Flavio Giupponi: «Cattivo non lo sono stato mai»


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

Flavio Giupponi, allora 23-enne e pro’ da due, dal Giro ’87 si aspettava molto. E come lui gli italiani. 

L’anno prima, era stato maglia bianca di miglior giovane, chiuse quarto ma in calando, (senza) forse anche per via del lavoro di sostegno al capitano, Beppe Saronni, che fu in maglia rosa per undici tappe (con l’intermezzo delle due di Gibì Baronchelli) prima di lasciarla definitivamente a Roberto Visentini. 

Nell’87, per sua stessa ammissione, alla Del Tongo lui era la quarta punta dietro il tridente Saronni-Baronchelli-Contini. La strada però avrebbe detto altro. Saronni e Baronchelli quel Giro non l’avrebbero finito, e Contini nemmeno iniziato. 

Giupponi lo chiuse quinto (a 7’42”), primo degli italiani; per trentun anni il peggior risultato tricolore, poi ripetuto – ma da 35-enne – da Domenico Pozzovivo nel 2018. 

E qualcuno pure arricciò il naso. 

«Fosse stato più cattivo…» divenne il ritornello di una carriera da – a seconda dei detrattori più o meno teneri – “vorrei ma non posso” o “potrei ma non voglio”. O se anche, comunque mai abbastanza. 

«Cattivo non lo sono stato mai», ci racconta citando involontariamente il super Molleggiato. 

Per alcuni, nel gruppo, però presuntuoso forse sì. «Un altro che si credeva campione» ci ha detto off record uno che in quel Giro c’era, e c’era eccome. 

Giupponi il Giro non lo vincerà mai, ma un anno ci andò vicino a tanto così: nell’89 fu secondo a 1’15” da Laurent Fignon, e chissà come sarebbe finita con il Gavia non annullato. Il Professore non era più quello delle epiche battaglie con Hinault e LeMond, e Flavio era nella forma della vita. 

La controprova non c’è, il dubbio sì. Perché la psicosi post-tormenta dell’anno prima ci ha tolto una sfida che forse sarebbe stata epica. 

Professionista dal 1985 al 1994, ha vinto poco. Forse meno di quel che avrebbe potuto. 

Il Giupponi di oggi, che incontro nel suo ufficio nel Comasco, sembra però un uomo risolto. 

In bici ci va ancora, ma solo per diletto, o per beneficenza (come alla “Pedala con i campioni” del suo ex gregario Ennio Vanotti), e su una specialissima all-black di fascia alta fatta su misura da suoi amici costruttori ipertecnologici. 

Messa alle spalle la fallimentare – alla lettera – esperienza dirigenziale alla Brescialat (lui, Bordonali e Leali furono i primi corridori in attività a essere patron di se stessi), ha lasciato l’ambiente delle corse per tuffarsi in una seconda vita sì da dirigente, ma d’azienda, e nel settore degli strumenti medicali per dentisti. 

Nel mezzo i mille mestieri per pagare i debiti, e ripartire dopo quel bagno finanziario. 

Dopo 14 anni e mezzo (1997-2012) nell’area manager alla Zimmer Biomet e i sei anni da Direttore Commerciale Italia per la MegaGen Implant, dal maggio 2019 è Direttore vendite e sviluppo commerciale per la iRES Group a Lugano. 

«È un bravo ragazzo, uno che ascolta. Niente mattane, niente colpi di testa. Forse, mancava un po’ di carattere, di malizia. Adesso, sta mettendo i denti», diceva il suo massaggiatore Mainardi nei giorni bollenti del Giro ’89. 

Il bravo ragazzo di Ponteranica, alle porte di Bergamo e con vista sulla val Brembana, ha fatto carriera. E chissà se e quanto è vero che cattivo non lo è stato mai. Magari, appena appena, un po’ lo è diventato. I denti li ha messi. E ora continua a metterli. Agli altri. 

sede MegaGen Implant
Merone (Como), giovedì 28 giugno 2018 

- Flavio Giupponi, che gran bel corridore è stato… Flavio Giupponi? Definizione mia, eh: libero tu di dissentire. 

