Martinello, meno male che (questo) Silvio c’è


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

Fuoriclasse su pista e al microfono, gran velocista su strada. Già questo basterebbe a inquadrarlo, ma Silvio Martinello è stato - ed è - molto altro, e di più.

Padovano di Tencarola, frazione di Selvazzano Dentro, classe ’63, passa pofessionista nel 1986. In 18 stagioni: quattro giorni in rosa nel ’96, il suo anno magico, 19 vittorie su strada (due al Giro, una alla Vuelta; lo zero al Tour il suo unico cruccio) e centinaia su pista, fra i quali spiccano l’oro olimpico di Atene ’96 e il bronzo a Sydney 2000, 6 titoli mondiali (compreso l'oro ai mondiali militari), 14 nazionali e le 28 Sei Giorni (16 in coppia con l’amico fraterno Marco Villa), miglior italiano all-time a +3 tre su Nando Terruzzi, mito anni Cinquanta.

Nel 1999 apre nella sua Selvazzano il centro benessere Atletico, ed è lì che vado a trovarlo. Per farmi raccontare il Giro ’87, che lui ha corso in gruppo, ma soprattutto la sua seconda vita professionale. In Rai dal 2003, passa prima voce tecnica undici anni dopo, quando Davide Cassani diventa Ct della nazionale.

Quando ci incontriamo per una lunga chiacchierata, siamo in piena rivoluzione Rai Sport. Con il nuovo anno, il nuovo direttore Auro Bulbarelli – con una di quelle offerte che non si possono non rifiutare – lo mette nelle condizioni di andarsene. O, come magari direbbe Silvio nel forbito italiano che lo contraddistingue, lo porta a decidere di interrompere la collaborazione.

Sei mesi dopo, come gli ho poi detto al telefono appena me l’hanno comunicato, mai e poi mai, neanche nei miei sogni professionali più reconditi, avrei pensato che, di lì pochi giorni, nel giugno 2019, me lo sarei ritrovato accanto in sala speaker a Sky Sport come mia voce tecnica per commentare le prove maschili su strada in linea e a cronometro dei Giochi Europei di Minsk. 

Nessuna sorpresa nel confermarsi, nonostante il brevissimo preavviso, un fuoriclasse preparatissimo. Tutt’altro che scontata, invece, e credo reciproca, l’immediata alchimia che è scattata. Al suo fianco mi sono sentito un piccolo “Panca”, e credo che ai telespettatori tale affiatamento e il trasporto figlio della comune passione siano arrivati. Il resto l’hanno messo gli straordinari azzurri del Ct Cassani (Niccolò Bonifazio, Marco Canola, Dario Cataldo e Mattia Cattaneo) che ci hanno regalato il meraviglioso oro di Davide Ballerini.

Qui, l’intervista in cui l’argomento Sappada è presto diventato un pretesto per spaziare nel ciclismo di ieri e di oggi. Al solito, il sale vero è nel confidenziale, che tale rimane e rimarràIl fondamento del mestiere – e direi della vita – è la fiducia. Rotta quella, vien giù tutto. Meno male che Silvio - questo Silvio - c'è.

Palestra Padova Atletico
Selvazzano Dentro (Padova), 5 dicembre 2018

- Silvio Martinello, iniziamo da dove l’hai fatto tu: come ti sei innamorato della bici e del ciclismo?

«È stato un avvicinamento molto, per certi versi, anche casuale. Ovvero io come molti ragazzini adolescenti giocavo a calcio, nella squadra qui del paese. Io vivo anche, qui. Siamo a Tencarola, come frazione. Alla vecchia polisportiva Tencarola c’erano tante discipline sportive e una di queste era il calcio. Come molti facevano e continuano a fare, t’iscrivi alla squadra di calcio… Qualche anno con questa passione – che ho ancora, io seguo abitualmente il calcio – dopodiché è arrivato, un anno, un allenatore che non mi vedeva molto, quindi facevo spesso panchina».

- Si vede che “Panca” era nel tuo destino… [sorridiamo per il riferimento a Francesco Pancani, storico telecronista con cui Martinello ha fatto coppia in Rai, nda]

«Esatto. E contemporaneamente, vicino a casa mia, più o meno dove abito ora, venne a vivere un ragazzo che correva in bicicletta e che è da poco scomparso, Gerardo Lucchini. Un ragazzo toscano che con la famiglia si era trasferito qui [Lucchini è mancato nel 2012, nda]».

- E ci sei diventato amico?

«Sì. Siam diventati amici e vedevo lui che usciva in bicicletta. Era tesserato nella categoria esordienti e con una squadra che faceva riferimento a un negozio di biciclette – importante – qui di Padova. Si chiamava Cicli Morello e ogni tanto uscivo con lui. Io con la mia bicicletta normale, lui con la sua bicicletta da corsa».

- Quanti anni avevi?

«Tredici». 

- Subito pronto quindi per gli Esordienti?

«Esatto, pronto per gli Esordienti. E così feci. Perché poi convinsi mio padre [Luciano] a comprarmi una bicicletta da corsa, usata, in un negozio, sempre qui vicino. Andavo a vederne una tutti i giorni…».

- Quindi non provieni da una famiglia in cui c’era passione per il ciclismo?

«No, no… Mio padre ha sempre avuto passione per il ciclismo ma non ce l’ha mai tramandata più di tanto. Lui aveva la passione di andare in bicicletta, non ha mai corso, non ha mai praticato, però, all’epoca, nell’immediato dopoguerra, si andava in bicicletta».

- E poi qua, storicamente, è terra di ciclismo…

«Certo, ma poi si usava la bicicletta. Nell’immediato dopoguerra era, diciamo così, “il” mezzo di trasporto».

- Hai fratelli?

«Ho tre fratelli, io sono il maggiore. Nessuno di loro ha mai corso in bicicletta. Sono stato io l’unico. Iniziai per caso quest’avventura, mi tesserai anch’io; inizialmente avevo sia la tessera come calciatore con la Polisportiva Tencarola, sia la tessera da ciclista da esordiente con la Cicli Morello. Il sabato andavo, quando avevo la convocazione, spesso facevo panca ma ogni tanto entravo anche, e la domenica andavo a correre».

- E dunque non sei della scuola di pensiero secondo cui in calcio e ciclismo lavorano muscoli antagonisti e quindi le due discipline non vanno d’accordo?

«No, lo sono diventato. Lo sono diventato perché mi accorgevo…».

- …che le gambe eran dure: posso confermare.

«…che le gambe eran molto dure. Perché mi allenavo anche, durante la settimana – i due allenamenti canonici la settimana – ma in pratica non concludevo niente né da una parte né dall’altra. E al termine di quella stagione decido di lanciarmi nel ciclismo».

- Quando hai cominciato a capire che andavi forte?

«Dopo qualche anno. Perché le prime esperienze, al di là di queste, poche, occasionali, in cui giocavo a calcio e correvo in bicicletta, e che possiamo anche non contare, anche quelle successive, in cui correvo solo in bicicletta, da esordiente secondo anno, furono veramente disastrose. Mio padre, che era molto entusiasta, era lui che mi accompagnava alle corse. Una volta nelle famiglie c’era un’organizzazione molto diversa rispetto adesso. Ancora adesso le famiglie sono importanti però anche le squadre di esordienti, di allievi, sono organizzate con i loro pulmini. Noi invece lì eravamo un po’ “artigianali” all’epoca. Mi portava a correre e non concludevo mai niente. Non solo mancavano i piazzamenti, i risultati, io faticavo a terminare le corse. Cioè non riuscivo a… Mi andava in fuga il gruppo, come spesso amiamo dire anche in telecronaca per scherzare. E proprio quello accadeva. E mio padre: guarda, Silvio, sì, insomma, non è necessariamente obbligatorio che continuiamo a perdere le domeniche…». [gli scappa da ridere, nda]

- Te l’ha fatto capire velatamente… [ridiamo, nda]

«Puoi coltivare la tua passione anche in altro modo, insomma…».

- Anche perché con altri tre figli cominciava a essere un certo impegno se anche gli altri avevano…

«…le loro esigenze».

- Ecco, mettiamola così.

«Allora io invece insistevo. Passai di categoria: allievo. Il primo anno da allievo iniziò in modo disastroso però poi iniziai perlomeno a riuscire a rimanere nel gruppo, a far sì di non staccarmi dal gruppo che tranquillamente se ne andava. E il secondo anno da allievo cominciai a vincere delle corse».

- Avevi completato lo sviluppo fisico?

«Ecco, arrivavo al punto. A questo. Cioè: fisicamente ho avuto bisogno di maggior tempo rispetto ai coetanei. E il ciclismo, soprattutto a quell’età, è anche quello. Chi fisicamente è più (o già) strutturato fa la differenza».

- E bastano pochi mesi di differenza, a quell’età lì.

«Esatto. Nel secondo anno da allievo conquistai i primi successi, i primi piazzamenti. E già erano delle cose fantastiche».

- E tuo papà comincia perlomeno a…

«Comincia a entusiasmarsi, anche se è sempre stato un genitore... Sia lui sia mia madre, che poi ha iniziato a seguirmi, anche perché anche i miei fratelli erano cresciuti e non avevano più bisogno di essere accompagnati o quant’altro, son sempre stati dei genitori molto… Sapevano stare al loro posto».

- Sei stato fortunato.

«Sì, da quel punto di vista son stati eccezionali. Da allievo cominciai a vincere, tra l’altro, anche corse interessanti. E non necessariamente su percorsi pianeggianti, anche se poi son diventato, son stato riconosciuto, soprattutto come velocista. In quelle categorie riuscivo a fare cose interessanti anche su percorsi più impegnativi. Diventai, in provincia, anche uno degli elementi più ambiti dal punto di vista del ciclo-mercato per il passaggio alla categoria juniores. Andai a correre in una squadra gloriosa, la Ciclisti Padovani. Per i due anni da junior e i primi due da dilettante, una volta si chiamavano ancora così».

- C’erano prima e seconda serie, all’epoca.

«C’erano i seconda serie. Poi, quando acquisivi un certo punteggio, passavi di prima serie. E furono anni molto interessanti perché ebbi la possibilità di lavorare a fianco di direttori sportivi che avevano, che hanno, fatto la storia del ciclismo italiano: Severino Rigoni, il figlio Olimpio Rigoni… Ho imparato molte cose. Lì il ciclismo iniziò a diventare [per me] qualcosa di più che una semplice passione. Infatti, abbandonai la scuola e quello è stato un errore».

- Che scuola frequentavi?

«Frequentavo il liceo classico [Tito Livio]…».

- Ah, qui si spiegano tante cose della tua seconda carriera.

«…e non ho mai terminato il percorso scolastico».

- Quindi lì già avevi capito che il ciclismo poteva diventare per te un mestiere?

«Sì, però lì feci una scelta molto, molto rischiosa. Senza dubbio. Ricordo che una sera chiamai mio padre e gli dissi: Stasera usciamo, avrei bisogno di parlarti. Mio padre e mia madre nel frattempo si erano separati. Io vivevo con mia madre e quindi a lei già l’avevo detto. Uscii con mio padre e gli dissi che volevo abbandonare la scuola e puntare su questo, che tra l’altro non mi stava dando delle grandissime soddisfazioni ma più che altro perché da parte mia mancava l’impegno…».

- Il liceo classico non era la scuola giusta per te, o non era quella la tua strada?

«No, credo… Era un momento della nostra vita in famiglia, con la separazione di mio padre e mia madre… È un attimo perdere i punti di riferimento…».

