FOOTBALL PORTRAITS - Ibrahimović: il Codice Zlatan (2008)


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In Svezia ne chiamano così i nomi tatuati assieme alle date di nascita dei parenti. Un mistero-simbolo del dna che, in campo, nessuno riesce a decifrare. Perché Ibracadabra «crea movimenti che non esistono: improvvisazioni jazz». Suonate per vincere: al Malmö, all’Ajax, alla Juventus e all’Inter, la squadra per la quale – sostiene lui – tifava da ragazzo

CHRISTIAN GIORDANO © 
Guerin Sportivo © n. 32, 5-11 agosto 2008

Nel 1970, nessuno immaginava di prendere le impronte a certi bambini. La guerra nella Jugoslavia allora unita era di là da venire. Eppure, c’era chi aveva il fegato per andarsene. In cerca di un futuro. Migliore, per Sefik, bosniaco musulmano di Bijeljina e Jurka, croata cattolica di Zadar, lo sarebbe stato di default. Il difficile, semmai, era pensare di trovarlo, insieme, a Rosengård (si pronuncia “Rùsengord”), dieci settori costruiti nel decennio prima su 331 ettari alla periferia di Malmö, Svezia meridionale. A dividere fra nord e sud non solo geografici i 21.447 abitanti c’è la Amiralsgatan, arteria-simbolo della segregazione fra autoctoni e immigrati (84%), in gran parte figli della generazione scampata alla guerra civile slava. Al di sotto di quella sorta di Rubicone scandinavo, al sesto piano in Commans Vag, casermone del Miljonprogrammet (“Programma del milione” di nuovi alloggi popolari), si stipano gli Ibrahimović. Sefik e Jurka e sei tra figli e figliastre (Monika e Violetta). 

Zlatan Ibrahimović nasce, il 3 ottobre 1981, dopo Sapko (30-4-1973) e Sanela (18-7-1979) e prima di Alexander (10-7-1986). Con mille mestieri – alla fine guardia privata e manutentore di stabile il marito, donna delle pulizie la moglie – pranzo e cena non mancano, ma il lusso non è di casa. 

Comprensibile quindi la gioia di Zlatan (“oro” in croato) quando, a cinque anni, riceve in dono il primo paio di scarpe da calcio: scelte in un negozio a buon mercato e rosse come le sue gote in quegli interminabili pomeriggi al campetto condominiale di terra scura. Dietro quelle due porte di ferro arrugginito, dribbla altri figli di immigrati e le insidie di strada. 

All’inizio sembra uno dei tanti, ma a otto anni comincia a crescere di botto. Soprattutto di piedi, presto di misure ultranetzeriane: 47. L’immenso talento imprigionato in un fisico ancora in sboccio lo rendono goffo e inconfondibile. Sorte vuole che un giorno passi per la prima volta di lì Hasib Klicic, allenatore del Balkan, squadretta giovanile satellite del Malmö. 

Da allora l’uomo in tuta giallonera è sempre davanti al portone, in attesa che Zlatan scenda di corsa per farsi accompagnare agli allenamenti. E magari scroccargli le 10 corone per un gelato. Klicic gli insegna a proteggere palla, il resto è di serie e gli optional glieli forniscono i piccoli giocolieri che il ragazzo affronta ogni giorno. 

«Ci si conosceva e ci si aiutava tutti – racconterà da campione affermato – E giocavamo ogni giorno: venivano anche da altri parchi lì intorno e ciascuno portava una cosa nuova, vista in tv o inventata. Un colpo, un tiro particolare, una finta. I miei maestri erano Goran, un macedone, e Gagge, un bulgaro che toccava la palla come un brasiliano. Ha un anno più di me ed eravamo assieme nella Primavera del Malmö. Mi hanno insegnato tanti trucchi, il piacere di fare certe cose col pallone, di toccarlo in un certo modo». 

Magari facendolo sparire con la suola, giochino che da pro gli procurerà non poche noie con critica, allenatori e, soprattutto, avversari. «Ma se non seguissi il mio istinto, non mi sentirei Ibra». Cioè un predestinato. 

«Negli occhi ha una luce particolare, quella di chi ama il calcio», è il mantra recitato dagli osservatori a papà Sefik. Contro il Vellinge va in panca per motivi disciplinari e all’intervallo il Balkan è sotto per 4-0. Nella ripresa, entra e segna tutti i gol nella vittoria per 8-5. Gli avversari reclamano i documenti: quel lungagnone non ha 12 anni, il limite di categoria. Vero: ne ha due in meno. 

Il salto al Malmö (1995) è breve, l’adattamento no: perché il pargolo ha il caratterino esplosivo quanto il fisico. 

Varcata la Amiralsgatan, non c’è navigatore che nel nuovo mondo non spadelli. Un giorno, tocca all’allenatore: «Ma chi ti credi di essere, mia madre?». Un altro, a un dirigente che minacciava di non accompagnarlo a casa. Zlatan si mette a piangere perché non sa ritrovare la strada. Non era mai uscito da Rosengård. La sua fama invece varca presto i confini nazionali. 