«Be’, “gran bel corridore”… [ridiamo, nda] Non lo so, io son sempre stato abituato a guardare a chi fa meglio di me. E quindi ci son stati tanti altri corridori che hanno fatto anche molto meglio di me. Però nella vita bisogna anche guardarsi intorno. Sicuramente, più che per i risultati, nella mia esperienza di vita – perché ormai devi anche fare un po’ qualche bilancio, no? – il ciclismo mi ha insegnato innanzi tutto la possibilità di crescere, mentalmente e fisicamente; e soprattutto a vedere molti aspetti, molte sfere della vita, che probabilmente una persona “normale”, che svolge la classica routine lavorativa, non ha la possibilità di vedere. Perché comunque, oltre che da ciclista, quindi da atleta, che è un mondo molto bello, poi l’ho vissuto anche come esperienza dirigenziale. Anche se per me drammatica, è stata comunque un’esperienza. E poi ho avuto anche la fortuna, a Telemontecarlo, di fare qualche anno da giornalista o comunque da opinionista, che è una sfera diversa. E quindi ho visto un po’ diversi mondi, a trecentosessanta gradi. La cosa più bella, a livello culturale e anche mio mentale, è una grande ricchezza. E grandi esperienze che porto, molto gelosamente; dentro di me». 

- Il ciclismo, allora: come hai iniziato? Come l’hai scoperto? 

«Da ragazzino, avevo sette anni, e tra amici si correva in bicicletta. Tutti avevano la Saltafoss, la bici da cross. Io avevo una bicicletta scassata, perché i miei non avevano un soldo. Io perdevo sempre, io incazzato nero perché mi si rompevano le ruote, mi si spaccavano i raggi, così. Allora mio padre mi ha detto: Ti compro la bicicletta da corsa così almeno puoi giocare. Prima di Natale, vado a vedere ’sta bicicletta, vado da ’sto ciclista – mi ricorderò sempre – [Giacomo] Maffioletti, in provincia di Bergamo [esiste ancora: Cicli Maffioletti, a Villa d’Almè, nda], che mi dice: Te la faccio. Guarda che sta nascendo un nuovo gruppo sportivo, per correre in bicicletta, prova a iscriverti. Dico: Bah, provo a iscrivermi… Si può fare. Io son partito così. Addirittura non avevo neanche la maglia. Ho corso con una maglia bianca perché non avevamo ancora la maglia con il nome della squadra». 

- E quindi ancora non avevi scoperto di andare forte. Quando e come l’hai capito? 

«No, no. Poi, pensa, i primi tre anni, e io vincevo sempre – sai, quando si corre a livello giovanile, erano circuiti di un chilometro, e li fai per non so quante volte, in funzione dell’età, stai dietro e al massimo scatti nel finale –, io dalla paura tiravo sempre. Pronti-via, tiravo. E l’ultimo giro, o in volata, mi staccavo perché ero stanco morto. L’unica volta, la prima corsa che ho vinto, è perché era salita e discesa, si finisce e tirando-tirando siamo rimasti in due. Gli altri li avevo staccati tutti, e alla fine [l’altro] non mi supera più… [ride, nda] E da lì ho capito che dovevo un po’ cambiare mentalità. E quindi è stata una cosa molto casuale, però molto utile…». 

- Bisogna anche essere fortunati, con i tempi. Giupponi non lo è stato molto perché ha avuto dei signori compagni e avversari… 

«No, ma no, non penso. Quando si dice: “Eh, ma il mondo di oggi non è più come [quello di] una volta, stiamo andando male”, no? Il mondo cambia, e bisogna cambiare. Se non cambi, e probabilmente quando gli anni passano cambiare è difficile, si pensa che il mondo non sia più quello di una volta. Certo che non è più quello di una volta, ma siamo noi non più adatti. E quindi direi di no. Diciamo che in ogni epoca ci sono i grandi corridori. Io probabilmente ho avuto la fortuna di iniziare con un Saronni sicuramente in fase di discesa, in cui magari doveva dar meno risultati, e comunque dava più possibilità di potersi muovere. E poi ho anche avuto la fortuna di arrivare ad altri corridori, come Indurain, che per me è stato uno dei più grandi corridori a tappe e non solo, e come uomo; e all’inizio di Pantani, che è stato, soprattutto per gli italiani, un grande corridore». 