- Soprattutto a quell’età.

«Soprattutto quando sei in un’età adolescenziale. Infatti, i miei fratelli hanno avuto anche più problemi da questo punto di vista. E la bicicletta mi ha comunque aiutato anche a trovare un riferimento che mi prendeva, che mi ha preso molto».

- Se posso, perché è un argomento delicato e personale: dopo, come accade a tanti in queste situazioni, con gli anni i rapporti sono tornati buoni con entrambi i genitori?

«Sì, sono buoni anche se…».

- Perché poi capisci cose che a quell’età magari era difficile comprendere…

«Diciamo che le avevo capite in modo corretto già all’epoca e che ero portato a dare dei giudizi che poi con il tempo si sono un po’ stemperati. E che si sono rivelati un po’ troppo… Giustamente poi non hai la maturità per capire certi passaggi. Però furono anni complicati, difficili. Io però feci questa scelta. Mio padre era contrario ma ero già maggiorenne e quindi: Guarda, te l’ho solo comunicata, non è che ti ho chiesto una sorta di parere, ecco».

- Eri già in grado di mantenerti? Col ciclismo, intendo.

«Sì, fortunatamente sì».

- Questo ti ha dato anche una certa forza?

«Questo mi ha dato una certa forza. Ma sai, dopo, avendo fatto tutto il percorso, se mi guardo indietro devo dire che le cose mi sono andate bene. Sono stato fortunato. Io vedo tanti giovani ora, come li vedevo allora…».

- Magari con tanto talento ma…

«Eh sì. Non c’è niente di matematico. Anzi. Conosco molti miei coetanei che avevano un talento maggiore rispetto al mio, che poi, tutto sommato, io mi sono “creato” più con l’impegno, con la determinazione, perché madre natura non mi ha dato mezzi straordinari, eccezionali… C’era chi ne aveva molti di più e non è riuscito a fare niente o molto poco. E quindi è sempre una scelta rischiosa. Io ho tre figli e ho sempre cercato… Non mi sono mai trovato in questa situazione. Sono tutti e tre più che maggiorenni e hanno le loro strade, non mi sono mai trovato – fortunatamente – in questa situazione, perché credo che avrei assunto una posizione che sarebbe stata quella di cercare di sconsigliare, o in qualche modo di ripensare, delle decisioni o delle scelte. Poi i miei figli hanno fatto un percorso scolastico netto, sono laureati, hanno la loro strada».

- Nessuno di loro ha a che fare con lo sport?

«Il più grande ha corso in bicicletta fino a dilettante, tra l’altro con discrete possibilità. Un fisico un po’ gracilino, riusciva a rendere quando tutto era a puntino, però nello sport – non solo del ciclismo, in generale – non sempre sei a puntino. Ora che è maturato, ha quasi trent’anni, un lavoro stabile e ha fatto tutto il suo percorso di studi e quant’altro, e che ha anche un fisico da trentenne, ecco ora probabilmente potrebbe provare. Però ormai è passata. Ha una grande passione».

- E quel cognome è stato un fardello pesante?

«Io ho cercato sempre… Se mio padre è stato molto attento a rimanere in disparte quando non avevo io questo problema, io lo sono stato ancor di più con mio figlio. Quando avevo la possibilità di seguirlo lo facevo veramente in disparte, totale disparte, perché sarebbe stato molto invasivo, e invadente, soprattutto per lui. Tra l’altro un ragazzo che, quando veniva presentato, veniva enfatizzato molto di più e quindi per evidenti motivi suscitava negli avversari, nei compagni di squadra…».

- …chissà quali attese. Se va forte è perché è il figlio di; se va piano, è lì perché è il figlio di ma non è come il padre… Non se ne esce.

«Non se ne usciva mai, ed è stato veramente bravo, a un certo punto, anche perché nell’ambiente giovanile non è semplice trovare... È stato bravo perché a un certo punto lui ha fatto uno stage anche con la Liquigas[1] [nel 2013 si chiamava Cannondale Pro Cycling, nda]. Quegli stage a fine stagione, nel mese di agosto. Poi si era quasi illuso, dopo questo stage, di riuscire a… Invece gli hanno comunicato che avrebbero fatto altre scelte. È ritornato tra i dilettanti – gli élite come si chiamano adesso: under 23 ed élite. Ha fatto un altro anno, ma nel frattempo stava completando il suo percorso di studi. Si è laureato a Trento in economia aziendale, e finché era all’università ha vissuto a casa di Francesco Moser, lì al Maso [Villa] Warth. Gli avevamo preso un appartamento in affitto».

- Perché lì? Gli era comodo?

«Sì, era comodo. Si allenava. È una bella zona. Stava bene. È stato un bel periodo anche quello a Trento per lui. E poi a un certo punto, giustamente, quando invece avrebbe potuto sfruttare, ha deciso… Io non l’ho mai fatto, e se me lo avesse chiesto l’avrei sconsigliato, di utilizzare – diciamo così – le entrature che il padre può avere per fargli ottenere qualcosa, un contratto o… Però, da ragazzo molto intelligente…».

- Sarebbe stato un vivacchiare, vero?

«Sarebbe stato un vivacchiare, invece ha fatto una scelta molto netta. Ha una gran passione per il ciclismo, lo segue ancora. Quando può, quando ha tempo, va in bicicletta. Ha iniziato a mandare in giro curriculum e nel giro di novanta giorni, tre mesi, ha trovato lavoro. Si è trasferito a Roma, adesso è a Milano. Ha iniziato a lavorare in Decathlon come direttore di un centro, adesso è a Nespresso a Milano, dove hanno gli uffici, vicino al Forum, lì ad Assago. E si occupa di formazione all’interno dell’azienda, gira l’Italia nelle varie sedi per andare a vedere le criticità che ci sono e poi con i vari direttori…».

- E davanti alla tv è uno dei tuoi maggiori “critici”?

«Ha poco tempo per seguire. Quando segue, mi dice la sua su ciò che viene detto, su ciò che diciamo. È molto attento. Ecco, qui ho cercato… Il suo sbocco potrebbe essere… Il ciclismo ne ha tanto bisogno. Ci sono state delle possibilità, nel settore manageriale, di entrare nel mondo dello sport, e se fosse stato nel ciclismo [tanto meglio]… E lui infatti a un certo punto aveva provato. C’era una posizione aperta, in Trek – ma Trek azienda, non Trek gruppo sportivo – per una figura di tramite tra l’azienda e il gruppo sportivo Trek-Segafredo. Ha mandato il suo curriculum, però cercavano qualcuno con maggiore esperienza, lui ha ventinove anni…».

- Per fare un ping-pong tra il come eravamo e il come siamo, mi pare che il ciclismo, rispetto alla tua epoca, dal punto di vista della managerialità non è che abbia fatto grandi progressi…

«No, no… Purtroppo no».

- Parlo non soltanto nella “autopromozione” del movimento o degli eventi ma anche della gestione, e non solo del mondo-corse.

«Diciamo che soggetti italiani che possono permettersi… Uno, in effetti, c’è. Sta lavorando, e sta gestendo degli sportivi. Ad esempio la Trek-Segafredo è gestita da un manager italiano [Luca Guercilena, nda]. Delle professionalità interessanti ci sono. È un movimento che ha perso molto terreno. È un ciclismo che è cambiato molto. Prima il ciclismo aveva come riferimento l’Europa, Paesi in cui questa disciplina è nata e ha radici profonde: Italia, Francia, Belgio, Spagna…».

- Basti pensare alle lingue che si parlavano in gruppo, no? Un’istantanea più efficace di quella…

«Esatto. Già li ultimi anni in cui correvo, già si percepivano certi cambiamenti. L’ultima stagione su strada l’ho fatta nel 2000. Poi ho corso fino a febbraio 2003 ma solo su pista. Come professionista avevo il tesserino con Stanga, il team manager della Polti, l’ultima squadra per cui ho corso. Però mi gestivo io con sponsor personali. Ero un individuale, in pratica. E già negli ultimi anni del secolo scorso, del millennio scorso, si vedevano in gruppo dei cambiamenti. Una volta passavano [professionisti] venticinque-trenta corridori, il gruppo si rinnovava per una minima parte. Già negli ultimi anni, ’96, ’97, ’98, ’99, 2000 era un gruppo che tu andavi alla prima corsa stagionale e non conoscevi nessuno».

- Pensa anche a com’è cambiata l’idea stessa di “prima” corsa stagionale: una volta era il Laigueglia. Adesso...

«Certo. Una volta era il Laigueglia, il riferimento era quello. Poi iniziavi al Tour Méditerranéen, ora in pratica c’è continuità. Cioè, volendo, in Asia, in Africa, il mese prossimo iniziano le corse del World Tour, in Australia. Quindi è un calendario veramente… Per certi versi, un corridore ha maggiore facilità a porsi in evidenza in quest’epoca rispetto a una volta. Perché una volta le squadre erano formate, soprattutto quando passavi al professionismo. Già nella seconda parte della mia carriera, alla Mercatone Uno…».

- Si è passati dai tredici corridori per squadra di fine anni Settanta ai trentacinque di quando hai smesso tu…

«Esatto, esatto: sì. Quindi è un ciclismo che ha avuto una grande evoluzione. E che, da tempo, non ha più confini, anche da un punto di vista sia organizzativo sia da dove vengono i corridori».

- E questo influisce anche nella natura del gruppo e quindi delle sue leggi. Prendila con le virgolette, e belle grosse: però un tempo c’era quella cultura anche un po’ para-mafiosetta, no? Cioè: a comandare erano gli sceriffi…

«Era un ciclismo dove c’erano dei riferimenti nel gruppo, dei riferimenti ben precisi. Quando io son passato professionista, la prima corsa che feci fu la Settimana Internazionale Siciliana. Una corsa a tappe di cinque giorni, anche questa una corsa che non c’è più. Terminata quella, si faceva il [Trofeo] Pantalica, si faceva il Giro dell’Etna poi si veniva su: Giro di Provincia di Reggio di Calabria, corsa in linea che non si fa più, Giro di Campania. C’era tutto un percorso, un calendario. Si andava in Sicilia un dieci giorni prima per ultimare la preparazione. E la prima corsa della stagione, il tuo esordio nel gruppo dei professionisti, dovevi andare in testa al gruppo a presentarti. C’era una sorta – diciamo così – di cameratismo e di “nonnismo”. E c’era il povero Miro Panizza che, da vecchio del gruppo ti “interrogava”. Ed era motivo per iniziare subito a farti prendere in giro».

- Tu per carattere eri uno che al gioco, allo scherzo, ci stava o eri un po’ un ribelle?

«Io ci stavo, perché capivo che era l’unica cosa da fare».

- Come a militare. L’hai fatto, no? Hai pure vinto un mondiale...

«Ho fatto il militare, sì. Nella Compagnia Atleti, ’80-81».

- C’era già Angelo Giacomino?

«Sì, c’era già Giacomino. Il generale Giacomino, allora tenente. L’ho fatto a Milano. Car a Barletta, l’unico periodo di militare vero. Trasferimento a Milano nel mese di gennaio…».

- Solo a un mese dal congedo si faceva un po’ la vita da militare vero, no? A stagione agonistica finita...