Nel 1999, il pallino del neo-ds Hasse Borg, ex nazionale, viene fatto esordire da Roland Andersson nella Allsvenskan, la prima divisione, che il Malmö lascerà a fine stagione per ritrovarla in quella successiva. Non prima però che il tecnico venga gelato così, a metà di uno scialbo 0-0: «Mister, vado a casa. Oggi non ho voglia e ho altro da fare». 

Sulla scia dei 16 gol in 40 presenze (già titolare a 18 anni), nel 2000 Arsène Wenger gli fa recapitare la maglia dell’Arsenal con stampati sul retro il numero nove e il nome “ZLATAN”. Il cimelio è ancora appeso, incorniciato, in casa Ibrahimović, in Svezia, ma l’affare non si farà. Imparata la lezione, l’alsaziano sarà più solerte col toro danese Nicklas Bendtner. Non proprio la stessa cosa. 

Altrettanto lungimirante ma più fortunato è Leo Beenakker, che in tournée lo nota in allenamento contro i norvegesi del Moss. Il 22 marzo 2001, lo firma all’Ajax per 7,8 milioni di euro: la cifra più alta mai versata a un club svedese. Il prezzo giusto secondo uno dei più noti scrittori scandinavi, Björn Ranelid: «Ibra crea movimenti che non esistono nel mondo reale: sono improvvisazioni jazz». 

Chissà che musica, in spogliatoio, al primo giorno del nuovo arrivato: «Ciao ragazzi, io sono Zlatan e voi chi c… siete?». Così, almeno, ce l’hanno raccontata, anche se poi gli stessi protagonisti si sono prodigati a smentirla. In lui crede solo l’allora dt Leo Beenhakker: «Come tutti i giovani, all’Ajax ebbe un inizio difficile. Ma non avevo dubbi: sarebbe diventato un grande giocatore». 

La facile profezia del guru olandese si avvera dopo cinque mesi di subentri seguiti all’esordio nell’Amsterdam Tournament, contro Valencia, Liverpool e Milan. Ai tempi “Zlatan”, come allora si fa chiamare anche sulla maglia, è in rotta col padre, forse anche perché tanto gli somiglia. «Ha un orgoglio smisurato – dice l’erede – non puoi aiutarlo in niente, non te lo permette. Dev’essere per questo che, da ragazzo, non facevano che dirmi: “Tu non ascolti”. È vero: mi piace fare le cose da solo. Ma col tempo ho capito che si ha bisogno degli altri. Anche in campo». 

Lì e fuori lega subito con il romeno Cristian Chivu e il brasiliano Maxwell, poi ritrovati all’Inter, e si detesta con capitan Rafael van der Vart. Poi, Rivaleggia in BMW e Porsche con l’egiziano Mido, uno che sul giocargli vicino ci ha costruito la carriera. 

Quella di Ibra prende il volo con le dichiarazioni al vetriolo e gli aneddoti, più numerosi dei gol e degli scontati quanto fuorvianti paragoni col più forte centravanti nella storia del club: Marco van Basten. Il Cigno di Utrecht era un elegantissimo animale da gol. Il Genio, scriverà Roberto Beccantini su la Stampa (parafrasando Jorge Valdano per Zinédine Zidane), «una via di mezzo tra un gangster e una ballerina». 

In chiave pallonara, la love-story di C’era una volta in America

Nel web, impazzano le sue giocate anche se non portano al gol. Come quella che chiude una serie di finte – con elastico pre-Ronaldinho – contro Henchoz: «Sono andato da una parte, poi dall’altra e lui è andato a prendersi un hot-dog». 

Quando invece vuole segnare, fa le cose per bene. Delle 35 reti (in 74 gare) quella al NAC Breda, il 24 agosto 2004, dopo averne dribblati sei, è il Gol dell’anno della Eredivisie. 

Alla Amsterdam Arena, gli emissari dei grandi club – specie italiani – arrivano a frotte e il povero team manager David Endt, tifoso interista dai tempi herreriani e perfetto padrone della nostra lingua, non sa più come farli accreditare. 

Nel 2003, su segnalazione di Nils Liedholm, sembra fatta con la Roma, ma la leggenda narra che il clan Sensi rispose così al Barone: «Ma dove va uno con quel nome da zingaro?». Nel 2004, risponde Capello: alla Juventus. Per 16,8 milioni di euro. Un colpaccio, per un perticone di 1,92 x 84 kg che con quei piedoni fa «con un’arancia ciò che (John) Carew fa col pallone». 

