complicato spiegarlo. Perché tu, per avere questa scuola, ce devi solo anda’, in bicicletta…».
- Oltre a darti tanto, ti togli anche qualcosa? O il saldo costi/benefici è sempre positivo?
«No, no. Io penso che nella vita, sai, di sacrifici se ne fanno tanti. Di sbagli anche se ne fanno tanti, però quello che il ciclismo ti dà, ritornando proprio allo sport – e penso anche ad altri sport, però avendo fatto quello, parlo del ciclismo – è che t’insegna tutto. Ti ritrovi bene anche nella vita. Naturalmente se non sei un pazzo. Perché se sei te pazzo, come quando andavi in bicicletta sarai pazzo anche fuori».
- Si è spiegato...
«Mi sono spiegato, no?».
CHRISTIAN GIORDANO
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