«Mah, guarda, anche quella è stata un’esperienza bellissima. Allora correvo alla Padovani, tornavamo a casa il venerdì e rientravamo la domenica sera. Ci si allenava tutti i giorni, si usciva in bicicletta tutti i giorni. Poi nel maggio di quell’anno c’erano i campionati del mondo militari, che erano a Gand, in Belgio. Io partecipai a tre specialità della pista: nell’inseguimento individuale vinsi il bronzo, nell’inseguimento a squadre vincemmo l’argento e nella corsa a punti vinsi l’oro, l’unico che riuscimmo a portare a casa. Quando rientrammo, come licenza-premio, praticamente finito il militare. Non sono più rientrato in caserma. Rientrai prima di Natale per ritirare il congedo. Prima di ritirare il congedo dovevamo riconsegnare tutto il materiale, divise… A parte quello che comprai, perché la divisa la comprai come ricordo – eravamo bersaglieri, il che è già un insulto per i veri bersaglieri… [ridiamo, nda] Noi non facevamo i bersaglieri… –, arrivai e il mio armadietto era in pratica divelto, era aperto. Uno scherzo. Andai da Giacomino, e gli dissi: “Tenente, io non c’ho più nulla… Cosa restituisco?”. “Come non c’hai più nulla?!”. “Eh, non c’ho più nulla...”. “…’sti bastardi! Eeeehhh…”, e mi fa: “Allora, mettiti in fila, prima di entrare passi di qua...”. Passai, mi fece entrare in magazzino, mi diede tutto il corredo, misi tutto… E Giacomino mi evitò di pagare tutto il…».

- Torniamo al buon Miro e al tuo rito di iniziazione…

«Miro, da anziano del gruppo, in pratica aveva il compito… Intanto ti trovavi di fronte a uno come Miro Panizza, faccia burbera, non era uno che rideva tanto, eh… Non era uno che rideva tanto. Con tutti i capoccioni del gruppo, là, che intanto si facevano i fatti loro. Perché una volta era un ciclismo che si partiva veramente molto lentamente, prima che la televisione…».

- …prima che entrassero in azione le telecamere e con esse i famosi “uomini-Rai”…

«Esatto. Le corse partivano anche molto presto, al mattino. Oggi invece, per esigenze televisive, ci sono orari diversi».

- All’epoca c’era ancora tempo per ridere e scherzare, e la famosa visita parenti.

«E la famosa visita-parenti. Quando c’era, dovevi andare in testa al gruppo a presentarti: “Silvio Martinello, età…”. E poi c’era la fatidica domanda: che caratteristiche hai? Uno diceva velocista, uno diceva scalatore. Sai, venivi dai dilettanti dove era un po’ diverso. Ed io dissi: sono un corridore abbastanza completo, è stata la risposta. Il coooro – il coro – il coro fu: ah, perfetto, bene, un altro che va piano dappertutto… [ridiamo, nda] Perfetto: torna al tuo posto, e via e poi toccava a un altro. Questo era…».

- Pensavo peggio, dai.

«Questo era l’esordio. Fu l’esordio nella categoria. Oggi queste cose non accadono più. Se succedessero, sarebbe anche magari… Viviamo in un mondo di un certo tipo, vabbè, comunque – giustamente – non accadono più. Però, d’altro canto, io già gli ultimi anni da professionista vedevo, capivo e percepivo, soprattutto quando sei ormai alla soglia dei quarant’anni e rispetto a un tempo hai anche una maggiore prudenza, che anche tante dinamiche erano poi cambiate. Come hanno continuato a cambiare. Sono continuate a cambiare e lo vedi ancora adesso, perché già dalla televisione ti accorgi di come… Le tante cadute che ci sono: sono legate a tante ragioni ma una delle principali è che veramente a volte si va proprio a testa bassa, non c’è rispetto per nessuna minima regola, diciamo così, comportamentale, come sulla strada ci dovrebbe essere, quando guidi un’auto, quando…».

- E tra le cause quindi tu metti anche questo?

«Certamente, ma le vedi proprio, le percepisci proprio. Chiaramente cerco di dirlo senza che nessuno si offenda. Però, sai…».

- Molti non sanno correre. È brutto da dire ma è così.

«Molti non sanno correre. Hanno a disposizione mezzi, tra l’altro, iper-sofisticati e iper-performanti e quindi…».

- Di sicuro ricorderai gli atleti dell’Est cresciuti nel centro tecnico che allora c’era in Crimea: magari avevano i peli delle gambe lunghi così e non erano vestiti proprio all’ultima moda, ma le basi del mestiere le avevano eccome, no?

«E certo. Ora mancano...».

- Prendi Ilnur Zakarin, talento fantastico ma non “sa andare” in bicicletta.

«Non “sa andare” in bicicletta. Ci sono tanti casi…».

- Ci sono ex corridori che lo guardano in tv e si chiedono: ma perché? Eppure il suo diesse, Dimitri Konyshev, arriva da quella scuola. Prima, a parte le basi, non avevano niente. Adesso che hanno tutto mancano quelle. Fa riflettere, no?

«Certo. Ora c’è un sistema in cui questi corridori hanno tutti un procuratore. Un procuratore che si occupa di piazzare sia quelli che hanno corse importanti da gestire, sia quelli che hanno dei contratti…».

- Abbiam preso le storture del calcio…

«Abbiam preso delle storture degli sport professionistici più avanzati, come il calcio, senza avere però… Perdendo di vista quelle che nel ciclismo sono delle cose fondamentali. Le grandi formazioni World Tour hanno sei, sette, otto direttori sportivi. Cioè: ti capita di incontrare un corridore, di vederlo una volta durante la stagione, magari nel ritiro invernale quando fai i programmi, in questo periodo. Adesso sono in ritiro per fare i programmi per la stagione, dopodiché nemmeno lo vedi più… Qualche settimana fa, al Giglio d’oro [premio assegnato dal 1974 al miglior corridore professionista italiano dell’anno, nda], ho visto Valdemaro Bartolozzi, il primo direttore sportivo che ho avuto da prof, nell’86. Era tanto che non lo vedevo, a parte che è sempre uguale… Son andato io in Toscana, a Pontenuovo di Calenzano (il 21 novembre 2018, nda]. E Valdemaro ti chiamava: allora, l’allenamento, com’è andato? [ne imita a bassa voce la parlata fiorentina, nda] O dopo una corsa. Ricordo la prima Milano-Sanremo che feci, nell’86. La Milano-Sanremo che Kelly vinse su LeMond e Beccia. Arrivai nel primo gruppo. Io ero nel gruppo di venticinque corridori che sono arrivati a cinquanta metri…».

- Di quel finale molto “discusso”, diciamo così, che cosa ricordi?

«Sì, mi ricordo… Beh, io non l’ho visto dal vivo perché loro erano scattati sul Poggio. Io sul Poggio ero nel gruppettino che li stava inseguendo, però veramente ne avevo… Ero solo concentrato, diciamo così, a non farmi staccare. Noi alla Sammontana quell’anno avevamo Argentin, che si sentì male alla vigilia e quindi non partì. I capitani erano Paolo Rosola e Tommy Prim. Rosola, gli vennero i crampi salendo la Cipressa e si staccò. Prim cadde salendo il Poggio e su nei tornanti si fratturò una clavicola. Quindi, in casa Bianchi, eravamo davanti io e Alberto Volpi. Io con sorpresa, perché mai mi sarei aspettato, la prima Sanremo, di essere lì. Quando scendemmo dal Poggio, e davanti c’erano sempre i tre che ormai si andavano a giocare la vittoria, ricordo che nelle retrovie, in questo gruppettino di venticinque, c’era Volpi in testa che nel frattempo si girava per capire chi c’ho dietro e chi no. Io gli feci un segno che – infatti io e Alberto ancora ci ridiamo – io praticamente ero… Avevo un po’ di crampi, ero stanco morto, però vedere l’arrivò lì e… feci segno ad Alberto: Continua! Continua! Cioè: tieni alta la velocità, no? E arrivai venticinquesimo [a 23”, nda]. Cioè nella posizione in cui ero, rimasi. Non avevo la forza di rimontare delle posizioni, però gli feci cenno così e Alberto, ogni tanto che ne parliamo, mi dice: mi ricordo che tu mi facevi così… [ride, nda] Ero là coi crampi e non ne avevo più. E ricordo che il giorno dopo Valdemaro mi chiamò e mi disse: Silvio, complimenti: prima Sanremo, giovane, così, non è facile… Queste cose qua credo che ora accadano molto raramente. Molto raramente. Perché ora, sì, il corridore - o i corridori - di riferimento di ogni formazione probabilmente intorno a loro hanno…».

- …tutto uno staff. I corridori di riferimento però, certo non il giovane Martinello della situazione.

«Esatto. Esatto… Molti sono lasciati… Vengono portati non dico come numeri ma insomma, c’era una situazione… Anche perché quando tu hai dei gruppi così numerosi da gestire, perché ora sono di venticinque, ventisei, ventisette [corridori], non è facile gestire e avere sotto controllo tutta la situazione. Tra l’altro corridori che provengono da realtà completamente diverse, perché ormai un po’ tutte le formazioni sono delle multinazionali. È un ciclismo che da questo punto di vista è cambiato molto. Per certi versi era assolutamente condivisibile il concetto di Pro Tour, o di World Tour, cioè di [un progetto di] alto livello per avere un confronto più frequente tra i grandi corridori, ma ha perso di vista un po’… E ora è diventato, anche economicamente, veramente un qualcosa difficile da sostenere. È un progetto insostenibile, a tutti gli effetti. Cioè: noi ci basiamo ancora sulla capacità di alcuni manager di coinvolgere delle aziende, o sull’intenzione di alcuni Paesi – perché tante squadre sono, a tutti gli effetti, squadre-Stato – di promuoversi con lo strumento ciclismo».

- Persino un super general manager come Patrick Lefevere ha faticato per trovare un secondo sponsor [Deceuninck, dal 2019 diventato primo, nda] da affiancare a Quick-Step. E dire che la squadra veniva da un 2018 da 73 vittorie…

«Ha faticato». 

- E fatica Marc Madiot: la FDJ è diventata Groupama-FDJ…

«Fa fatica Madiot. Ci sono tante squadre che fanno riferimento a dei Paesi, vedi Astana [Kazakhistan], Katusha [Russia], Movistar [Spagna], Bahrain-Merida, team UAE [Emirati Arabi Uniti]…».

- Volendo, anche il Team Sky, almeno all’inizio.

«Sai, lì, almeno all’inizio, ora un po’ meno. Non so se la nuova proprietà [la Ineos, nda]… È comunque un modello, Sky, che ha portato delle grandi novità nell’ambiente. Un modello vincente, al di là della capacità di andare a prendere chi voglio, cioè vado lì e prendo, che c’era anche prima. È diventato proprio un modello di gestione. Non solo economica ma anche sportiva. Perché non viene dall’ambiente. Brailsford infatti è un manager, non viene dal ciclismo. Poi che sia appassionato di ciclismo è un altro discorso».

- Però lui ha provato a fare il corridore. Da giovane è andato in Francia come dilettante, ma non aveva abbastanza talento per passare professionista, no?

«Certo, certo. Però, da quel punto di vista, è un soggetto che ammiro molto, sinceramente. Il ciclismo ha bisogno di uomini capaci. E non necessariamente l’aver corso in bicicletta ti aiuta, sotto certi punti di vista; però non necessariamente un più o meno buon corridore ha le capacità per…».

- Per tornare a Dave Brailsford, una sua grande dote è la capacità, o l’umiltà, chiamala come vuoi, di circondarsi di personale super qualificato nei rispettivi settori. E lui gestisce. È un sintomo di grande intelligenza. Sono i mediocri che si circondano di gente che poi finisce per dipendere troppo da chi l’ha scelta…

«Assolutamente sì. Lui ha portato un modello vincente che in tanti altri ambiti esiste».