La frecciata la scoccò lo stesso Zlatan, dopo che l’ex romanista, neoriparato a Lione, osò dire che ‘sto Ibra «non era granché». Idea per nulla condivisa nelle nazionali titolate ad accaparrarselo. Facendolo esordire ventenne nello 0-0 casalingo in amichevole con le Fær Øer, la Svezia brucia la Bosnia, sponsorizzata dal papà che pure lo scarrozza dall’Olanda per perorarne la causa presso i vertici federali. Un viaggio a vuoto. 

Nella selezione gialloblù ai grandi tornei e in Champions League con i club il genio è stato spesso incompreso. A Euro2004, il suo colpo di tacco da taekwondo – sport praticato in gioventù – ci fece più male del biscotto nordico (il 2-2 di Svezia-Danimarca) che mandò a casa la Trap-truppen. Ma l’errore ai rigori nei quarti contro l’Olanda, gli zero gol a Germania 2006 e i guai al ginocchio sinistro (più decisivi delle perle contro Grecia e Spagna) rendono negativo il saldo. Senza contare la fuga dal ritiro pre-Liechtenstein, nel settembre 2006, per festeggiare con Wilhelmsson il compleanno di Mellberg. Marachella punita con l’allontanamento da parte del Ct Lars Lagerbäck fino a fine marzo 2007, in occasione della trasferta di Belfast, contro l’Irlanda del Nord, nelle qualificazioni a Euro 2008. 

Col selezionatore, come con gli altri allenatori avuti – da Ronald Koeman a Fabio Capello, che lo affina a forza di VHS di Marco van Basten, fino a Roberto Mancini («speriamo vada via» il labiale-cult) – viste coppie (di fatto) migliori. 

A partire da quella con la connazionale Helena Seger (1970), conosciuta a una festa estiva nel 2002, che gli ha dato due figli, Maximilian (22-9-2006) e Vincent (6-3-2008). Per le date di nascita dei familiari, ha un’ossessione. Sono scritte su scarpe da gioco e parastinchi e se l’è fatte tatuare. In Svezia le chiamano “il Codice Zlatan”, forse a significare un legame che va oltre l’ancestrale vincolo di sangue. 

Giunta a Malmö a 17 anni, ex barista, commessa in un negozio di abbigliamento e modella, Helena è stata account manager alla Swatch Group Nordic. Laureata in economia, era marketing manager per la neonata compagnia aerea FlyMe e dirigente alla Bonniers, il maggior gruppo editoriale scandinavo. 

Prima, il cuore di Zlatan era abitato dalla web designer Maria Olhage, incontrata nel 2000 quando lei lavorava in un hotel di Cipro dove lui era in vacanza. «Era timidissimo. È stato seduto con me al bar tutto il giorno, per tenermi compagnia», dirà dopo essersi fidanzata, nel 2001, con quello che non aveva idea fosse un famoso calciatore. E di essere entrata nella piccola storia del gossip per la risposta dell’amato a chi faceva domande sul dono di fidanzamento: «Quale regalo? Lei ha Zlatan». Robetta per uno che freddò così il giornalista che gli chiese la causa di certi graffi. «Chiedi a tua moglie». 

Maria si trasferisce ad Amsterdam, e si iscrive a informatica, ma la storia finirà nel 2002. Quell’estate Zlatan frequenta la modella svedese Erika Johnson, che poi mai speculerà sulla natura del rapporto, e si vede attribuito un flirt con la pin-up islandese Tinna Alavis. «Non avevo idea di chi fosse» dirà Ibra prima di rendere pubblica l’ultima fiamma. «La mia ragazza è Helena Seger – dichiara alla vigilia del match con la Bulgaria, nel settembre 2005 – Lo dico per mettere fine ai pettegolezzi. Ma è tutto ciò che dirò della mia vita privata». 

Avvistata occasionalmente ad Amsterdam, e in Portogallo a far shopping con Victoria Beckham prima di Inghilterra-Svezia a Euro2004, convive con Zlatan in un appartamento al Lingotto, raggiunto quasi ogni fine-settimana. 

Fino all’estate 2006, quando Calciopoli manda la Juventus in B e lui (che sembrava già del Milan) all’Inter. Per 24,8 milioni di euro, +15 di guadagno per le presto dissestate casse bianconere (-18% nei ricavi per via della retrocessione a tavolino). Le sue prime parole da nerazzurro fanno (relativo) scalpore: «Da piccolo tifavo per l’Inter, dovevo pensare al futuro. Siamo tutti contenti, io, l’Inter e la Juve. Mi dispiace per i tifosi juventini, ma la vita continua». 

Con o senza Moggi, a gennaio 2007 ospitato a casa Ibra – con sommo imbarazzo dell’Inter – e difeso nell’intervista rilasciata da Zlatan a Libero, testata che ha eletto a editorialista l’ex dg della Triade. La famiglia, si sa, viene prima di tutto. 

Ma non farsi tatuare «10-7-1937» potrebbe non essere una brutta idea. 
CHRISTIAN GIORDANO ©
Guerin Sportivo © n. 32, 5-11 agosto 2008



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