- Tra il ciclismo di Bartolozzi e quello di Brailsford, per dire due nomi che mi hai fatto, parliamo di epoche e di mondi diversi…

«Assolutamente sì». 

- Il Bartolozzi che ti telefona dopo un allenamento o una gara oggi farebbe la figura del…

«Sì, però per certi versi non è cambiato, se lo guardiamo dall’altro punto di vista. Guarda il punto di vista del corridore: il corridore continua a essere… Meno di un tempo, perché il calendario è molto fitto. Io, per esempio, il primo anno da professionista ho fatto 32-33 gare. Molto poche, e non ho corso il Giro d’Italia».

- Non l’hai corso perché…

«Perché non trovavo posto. Perché correvano in nove, e c’era chi era più esperto e considerato più adatto di me. Non ho fatto certo la scelta migliore, quando sono passato al professionismo, nello scegliere quella squadra. Avevo altre possibilità, però sono stato attratto dal fatto che mi son seduto al tavolo con Felice Gimondi. Era lui che faceva i contratti alla Sammontana-Bianchi. Parli di Bianchi, ti trovi Gimondi davanti, io non ho aperto bocca. Lo guardavo senza nemmeno [dire “a”]… Capito? Quindi… Avevo altre quattro o cinque possibilità. Per esempio, quando la Bianchi dopo i due anni mi lasciò a piedi, andai all’Atala, che era la prima alternativa anche quando ero passato».

- Franco Cribiori quindi ti voleva già allora?

«Cribiori mi voleva già. E all’Atala iniziai a… Perché era una squadra strutturata per… Non che la Sammontana-Bianchi non lo fosse, però lì c’era un capitano, c’era un velocista, c’erano dei riferimenti ben precisi e per un giovane… O tu eri già pronto fisicamente – e io forse, no, anzi, senza forse, non lo ero immediatamente per quel genere di attività – o altrimenti hai bisogno di una squadra dove ci sia maggiore pazienza. E allo stesso tempo, la pazienza…».

- In quell’Atala c’erano Mantovani, Podenzana, i fratelli Claudio e Maurizio Vandelli. Era una bella squadretta…

«Sì, sì. Era una squadra dove ero considerato per quello che potevo dare, e feci il mio primo Giro d’Italia. Feci anche quello successivo dopodiché ci fu un anno, alla fine del 1989, in cui chiusero quattro squadre, tra cui la Bianchi e l’Atala. Fu un anno molto complicato, perché c’erano tanti corridori liberi, senza contratto, a spasso. Ed io ricordo che quella fu una svolta della mia carriera sportiva, perché era un ciclismo dove c’erano anche molte meno garanzie, dal punto di vista economico rispetto a quelle attuali. Io nei primi quattro anni, seppur guadagnando cifre molto modeste, non avevo avuto alcun tipo di problema di gestione da parte sia della Bianchi sia dell’Atala. Erano gestioni molto attente, impeccabili da quel punto di vista. Al termine di quella stagione io facevo parte di quelle diverse decine di corridori che non avevano contratto. E c’era tanta “roba” in giro dove pescare. Ero già sposato. Avevo già il mutuo del mio appartamento. Avevo già un figlio, il primo, che è nato proprio nel 1989 [Niccolò, nato il 1° novembre 1989, nda]. Però ero pronto a smettere di correre, perché non avevo trovato alternative, diciamo così».

- E non avevi ancora ventisei anni.

«Nell’89 avevo venticinque anni. E alle prime proposte che arrivarono, perché qualcuna arrivò, dissi candidamente di no, perché non c’erano le condizioni, dal punto di vista della dignità, della persona, di poter… Sarei stato costretto a fare un notevole passo indietro rispetto già alle condizioni, diciamo così, minime, che già avevo».

- Avevi già un’alternativa professionale pronta? Non di squadra, ma di vita.

«No, non avevo alcuna alternativa pronta. Però avevo deciso: bon, se questo è… Io, ecco, da questo punto di vista devo dire che nella mia vita difficilmente sono sceso a compromessi di questo genere. Quando invece – sia allora sia ora, le cose non sono cambiate – ci sono molti che alla soglia dei trent’anni sono ancora lì a vivacchiare. A un certo punto bisogna prendere a due mani il coraggio e dire: bon, basta. Magari non sarà colpa mia, perché magari dentro di me sento la possibilità di, però devi guardare in faccia la realtà, c’è poco da fare. E quindi quello fu un momento… Ed ebbi la fortuna che mi telefonò Marino Basso per dirmi: “C’ho Renato Giusti” – che era uno degli sponsor con Club 88 – “che ti vuole a tutti i costi”. “Ah, sono veramente onorato, tra l’altro Renato è un amico”. Un ex corridore che conosco, imprenditore di grande successo, ora ha una certa età [è classe 1938, nda] e ha lasciato ai figli. Ci sentiamo ancora adesso. La fortuna quale fu? che Renato Giusti mi voleva a tutti i costi. E quindi, siccome Marino Basso non poteva mandare a quel paese Renato Giusti che era uno dei suoi sponsor, allora: “Te si’ fortunat perché Renato…”. E quindi io mi trovai in quella situazione che se non ci fosse stato Renato Giusti che ha detto a Marino Basso “Senti, accontentalo. Tanto non son queste le cifre che spostano le cose”»...

- …avresti smesso?

«Io avrei smesso. Perché come alternativa avrei avuto quella di [Bruno] Reverberi, che però giustamente, dal punto di vista – diciamo così – manageriale, sfruttava il momento di avere tanta “carne” sul mercato, mi avrebbe dato il minimo di stipendio. Però, sai, io “ammiro” di più uno che ti dice: “Guarda, ti do poco ma te lo do”, che uno che ti dice… E poi a un certo punto non lo vedi più. In quella stagione vinsi anche la mia prima corsa da professionista, nel 1990: una tappa alla Vuelta [la Dénia-Murcia di 204,5 km, il 26 aprile, nda]. Come Jolly Componibili-Club 88 partecipammo alla Vuelta, poi al Giro d’Italia. Fu una stagione interessante che poi si concluse, per quella squadra, al mese di giugno. Non avevamo più... Se dovevo cambiare una catena dovevo andare a comprare... E quindi, anche dal punto di vista dei mezzi, fu molto, molto limitata». 

- Mi hai parlato di Bartolozzi e allora l’ho subito associato a Visentini…

«Bartolozzi era il direttore sportivo alla Jolly Club 88. Ritrovai il Bartolozzi. Visentini lo faceva impazzire. Visentini, con la testa, era già un ex».

- Appena gliel’ho nominato, Visentini di lui mi ha detto: «Bartolozzi, prima di far diventare grandi le persone, quello che non sono, digli che vincano, prima. Prima vince e dopo può parlare. Sempre con la manina morta, il mio corridore, il mio campione. Sai, dopo agli altri gli girano i coglioni…». Il riferimento era al debole che Bartolozzi, allora ds della Sammontana, aveva per il giovane Argentin…

«Diciamo che Bartolozzi in certi atteggiamenti aveva un po’ [di simpatia]… Poi lui, tra l’altro, è anche uno così. Bartolozzi è uno che l’ha sempre avuta, e non l’ha mai nascosta. L’ha sempre avuta, Valdemaro…».

- E perché Visentini lo faceva impazzire?

«Lo faceva impazzire perché lui con la testa era già un ex». 

- Già dall’anno alla Malvor, nel 1989? O ancora da prima, dopo Sappada, al Giro ’87…

«Allora: a tavola si curava poco. Roberto era uno che, soprattutto la sera, gli piaceva bere. In più di qualche occasione l’abbiam visto alzarsi da tavola in condizioni, diciamo così, che sfioravano… Insomma, per un corridore non era il massimo…».

- Soprattutto come esempio per i giovani in squadra.

«Soprattutto per i giovani. Alle riunioni che si facevano in pre-corsa – allora, decidevano, andiamo in camera di Roberto a fare le riunioni – e tutta la squadra lì riunita, lui magari… Ricordo che eravamo alla Tirreno-Adriatico. Freddo, si mette la maglia, senza la canottiera, senza nulla, allora Bartolozzi lo rimproverava: Roberto, ma copriti…».

- I primi due anni da pro’ gliele comprava il diesse, Italo Zilioli, le canotte…

«Ma lui niente. Niente. “Ma no, chissà che mi ammalo, vado a casa…”. Tutte situazioni… Era già un ex, a tutti gli effetti». 

- Anche difficile da gestire?

«Ma, sai, difficile da gestire… Roberto ha sempre avuto un carattere… Eravamo amici, anche quando correva in altre squadre. Grande potenzialità, aveva un talento non comune, qualità enormi, aveva il suo modo di interpretare…».

- …il mondo?

«…di interpretare il mondo. Sì. Con l’azienda di pompe funebri che lui ha, è capitato, l’ho rivisto ancora… A volte racconta delle storie: Stavo andando verso Trento, guidavo io la macchina e di fianco avevo il prete, a un certo punto mi sono accorto che, avevamo staccato tutti, andavamo a duecento all’ora in autostrada. Non c’era più nessuno…». [ride, nda]

- Di questi aneddoti ne ho sentiti parecchi…

«Al mattino, al Giro d’Italia, quell’anno lì del Giro di Moser-Fignon (1984, nda) e anche gli anni precedenti, lui in quell’epoca tante volte è andato in televisione e si è lamentato: Moser lo spingono. A volte, sì, ha beccato Moser attaccato addirittura alla macchina di Torriani qualche tornante sotto…».

- Lì, però, non aveva torto…

«Lui con Torriani ce l’aveva a morte».

- Anche adesso…

«Lui, tutte le mattine, Torriani fuori dal tettuccio della macchina che dava il via, percorso neutralizzato per segnare il chilometro zero, lui puntualmente era in prima fila, e quando Torriani dava il via, lui faceva tutti ’sti gesti qua… E “…te la preparo io la cassa quando è il momento…”». [ne imita la vocina in bresciano, nda]

- “Torrianiii, per te ho un modello speciale…”.

«Tutte le mattine. Puntualmente, tutte le mattine. Torriani lasciava perdere perché tanto…».

- I motivi alla base di tutto questo? 

«Lui, credo, si sente defraudato».

- Ancora oggi Visentini sostiene che Torriani «per i soldi ti faceva arrivare anche in cima al campanile»

«Sì, ma, sai, era un ciclismo, quello, con queste situazioni…».

- Questi aspetti però riguardavano di tutti i corridori, non solo lui. Non credo fosse, o si sentisse, il Che Guevara o il Masaniello del gruppo…

«Io credo che Visentini ce l’avesse… Perché quelli erano anni in cui il ciclismo…».

- Gli han fregato dei Giri? O li ha persi lui?

«Lui ritiene che gli abbiano fregato dei Giri. Moser sicuramente era protetto. In qualche modo veniva protetto».

- Moser però muoveva l’intero movimento, se mi passi l’espressione.

«Esatto. Per certi versi questo genere di cose capitano anche adesso, seppure in modo diverso. Ovvero: Rcs, per avere [il team] Sky con Froome al Giro d’Italia, ha sicuramente foraggiato... Ci sta. Ci sta…».

- Io non ci trovo niente di scandaloso.

«Assolutamente nulla di male».

- Mi chiedo però perché nasconderlo, o negarlo, come se fosse una cosa losca.

«Certo, ma certo. Ma sai, più che altro da questo punto di vista credo che loro...».

- Hinault: non dirmi che, per venire al Giro, non prendeva soldi…

«Sì, li prendeva. Sai, era un qualcosa di diverso: Quello era un ciclismo diverso. Una volta al Tour gli italiani manco ci andavano. Moser e Saronni ci sono andati una volta». [Moser nel 1975, in giallo nelle prime sette tappe, settimo nella generale e maglia bianca di miglior giovane; Saronni nell’87, ritirato alla 13ª tappa, nda]

- C’erano 100 milioni di lire da lasciar lì solo per iscrivere la squadra...

«Esatto. A volte in quell’epoca per aver i grandi alla partenza... Indurain, anche, prendeva il suo cachet. Come l’ha preso Armstrong. Io non ci vedo nulla di male. Assolutamente».

- Però lì con una formula furba architettata da Angelo Zomegnan, allora direttore del Giro: più che il corridore, il progetto di comunicazione…

«Hanno finanziato la sua Fondazione. Ma io credo che, al di là di questi aspetti che ci son sempre stati e continuano ad esserci, Visentini non sopportasse – giustamente, anche, dal punto di vista sportivo – il fatto che ci fosse, diciamo così, un’attenzione particolare nei confronti di un corridore. E che in qualche modo un Giro d’Italia glielo “dovevi” far vincere. Perché questo è. Questo è accaduto con Francesco. E Visentini non ha mai sopportato… Un conto è che tu trovi un gruppetto di tifosi che ti spinge e non puoi farci nulla. Ma quando questo è così palese da parte dell’organizzazione, da parte… Eh, diventa fastidioso, da un punto di vista sportivo. Il povero Fignon al Giro dell’84…».

- Tu quindi alla storiella dell’elicottero credi?

«Ma certo che sì, ma certo che sì. In Rai è ancora molto di più che una leggenda, e d’altra parte i tecnici stessi…». 

- L’anno dopo infatti Hinault disse: o io, o l’elicottero. Poteva permetterselo: perché era Hinault…

«E certo. Certo, ma perché Fignon non era pronto a... E Guimard, che lo guidava, e che era lo stesso che guidava Hinault, non erano pronti a farsi pigliare per il… Cioè, è stata una sorpresa grande anche per loro. Credo che Visentini, giustamente, sai, da questo punto di vista… Uno dice: ma poi, quando vivi in un mondo, in un ambiente, ti devi adattare alle regole di quel mondo. Lui era uno…».

- Tu sei di questa scuola di pensiero? 

«No, io non sono di questa scuola di pensiero. Però credo che alla fine quello più danneggiato sia stato comunque Roberto». 

- Il sistema poi ti schiaccia…

«A parte che, cosa vuoi, un Giro d’Italia, due Giri d’Italia, alla fine, per carità… Io credo che, nel dopo, quando vai a pensare: sì, per carità, dal punto di vista della soddisfazione personale… Ma insomma non credo che…».

- …gli avrebbe cambiato chissà che.

«…che gli avrebbe cambiato chissà che».

- Secondo te, quindi, aveva già smesso – di fatto – nell’86, dopo aver vinto il Giro? Perché aveva finalmente dimostrato a se stesso che…

«Ma forse no. Forse no. Io credo che l’anno successivo, l’87, lui fosse sicuramente il candidato principale per rivincerlo, il Giro».

- In tanti mi han detto o fatto capire che, al di là dei fatti di Sappada, Visentini non avesse la stessa gamba dell’anno prima. E che non si era allenato come l’anno prima.

«Sai, Visentini era uno che facevi fatica [a capirne la condizione]. Il Giro d’Italia che ci ho fatto insieme, io ricordo che a inizio Giro lui gettava via tutto: Garibaldi, cartine. Al mattino si alzava: oggi che tappa c’è? Cioè, capisci che ora sarebbe impensabile. Ma questo lo faceva sempre, eh. Anche quando era competitivo. Io l’ho visto di persona, quell’anno, il ’90, che abbiam corso insieme. Ora, sarebbe impensabile. Ora i corridori vanno a studiare i percorsi…».

- Per dirti, le rare volte che con la Carrera andava a fare i test al velodromo, lui se ne stava lì con le gambe alte, e quando era il momento gli altri lo chiamavano: Oh, Robi, tocca a te. Pronti-via, e senza riscaldamento batteva tutti. Però sai, in una corsa di tre settimane… Lo puoi fare – forse – a 29 anni, dopo…

«Certo. No-no, ma lo puoi fare… Hinault era un altro. Era un altro che in riscaldamento… Lui era uno dei più forti cronomen della sua epoca e di sempre. E per le gare a cronometro, il “riscaldamento” lo faceva in macchina, con le gambe alte, poi scendeva, cinque minuti, magari partiva, i primi chilometri gli servivano per riscaldarsi e poi cominciava a macinare. Sai, sono quei talenti che il motore ce l’hai, con la testa fai ciò che la testa ti dice, senza faticare più di tanto».

- E che mi dici della fame? Roche era uno che la testa ce l’aveva eccome, ed era arrivato dall’Irlanda non dico con la valigia di cartone ma quasi. Roberto no. Queste cose incidono.

«Sicuramente incidono, anche se sempre meno».

- Su questo si è un po’ romanzato, secondo te?

«No, non credo si sia un po’ romanzato. Io ho conosciuto, e conosco anche attualmente, corridori che non hanno… Diciamo non provengono o non provenivano da situazioni particolarmente disagiate. La fame, per come la intendiamo, diciamo così, non nel significato classico ma in quello della voglia di arrivare, secondo me ce l’hai indipendentemente. Certo, se tu vieni da un’infanzia o da un’adolescenza troppo “adagiate”, nel ciclismo è molto… Il ciclismo pretende molto».

- Ti faccio un esempio pratico: Ignazio Moser, il figlio di Francesco.

«Mio figlio ha vissuto là e quindi si conoscono molto bene. Il figlio di Francesco, Ignazio, correva. Per andare su a casa, c’è una rampettata. Francesco andava a prenderlo giù, quando Ignazio andava ad allenarsi. Francesco andava a prenderlo giù, capito? Ecco, quindi… Già lì, io dicevo anche a Francesco: Ma se vai giù a prenderlo… Mi è capitato di andare a trovare mio figlio e di vedere Ignazio seduto giù, lì, sulla panchina: Ignazio, che fai? Sto aspettando papà che mi viene a prendere. Ah, pensavo… E dopo ne parlavo con Niccolò, che ancora correva: Sì, ma lo fa tutti i giorni. A volte usciamo in allenamento insieme... E lui giù chiama. Io vengo su [in bici], e lui chiama. E quindi Francesco, che sa bene che palle ci vogliono per andare in bicicletta, però lo andava a prendere. Ed io gli dicevo: Ma lo vai a prendere? Ma sì, sai, è ancora giovane… ’sti due chilometri e mezzo son duri duri… Vabbè, comunque, al di là di questi ragionamenti, di questi esempi, adesso è difficile trovare situazioni-limite. Ci sono, per carità, però situazioni-limite, perlomeno quelle che posso conoscere, insomma la fame vera credo che non la stiano patendo».

- Tu sei uno che va dritto al punto. C’è anche il fattore-intelligenza, nel senso buono. In corsa e fuori, quindi anche nel tessere alleanze, nel capire certe situazioni... 

«Assolutamente sì. Però io credo non sia tanto una questione d’intelligenza, anche qui nel significato classico che diamo al termine, ma di capacità di capire le debolezze dell’avversario. E di cercare di pensare, di mettere in atto – nel ciclismo ci son sempre state e ci sono anche adesso – delle situazioni che ti possano aiutare a raggiungere l’obiettivo. Roche, in quell’anno, al Giro d’Italia, è riuscito, anche all’interno della squadra stessa, a capire quali erano i punti deboli. Perché ufficialmente il capitano era Visentini. Ufficialmente. Soprattutto dopo la cronometro di San Marino, dove aveva sbaragliato tutti. Già là ti fa capire…».

- Però anche lì, vedi, è vero che a Roche diede 2’47”, ma in pochi ricordano che Roche era ancora dolorante per la caduta nel finale di tappa a Termoli, quella del titolo della Gazzetta “Bontempi ne stende cinquanta”. Sai, fai la crono così condizionato, poi magari di minuti ne avrebbe presi anche tre, la controprova non c’è. Però…

«No-no, ma certo. Certo, no. Però lì lui rimase… Intanto, si incattivì e fu un grande stimolo sapere… Perché lì, i piani, perlomeno ufficiosi, erano che Roche avrebbe dovuto aiutare Visentini al Giro poi Visentini avrebbe aiutato Roche al Tour…».

- …invece di starsene "con le balle a mollo…". 

«Ecco. Invece, in diverse interviste…».

- Per questo ti parlavo anche di "intelligenza", in quel senso…

«Sì, dopo San Marino gli chiesero espressamente: Ma dopo andrai al Tour ad aiutare Roche? Mah, guarda, non ci penso nemmeno ad andare al Tour. Non tanto ad aiutare Roche, proprio ad andare al Tour. Non m’interessa».

- Sai, 'sto qua veniva da un anno in cui in pratica, per colpa di un ginocchio, non aveva corso quasi mai. Era in scadenza di contratto...

«Questo qui, sai, questo qui ha capito l’antifona. Ha messo in atto questa situazione che Roberto non ha capito immediatamente. Quando la squadra l’ha capita, ha cercato di correre ai ripari».

- E magari ha sentito l’odore dei soldi. Giustamente, perché la vita è – anche – quella roba lì.

«Boifava, però, quando sono andati avanti a fermare Roche, ha telefonato a Tacchella. E quello: A me interessa vincere il Giro, chi lo vince a me non interessa, fate voi. E quindi lì, per Roberto, non credo sia stato tanto un discorso d’intelligenza ma, credo, di capacità nei momenti difficili di non perdere comunque la testa. E lui non l’ha avuta».

- E quindi, banalmente, anche di alimentarti in corsa…

«E certo. Perché a quel punto là cerchi… Una volta capito che questo qua sta provando a mettertelo in quel posto, sai, adesso gliela faccio vedere… Oggi va così, però in una corsa a tappe ci sono anche i giorni successivi, mi metto nelle condizioni di non perdere tutto. E di aver la possibilità comunque… Pensa che Giro sarebbe stato se Visentini fosse stato non più in maglia rosa ma a un minuto. Pensa cosa sarebbe venuto fuori. Non lo sapremo mai ma a quel punto la “guerra” sarebbe stata dichiarata, e non ci sarebbe stato colpito e affondato; perché Visentini è stato colpito e affondato quel giorno là. Fosse stato solo colpito e non affondato, alla storia sarebbe passato probabilmente anche altro. Magari avrebbe vinto sempre Roche ma sarebbe stato un finale di Giro…».

- Perché, più di trent’anni dopo, ancora ne parliamo?

«Ma perché è stato comunque… Perché non si perde occasione per parlarne, ogni qualvolta nel ciclismo c’è qualche dualismo all’interno di qualche squadra. E perché è diventato comunque un esempio».

- Non si era mai visto attaccare, e in modo così smaccato, plateale, il proprio capitano in rosa, per di più vincitore l’anno prima. Al Giro del ’75 c’era Battaglin in rosa ma Bertoglio, suo gregario alla Jolljceramica, non lo aveva attaccato: era stato il suo capitano a staccarsi… Alla Carrera, invece, si sapeva che con due galli nel pollaio…

«Esatto. No, ma poi anche perché ogni volta si fa questo riferimento, anche in televisione è diventato… Lo si richiama spesso, quando succedono certi episodi, per cercare di interpretare… Dopo, sai, bisogna anche riempire gli spazi…». 

- Poi c’è anche la storia nella storia che questi due non son parlati più: e il Visenta che è sparito o almeno fa finta di essere sparito.

«Adesso mi risulta che quando fanno qualche rimpatriata…».

- Per esempio quella per il trentennale della tripletta ’87, a Caldiero il 30 settembre, c’erano quasi tutti, non tutti, ma lui alla sola idea mette giù il telefono…

«Sì, sì. Anche Boifava, a sentirlo raccontare queste cose… È comunque bello».

- Tu che idea ti sei fatto, anche di Davide Boifava?

«Guarda, l’ho provato anch’io nella mia carriera: non è facile, credo, per un direttore sportivo affrontare questo genere di situazioni. Nel nostro piccolo, anche tra me e Cipollini, quando eravamo in squadra insieme, ci siamo trovati in una situazione di quel genere, che è una cosa completamente diversa ma che se vogliamo…».

- Anche tra voi due c’è una certa differenza caratteriale, no?

«C’è una grande differenza caratteriale. Io, a un certo punto della mia carriera, feci una scelta ben precisa, anche lì. Era la fine del ’93, Mercatone Uno con Antonio Salutini, Franco Gini [e Primo Franchini come direttori sportivi, nda] e Luciano Pezzi, che era il presidente. Ricordo che verso la seconda parte della stagione ’93 come velocisti in squadra c’eravamo io e Adriano Baffi [in squadra c’erano anche due ex Carrera: Bordonali e Zaina, nda] e mi convoca Gini, il povero Franco Gini, con Luciano Pezzi. Adesso non ricordo dove eravamo. Vado in camera di Luciano, parliamo e mi fa: Guarda, Silvio, volevamo dirti che l’anno prossimo, nel ’94, arriverà Cipollini e come altro velocista abbiamo deciso di tenere Adriano Baffi; tu, per quanto ci riguarda, sei libero. Io li ringraziai e gli dissi: Guarda, va bene. Avevo delle alternative da poter coltivare, e così. Mi muovevo da solo. In quegli anni erano pochi quelli che avevano un manager o un procuratore. Ho sempre fatto tutto da solo nonostante avessi già dei contratti, anche interessanti da un punto di vista economico. Dopo di che era diventato, l’arrivo di Cipollini, un motivo di grande determinazione anche all’interno della squadra. Mario aveva un ingaggio importante e stavano cercando di costruire un gruppo che potesse lavorare con lui. A un certo punto, dopo qualche settimana, chiamai Luciano Pezzi e gli dissi: “Luciano, senti, mi è venuta un’idea. Allora, so che state cercando di mettere insieme, di allestire un gruppo che possa supportare Cipollini. Senti, ma se di questo gruppo facessi parte anch’io, che ne pensi? Perché qui sto bene, abbiamo una bella organizzazione, siamo una bella squadra. ’91, ’92, ’93: io son già tre anni che son qui. Avete intenzione di ingrandire, e quindi si farà un’attività sempre più importante e a me non dispiacerebbe...”. “Se tu rimanessi, io sarei l’uomo più felice del mondo, perché ho imparato ad apprezzarti. La nostra scelta è semplicemente… Te lo dico chiaramente per quale motivo ti abbiam comunicato ’sta cosa: perché se tu rimanessi qua, avresti poche possibilità di poterti esprimere…”». 

- E perché Baffi sì? Per fare da ultimo vagone nel treno per Cipollini?

«Baffi era l’alternativa, perché si faceva doppia attività. Sai, da una parte Cipollini che arriva e che è il migliore di tutti in quell’epoca, dall’altra Baffi che ha fatto una stagione… Io nel ’93 non avevo vinto nemmeno una corsa. Era stata una stagione anche abbastanza sfortunata, il ’93. In pratica è venuto logico liberarsi di me e non di Baffi che aveva vinto 15-16 corse quell’anno lì. Però io nel gruppo di Cipollini credo di poterci stare, perché forse Cipollini ha più che mai bisogno di chi lo possa guidare nelle ultime fasi. “Ma noi non ci permetteremmo mai di chiedere a un corridore come te questo sacrificio”. Guarda che io son un professionista, Luciano. Tu mi stai dicendo che… Guarda, Luciano, io per i soldi che prendo qua, sinceramente io sono pronto anche a fare una scelta di questo genere. E cioè rinunciare a parte delle mie ambizioni personali, diciamo così, per mettermi a disposizione. “Guarda, Silvio, non ti prometto nulla. Ovviamente sono sorpreso di questa cosa ma dimostri la tua intelligenza e tutto, e sarei felicissimo se la cosa potesse andare a buon fine. Ne parliamo. Andiamo a parlarne con gli altri”. Ne hanno parlato con Cipollini. Cipollini mi chiamò: “Ma sei sicuro?”. Guarda, Mario, son sicuro… Ma se te lo sto dicendo, gli ho detto. Io credo che potrei essere utile, in questo contesto. Anche perché ho delle caratteristiche che potrebbero essere utili alla causa. E io inizialmente non ero… Cipollini arrivava dalla Del Tongo e si portò Eros Poli, e inizialmente, nelle prime uscite stagionali, era lui l’ultimo uomo di Cipollini. Ma le prime esperienze non furono esaltanti, i meccanismi avevano bisogno di essere… E in una delle tante riunioni proposi: “Senti, ma da un certo punto di vista io credo che chi come me ha certe attitudini, è a sua volta un velocista, possa essere più utile in quel posto piuttosto che prima. Anche perché Eros invece ha delle caratteristiche più da passista, non tanto da… Capita a volte che tu imposti una volata in un certo modo ma poi ci si perde, magari rimani da solo o con l’ultimo “vagone” che ti deve aiutare a uscire allo scoperto, no? E quindi cambiammo questa disposizione del treno».

- E quindi diventava Eros il penultimo vagone e tu l’ultimo?

«Eros, che non stava attraversando un gran momento di forma, mentalmente questa cosa addirittura la accusò un po’. Perché un conto era essere considerato l’uomo indispensabile di, un conto era essere poi uno dei tanti. Veniva messo in posizioni molto avanzate, quindi lavorava molto prima degli ultimi chilometri. E lì nacque… Era dai tempi della Del Tongo di Saronni che non c’era un’organizzazione di quel genere lì».

- Difatti uno come Paolo Rosola pagava questo suo dover correre senza treno, no?

«E certo. E noi in pratica riproponemmo nella nostra epoca quel treno, ed era un treno che…».

- ...faceva la differenza. Per trovarne uno prima del vostro, per come funzionava e tutto filava liscio, bisogna risalire a quello di Rik Van Looy e le sue “guardie rosse”.

«Certo. E lì, nel ’94, andò tutto bene fino a quando Cipollini non ebbe quell’incidente con Baffi alla Vuelta [prima tappa in linea, Valladolid-Salamanca di 178,4 km, Cipollini ricoverato una notte all’Hospital Virgen de la Vega, vittoria revocata a Baffi per cambio di traiettoria negli ultimi duecento metri e assegnata a Laurent Jalabert, nda]. E fu una stagione… Cipollini non corse più, ritornò nel ’95. Il ’95 fu una stagione molto positiva da questo punto di vista. Nel ’96 iniziarono i problemi. Io avevo il contratto anche per il ’96. Nel ’96 iniziarono i problemi ma iniziarono per un motivo. Io c’ho un carattere di un certo tipo, io sono… Io so stare al mio posto però quando…».

- …la misura è colma…

«Quando la misura è colma… Io tra l’altro ero in camera insieme con lui – ’94, ’95, inizio ’96. Siamo alle classiche in Belgio, il periodo prima delle grandi classiche, quindi La Panne, Harelbeke, queste corse qui. Siamo alla Tre Giorni di La Panne, lui sta attraversando un periodo veramente… Non capiva come mai non riuscisse a rendere. Arriviamo alla Tre Giorni di La Panne, la seconda tappa [il 3 aprile, da Zottegem a Sint-Idesbald di 234 km, vinse Andrei Tchmil, nda], quella lunga, dove si facevano anche un po’ di muri, 240 km, la squadra che lavora tutto il giorno, parte Tchmil, all’ultimo chilometro, io faccio per reagire con Mario a ruota, e mi dice: Nooo, fermo! Mi urla di non partire e allora mi fermo. Tchmil vince la tappa, Mario non fa la volata. Andiamo in albergo, siamo in camera e gli chiedo: “Ma che è successo?” La squadra ha lavorato tutto il giorno e poi arriviamo all’ultimo chilometro e non… Eravamo rimasti io e lui. “Ma sì, è partito talmente forte, come cazzo facevi ad andare a prenderlo?”. Io lo guardo e faccio: “Che sia partito forte, è partito forte, però, insomma, c’era un chilometro… Cioè: se gli lasci spazio… Ma se reagisci immediatamente… Dico: “io ho fatto per alzarmi sui pedali, mi hai detto “No-no”, e mi son fermato. Allora, quando lui mi ha risposto così, io poi io gli ho dato questa risposta. E ho detto: “Non è che forse c’è qualcosa che non va? Perché non è che possiamo essere un giorno i più forti del mondo, che vanno in televisione, e il giorno dopo le più merde… Perché ogni tanto può capitare che anche le tue gambe scricchiolino…”. “Ma che cazzo dici? [ne imita la voce, nda] Cazzo dico… Oh, ragazzi, non può essere mica…».

- Questo tra te e lui, non con la squadra presente.

«In camera. In camera, tra me e lui. E lì fu il primo episodio in cui, diciamo così… Io poi non sono uno che le cose le dimentica in fretta. Una cosa e l’altra, insomma in camera iniziò una certa freddezza. Quella campagna delle classiche non terminò con dei gran bei successi, assolutamente no. Tornammo a casa, c’era da preparare il Giro e si andava al Giro di Romandia. Giro di Romandia, e stessa musica. Al Giro di Romandia, tra l’altro, quell’anno, pioveva tutti i giorni, e lui praticamente non concludeva nulla. Poi lui è diventato il più vincente al Giro di Romandia nella storia, perché ha vinto una marea di tappe [12, nda]. Quell’anno, non andava. Io in camera non sopportavo più questo modo, anche arrogante, di porsi e che lui ha sempre avuto, eh. Però nel momento in cui le cose andavano male e poi io c’ho ’sto carattere – quando uno mi sta sulle scatole non son capace di nasconderlo – praticamente io avevo iniziato, avevo un atteggiamento, in camera, che non era più quello, diciamo così, di “condivisione” che c’era prima. Perché con Cipollini era tutto un ridere e scherzare, la luce si spegneva tardi, insomma era un gran casinaro. Ed io, voglio dire, facevo la mia parte, insomma, no? Invece avevo un atteggiamento molto riservato, spegniamo la luce… e lui non si trovava più bene. E una mattina, alla partenza, invece di salire sul bus con noi, sale con Salutini. Salutini viene lì che mi stavo facendo dare l’olio sulle gambe prima di partire, viene lì e mi fa: “Ci sei riuscito, eh?” E io faccio: ci sei riuscito a far cosa? Non vuole più stare in camera con te, mi fa, perché dice che tu ti sei montato la testa, non parli più. Ho detto: “Ooohhh, finalmente. Finalmente, guarda, non ne posso più. Stasera pago da bere a tutti”. Al Giro di Romandia ci hanno diviso di camera, tra me e lui ci si parlava pochissimo, ma tutto è nato così». 

- Perché siete arrivati quel punto lì?

«Siamo arrivati a quel punto lì perché io ho iniziato a controbattere quello che diceva lui».

- E lui invece ama circondarsi di cortigiani, di signorsì?

«Invece lui ama circondarsi di… Esatto. Esatto. Invece lui ama circondarsi… Devi essere sempre… Assecondarlo. Invece io…».

- No, perché, se non altro come personalità, non ti ci vedo…

«Se decido di assecondarti, vabbè, ridiamo, scherziamo, è un discorso. Ridiamo, scherziamo, facciamo le cose… Però, non puoi: oggi siamo i più forti del mondo, domani delle merdacce, capito?».

- Perché non l’hai chiesto prima tu di farti cambiare di camera?

«No, l’ho chiesto. L’ho chiesto. Il povero Luciano Pezzi, che era ancora al mondo: “No, assolutamente. Solo lui può gestire un ‘matto’ come Cipollini. Allora, Silvio, porta pazienza, cerca di ricostruire”. No, non ci sono le condizioni per ricostruire. Io continuo a fare il mio lavoro, con [anche] maggiore professionalità rispetto a prima, però perlomeno non voglio più dormire in camera con uno così. Ecco questa era la sostanza. Però, quando ha deciso lui, allora a quel punto andava bene. Allora, a quel Giro di Romandia, per metà corsa ognuno per… Poi si doveva partire per il Giro d’Italia, quattro-cinque giorni dopo che siam tornati. Dovevam partire per il Giro d’Italia e sapevamo entrambi che al Giro d’Italia saremmo stati in camere separate. Invece andiamo giù ad Atene, arriviamo in momenti diversi, ognuno con il proprio volo. Locandina nella reception dell’hotel: Martinello-Cipollini in camera insieme. Porca miseria… Allora a [Gabriele] Mugnaini, che era il suo massaggiatore ed era lui che faceva le camere, ho detto: “Mugna, ma che è successo?” “Ordine categorico, Luciano non ne vuole sapere, dovete stare in camera voi due”. E anche… Ora, verrà giù. E infatti era lì alla partenza del Giro. Riunioni su riunioni, anche prima di partire. E ho detto: “Guarda – io ho rassicurato tutti, davanti a loro –, io non ho alcun problema Ho semplicemente un momento che mi va di stare per i cavoli miei invece di assecondare… Ma il mio lavoro, ho mai mancato di farlo? Anche al Romandia mi son sempre fermato, quando arrivavamo a mezzora, quando magari potevo arrivare un quarto d’ora prima. Cioè: non vincere la tappa ma arrivare un quarto d’ora prima. Son stato sempre vicino al capitano, senza problemi. E continuerò a farlo. Se queste sono le indicazioni, io sono qua, con un contratto ben preciso”. Davanti a lui».

- E lui sempre zitto?

«Lui non fiatava. Già in quella, diciamo così, lì ad Atene, lì aveva un assortimento di biciclette, quella rosa, quella ciclamino, tutte le maglie, che i meccanici gli preparavano, lui trattava tutti… era un periodo veramente della sua vita dove trattava tutti come delle cacche. Il meccanico: Mario, vuoi scendere per provare le bici? Scendeva in ciabatte. E il meccanico fa: ma come fai a provare le bici in ciabatte. Scendeva, faceva due pedalate. Gliene ha presa una, una volta, gliel’ha buttata sulla siepe: mettila a posto, ma non vedi che non c’è… Gesti di questo genere. Io veramente le persone così… Praticamente partiamo, prima tappa, Atene, storia, insomma, partiamo, squadra che lavora, Silvio, mi raccomando: Oggi puntiamo a Mario maglia rosa. Non ci sono problemi, assolutamente. A venti chilometri dall’arrivo mi viene vicino, non ci si parlava già più noi. Mi viene vicino per dirmi: “Non mi sento bene”. Ma lui lo faceva spesso, aveva bisogno in qualche modo di essere caricato. Io, contrariamente a come facevo in precedenza: “Eh, capita, oh”, dico ai ragazzi di smettere [di tirare]… Non c’erano le radioline, andavi alla macchina, parlo con Salutini: “Ha detto che non sta bene, cosa facciamo?”. Eh, che i ragazzi almeno smettano di tirare. È cinque ore che si fanno un mazzo così… Insomma, vado davanti e dico: “Oh, ragazzi, basta”. Eh, ma come? “Eh, non sta bene”. E tutti a smadonnare… Tutti allineati e coperti. Però, a quel punto là, siam tutti liberi. Io mi son fatto la mia volata, per i cavoli miei. Poi, in previsione, vedevo che lui cercava di seguirmi, però io facevo comunque traiettoria senza sapere che ce l’avevo a ruota. Traiettorie che servivano a me. Cioè un conto è che tu rimonti il gruppo sapendo che hai il velocista a ruota quindi passi largo, un conto è se sei da solo: vedi un buco e passi dentro. È chiaro che chi è dietro di me non passa, in quel buco, perché nel frattempo il buco non c’è più, no? Quindi: tutta una serie di [manovre]… E lui era dietro che cercava comunque, nonostante avesse comunicato… Vinco la tappa. Vinco la tappa...».

- E sembra che l’hai fatto apposta…

«Sembra che l’hai fatto apposta. Naturalmente lui in camera, eravamo in camera insieme: gelo. Gelo, in camera. I giorni [successivi], in quell’inizio di Giro d’Italia, lui non andava nemmeno a calci. La tappa successiva, arrivai decimo, mantenni la maglia rosa. Poi arrivai terzo l’ultima tappa lì in Grecia, vinta da Lombardi, e persi la maglia rosa, a favore di Zanini, per gli abbuoni. In quella terza tappa c’era una salitina, a quindici chilometri dall’arrivo, lui si staccò, arrivò a un quarto d’ora, non arrivò nemmeno a far la volata. Trasferimento in Italia. Arriviamo in Italia. Si ripartiva da Ostuni. Sembrava dovesse andare a casa da un giorno all’altro. Il giorno dopo c’era il giorno di riposo, andiamo a provare il circuito di Ostuni. Non andava nemmeno a calci. La salita per andare su ad Ostuni…».

- Quindi nella preparazione qualcosa non aveva funzionato?

«Non lo so. Perché poi fu un giro fantastico per lui quello del ’96. Vinse quattro tappe, eh. Tra cui quella di Ostuni il giorno dopo, dove io arrivai secondo. L’obiettivo era riprendere la maglia rosa. Su di lui non ci si contava, non andava nemmeno a calci. Tutti – tutti – pensavamo che quel giorno si sarebbe ritirato. Invece… C’era quella salita di Ostuni da fare quattro volte, poi in cima alla salita c’erano tre chilometri un po’ in falsopiano e si arrivava, quindi non c’era discesa, non c’era nemmeno molto spazio per rientrare. Il terzo giro, quella salita la si fa un po’ forte e vedi che si lui sfila, io passo a fianco e poi lo vedo rientrare. Suono della campana, ultimo giro. L’ultimo giro l’abbiam fatto veramente a mille e lui era piantato in mezzo alla strada, lo aiutavano Calcaterra e Scirea, un po’ di spinte, eeehhh… Riuscì a salvarsi. L’ultimo chilometro, ero lì che lottavo in sesta-settima posizione nella fila, e lo vedo passare. Porca miseria. Da dove salta fuori?! Lo vedo passare come un caccia, qualche posizione davanti a me. E dopo la fila, spostandosi a destra e a sinistra, come spesso avviene, lui rimane chiuso ai trecento metri, sul lato sinistro della strada. Ed io decido, dalla quarta-quinta posizione, di partire. Partiamo sulla destra. Ognuno faceva la sua volata, ed eravamo compagni di squadra, eh. Partiamo contemporaneamente con Fabrizio Guidi, che allora correva con [la Scrigno-Blue Storm di Bruno] Reverberi. E insomma siamo lì testa a testa, a un certo punto sparisce questa ruota che avevo di fianco. La ruota di Guidi sparisce, cioè io sto andando e lui… sto per vincere, guardo sotto l’altro lato, sul mio lato destro e vedo una ruota eeeh… proprio sull’arrivo mi passa: era lui. Lui primo, io secondo. Lui vince la tappa, io con l’abbuono riprendo la maglia rosa. E praticamente lì è rinato. Rinato. E in squadra sono iniziate chiaramente le… io avevo a un certo punto due maglie, la maglia ciclamino e la maglia dell’Intergiro – allora c’era l’Intergiro – che assegnava anche una maglia». 

- Maglia azzurra, all’epoca, no?

«Azzurra. In patica lottavo per questa maglia ciclamino. Era l’obiettivo più importante, che portai avanti per due settimane. A un certo punto, io ero in camera da solo, eravamo in nove corridori ma io ero in camera da solo. Non eravamo più in camera insieme, nonostante avessimo iniziato quel Giro insieme. E in camera con lui non mi ricordo chi ci andò, forse Scirea. Poi io a quel Giro d’Italia ’96 a un certo punto decisi di ritirarmi nonostante fossi in testa alla classifica a punti e a quella dell’Intergiro».

- E quindi stavi bene, allora perché ti ritirasti?

«Decisi di ritirarmi perché, nel frattempo, lui aveva cominciato a vincere con regolarità. Infatti a quel Giro d’Italia vinse quattro tappe, ma siccome lui la maglia ciclamino non avrebbe più potuto vincerla… A un certo punto, lo dissi chiaramente – e lì ti dico il direttore sportivo che non ha la forza di – cioè, fai una scelta. Eravamo in riunione il mattino: “Eh, ragazzi, se dobbiam lottare per questa maglia ciclamino che, comunque, premi e quant’altro, si lotta e bisogna correre in un certo modo. Se dobbiamo lottare per portare Mario a vincer la tappa – importantissimo, eh – si deve correre in un altro modo. E quindi: già ieri, gli dissi, è successa questa cosa… e la squadra non sapeva come andare. Prendete una decisione. “No, Silvio, cerchiamo di portare a casa tutte e due”. Non è possibile, Antonio – ho detto – Non è possibile. Perché, tra l’altro, lui si muove, perché gli dà fastidio che ’sta maglia la indossi io, una cosa e l’altra… Ho detto: Devi prendere una decisione. Questa decisione non fu presa. A un certo punto decisi io e comunicai che mi ritiravo. Andavo a casa a preparare l’olimpiade, e poi vinsi la medaglia d’oro. Tutti i compagni di squadra: “Ma nooo…”».

- E ti sei ritirato con ancora le due maglie?

«In maglia ciclamino e in maglia azzurra, e mancava una settimana alla fine del Giro. Ho preso ’sta decisione qua. E son andato a casa».

- E ti avrà comportato dei costi ’sta decisione qua. Non tanto economici, ma non te l’hanno fatta pesare?

«No, mi han rotto le scatole i compagni di squadra soprattutto perché le classifiche, comunque, portano soldi. E lì poi ci sarebbero stati i premi a fine Giro e quant’altro. Però ho detto: In questa situazione qua io… Non mi interessa. E andai a casa. Non feci il Tour quell’anno lì. Il mio obiettivo erano i Giochi. Poi, a fine ’96, io avevo ancora il contratto per il ’97 però chiesi di andare via. Nel frattempo avevo vinto la medaglia d’oro all’olimpiade. E la Saeco, che era subentrata come sponsor principale della squadra, questa richiesta non l’accettò. Mi promisero un programma differenziato ma poi saltò tutto. Il ’97 era l’ultimo anno in cui Mediaset trasmetteva il Giro. E loro stavano cercando una seconda voce. Saronni non poteva più farla perché nel frattempo aveva delle responsabilità in una squadra [la Mapei, nda]. Sapevano che era il loro ultimo anno, e mi chiamarono per dirmi se volevo fare una prova. Io ho detto: Guardate, io il Giro però lo devo correre. E allora parlai con la squadra. Io avrei dovuto correre il Giro e Cipollini il Tour. Si presentò quest’occasione, vennero a parlarmi alla Sei Giorni di Milano, che trasmettevano loro perché era un evento-Gazzetta, Davide De Zan e il responsabile di allora di Mediaset Sport, Ettore Rognoni. Si fece ’sta riunione con Sergio Zappella, il patron della Saeco[2], un signore che viveva in Svizzera, e si decise ’sta cosa. Guarda, ’sta cosa ci fa anche piacere, c’è uno dei nostri, pim-pum-pam e cambiamo il programma. Lui fa il Giro e tu fai il Tour. Cambia nulla. Okay, cambia nulla. ’sta cosa mi faceva anche piacere farla, abbiam fatto un paio di prove in bassa frequenza a Cologno Monzese, il Giro delle Fiandre e la Parigi-Roubaix, che io quell’anno non correvo. E in bassa frequenza con Davide simulavamo, anzi facevamo la telecronaca, ci ascoltava solo chi doveva capire…».

- Insomma, un provino.

«Un provino, esatto. A tutti gli effetti. Mi fecero un contratto per quel Giro d’Italia e in pratica mi allenavo tutti i giorni, percorrevo…».

- Mai avresti pensato che un giorno… O sì?

«No, no. Devo dire no. Anche perché la presi con molta… non dico superficialità, ma se penso a come mi preparo adesso… Cioè: io veramente andavo in telecronaca con un foglietto. Adesso, è impensabile. Anche perché intanto non erano telecronache lunghissime come adesso. Iniziavi alle tre, tre e mezza. Io arrivavo alle nove del mattino. Facevo gli ultimi chilometri della tappa. La Saeco mi aveva messo a disposizione un mezzo, io con un amico mio (che pagavano loro) che guidava la macchina e in pratica mi portava in giro. Io scendevo quando lo decidevo, dopo 100-120 chilometri, e mi facevo gli ultimi venti chilometri della tappa così avevo anche modo, dopo, in telecronaca, di spiegarli. Fu una bella esperienza, devo dir la verità. Ci divertimmo molto. Fu impegnativo, perché allenarsi e poi fare… Mediaset mi trovava tutti i giorni un albergo proprio lì, nelle vicinanze della linea del traguardo, io facevo la doccia, mi cambiavo, mangiavo qualcosa e andavo in telecronaca. Spesso arrivavo all’ultimo momento, Davide s’incazzava come una iena però io… “Davide, cazzo…”. A volte arrivavo col piatto di pasta. “Cazzo fai?”. Mangio quando parli tu, un boccone, un po’ alla volta, rimane lì… Chiaramente lui prendeva l’impegno con uno spirito diverso… Questa fu la prima esperienza – ’97, appunto – in quello che poi sto facendo ancora adesso».

- E com’è cambiato il modo di raccontarlo, il ciclismo?

«È cambiato moltissimo. La seconda voce, quella del commentatore tecnico, veniva coinvolta nel momento in cui dovevi interpretare gli aspetti appunto di natura tecnica che accadevano e cercare di prevedere quello che sarebbe potuto accadere. Ora è diventata un telecronista aggiunto, a tutti gli effetti». 

- Ti dà fastidio che adesso, con i social, devi interagire con il pubblico? Ogni tanto magari ti scappa il Martinello più sincero: «…se a qualcuno non sta bene, può sempre cambiare canale». [sorridiamo, nda]

«Sì-sì-sì. Mi è capitato…». Io in Rai ci sono dal 2003. Ho attraversato diverse stagioni. Fino al 2013 ho fatto il ciclismo, diciamo così, “minore”. I grandi eventi erano di Davide [Cassani]. Quando lui ha fatto altre scelte, c’è stato questo passaggio. Loro mi avevano già in casa, erano già tanti anni che lo facevo e quindi è stato abbastanza, anzi assolutamente naturale. Già qualcosa d’importante avevo fatto, quando Davide aveva degli impegni o…».

- Quando hai capito che sarebbe diventata la tua nuova attività, il tuo secondo mestiere nel ciclismo dopo aver corso?

«Intanto fu una sorpresa. Perché io smisi nel febbraio del 2003, a fine febbraio mi chiamò [Auro] Bulbarelli, che allora era telecronista, per anticiparmi che sarei stato chiamato. Infatti, un paio di giorni dopo mi chiamò Ivana Vaccari, che allora era caporedattrice delle varie».

- Allora c’era ancora la TGS, la Testata Giornalistica Sportiva, vero?

«Sì. E il ciclismo era ed è ancora sotto le varie, so che Auro [neodirettore di Rai Sport, nda] adesso vuole cambiare qualcosa, non so se glielo faranno fare, vorrebbe fare una redazione ciclismo apposta. E praticamente mi chiese se avevo voglia di andare a Roma, a Saxa Rubra, per incontrare il direttore di allora, che era Paolo Francia, perché aveva appunto questa proposta da farmi. Andai a Saxa, fissammo questo appuntamento, andai nello studio di Francia, con Ivana, e veramente devo dire che Paolo Francia, nella storia della Rai, non ha lasciato dei grandissimi ricordi… Io ricordo invece un direttore, e andai lì ed era preparatissimo su di me. Preparatissimo. Intanto aveva un pacco [alto] così di riviste e giornali. Parlammo, non fu solo… perché poi di direttori ne ho visti passare tanti, li ho incontrati tutti gli altri, eh, a parte Eugenio De Paoli che allora era già condirettore, ha fatto il condirettore per tanti anni e poi ha fatto il direttore, persona preparatissima per quel ruolo e di cui ho un bellissimo ricordo, ecco. Tutti gli altri hanno sempre avuto un atteggiamento molto…».

- Poi ti sei fermato perché avevi un incarico federale. Che incarico avevi?

«Io mi sono fermato nel 2006-2007, ed ero direttore tecnico federale. Quello che fa adesso Davide Cassani…».

- Senza la supervisione delle nazionali o con?

«Con la supervisione delle nazionali». 

- I corridori li andavi a vedere alle gare?

«No. Non mi occupavo di convocazioni, anche se le firmavo. Mi occupavo di mettere a disposizione della struttura tutto ciò che era necessario al responsabile della struttura delle varie squadre nazionali. Mi occupavo di risolvere, sul territorio, problemi alla gente. Infatti, è per quella ragione che io in pratica ero diventato il punto di riferimento della Federazione e, dal punto di vista politico, un “problema” per il Consiglio federale. Perché in pratica venivano bypassati coloro i quali erano stati eletti e che poi mi avevano nominato. Io andavo avanti a testa bassa, sulla base di un progetto che avevo presentato e che era stato approvato dal Consiglio federale. E infatti, nelle tante problematiche che c’erano tutte le volte che venivo convocato in Consiglio federale, quando mi veniva fatto qualche appunto io tiravo fuori il progetto, presentato da me, discusso, e da loro approvato – non con un percorso semplice perché ci sono state… - “Vi sfido a trovare qualcosa che io stia facendo che non sia qui dentro. Ditemi”. Nel momento in cui quel progetto fu approvato, e ci mise dei mesi, a esserlo, e anche finanziato, io andavo avanti a portare avanti questo progetto, che era mio, fatto da me. E che poi è stato anche oggetto di una causa civile con la Federazione, perché c’è stato un percorso dopo le mie dimissioni». 

- Ti sei dimesso tu o – mettiamola così – ti han fatto dimettere?

«Mi sono dimesso io. Io ho lasciato lì due anni e mezzo di contratto da 100 mila euro l’anno. L’ho lasciato lì, dimettendomi. Mi son dimesso lascando lì tutto, non tanto per i problemi in Consiglio federale, ma perché a un certo punto, i consiglieri federali, quindi la parte politica, vedendo che non riuscivano – diciamo così – a crearmi dei problemi, perlomeno [problemi] che fossero visibili all’opinione pubblica, decisero di incrinare la squadra che avevo portato con me. Perché i tecnici erano di mia proposta, e di nomina del Consiglio federale».

- E quindi anche Marco Villa e tutto il suo staff?

«No, Villa non c’era ancora. Allora: c’era [Mauro] Orlati, c’era [Edoardo “Dino”] Salvoldi che fui io a portare come responsabile unico strada e pista, prima era solo il responsabile della pista. Il concetto di selezionatore unico è del mio progetto. E per un motivo molto semplice. Non tanto per il discorso femminile ma per quello maschile. In Italia è sempre stato quello il problema. Arriva il povero commissario tecnico a parlare con te e con la tua società: Guarda, mi saresti utile… Perfetto. Dieci minuti dopo, arriva il commissario tecnico della strada: No, guarda che io ti voglio portare al mondiale su strada… La pistaaa? Ah no, guarda, andiamo con lui… Quindi il commissario tecnico unico serve perché il concetto era di poter avere la disponibilità dei migliori atleti anche nelle specialità che non fossero la strada. Quello che con fatica…».

- …si sta cercando di far passare. E quindi senza il tuo progetto Elia Viviani non avrebbe potuto fare quello che ha fatto? E cioè vincere l’oro olimpico su pista senza rinunciare alla stagione su strada con il Team Sky e con la nazionale?

«No, molto probabilmente no. Questo progetto, e questo concetto della multidisciplinarietà che viene molto utilizzata per bocca e sulla carta e un po’ meno dal punto di vista pratico… E quindi Marco Villa, con cui ho un rapporto fraterno e ci sentiamo spesso, si ritrova… Riesce, proprio con la sua capacità di ragionare con le persone, ad avere la disponibilità di corridori di livello. Come può essere [Filippo] Ganna. Ce ne siamo accorti anche nell’ultima prova di Coppa del mondo: il quartetto, senza Ganna, non è più la stessa cosa».

- Vedremo quest’anno come va, se gli consentiranno di…

«Sì, sulla carta dovrebbero consentirglielo. È un obiettivo anche del Team Sky [dal 2019 Ineos, nda] dare al ragazzo tutto il sostegno necessario per l’obiettivo olimpico di Tokyo».

- Come hanno fatto con lo stesso Viviani per Rio 2016.

«Esatto. Come hanno fatto nel passato».

- Anche perché loro vengono da una cultura di pista, quindi hanno quel tipo di sensibilità.

«Assolutamente sì. In tutto questo, alcuni consiglieri federali cominciarono a lavorare sugli uomini che io avevo portato e purtroppo gli uomini spesso sono anche deboli quindi cadono in tentazione quindi quando è iniziata a incrinarsi la squadra che io avevo portato là, ho capito che era finita. E quindi…».

CHRISTIAN GIORDANO © 
Rainbow Sports Books © 

NOTE:

[1] Cannondale Pro Cycling (2013): direttore sportivo Stefano Zanatta; assistenti: Dario Mariuzzo, Mario Scirea, Alberto Volpi, Paolo Slongo (poi storico preparatore di Vincenzo Nibali) e Biagio Conte.

[2] Saeco S.r.l: azienda fondata nel 1981 a Gaggio Montano, in provincia di Bologna (dove ha sede tuttora) da Sergio Zappella, bergamasco che nel 1951 era emigrato in Svizzera con la famiglia e nel 1972 aveva aperto un negozio di elettrodomestici, e da Arthur Schmed, ingegnere svizzero. Il nome della società deriva dalle iniziali della denominazione estesa “Sergio, Arthur & Compagnia”.

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