- Io però mi riferivo più all’epoca d’oro del ciclismo italiano. Oggi non abbiamo più squadre nel World Tour, e non tanto come corridori ma come movimento siamo lontani da com’eravamo trent’anni fa. 

«Ecco, quello sì. Questo dispiace. Dispiace perché comunque il ciclismo è sempre stato “italiano”, gli italiani han sempre dominato. Squadre, come modo di organizzare… Sicuramente c’è il fatto economico, ma io non penso sia più il fatto economico. Probabilmente – per me – è anche l’importanza di dare alle aziende un segnale forte. E quindi ci vuole una federazione, o comunque una lega molto forte che possa riuscire a coinvolgere le grandi aziende. Perché senza le grandi aziende, con i costi così lievitati, non è possibile fare nulla. So che comunque stanno lavorando. Vedo che il Giro d’Italia piano piano sta comunque trovando la sua visibilità; la sua organizzazione vedo che negli ultimi anni ha fatto delle migliorie. E poi mi auguro che piano piano possa avvicinare anche delle grandi aziende che possano investire. E che si possa far tornare l’Italia tra le protagoniste come gruppi sportivi». 

- Tu hai corso anche in grandi squadre come la Del Tongo, e fatto parte di grandi progetti – e qui abbiamo una foto della Malvor – che però hanno avuto grossi problemi. Se tu dovessi fare un bilancio, prima da corridore di grandi squadre e poi per le tue esperienze in azienda, che cosa manca alle nostre squadre di oggi per competere con multinazionali come Sky [l’attuale Ineos, nda], Movistar eccetera. E quanto sono diverse, questi grandi team attuali, dalla Carrera o dalla Del Tongo dei tuoi tempi? 

«Ma è cambiato un po’ tutto il sistema, di conseguenza non puoi… Io penso che se noi applicassimo il metro della Del Tongo, della Malvor, della Carrera di allora, oggi non sarebbe un sistema vincente perché purtroppo cambia il mondo. Cambia anche il modo di allenarsi, di correre, la preparazione, l’alimentazione. E quindi l’unica cosa è che magari loro – i direttori sportivi, perché poi erano loro che gestivano – erano capaci di trasmettere una familiarità. E questa è una cosa, perlomeno soprattutto con la Del Tongo e con la Malvor, che il mio direttore sportivo – Pietro Algeri – era capace di trasmettere: un senso di essere affezionati, siamo tutti una famiglia, e di conseguenza riuscivamo a dare tutto. Oggi invece conta solo il risultato. Anche allora contava il risultato – non siamo pagati per correre, siamo pagati per vincere, e ovviamente son due cose diverse – però qui è tutto programmato. Oggi ce n’è uno che corre qui e uno dall’altra parte. L’apertura alle corse a livello mondiale, non più [solo] in Europa e qualche volta in America, porta comunque a perdere questo senso di familiarità di confidenza». 

- Corridori della stessa squadra che si conoscono appena perché hanno programmi diversissimi e s’incontrano magari al raduno e poi più niente… 

«O poco. Oppure c’è un interesse economico, o di ruolo, ma non c’è quell’attaccamento che allora c’era. Mi ricordo che Saronni aveva appunto i suoi tre o quattro uomini, il Ceruti della situazione. Aveva i suoi uomini che erano proprio fedeli a lui…». 

- Tu hai fatto a tempo ad avere quel tipo di rapporto con qualche tuo gregario? 

«Mah, io un po’ meno. Già un po’ si era perso. Un po’ io non avevo la fama, e non avevo neanche le vittorie di Saronni, quindi il problema era anche di avere quel ruolo, perché devi essere molto più forte. E quindi non avendo quei risultati, non ho potuto. Con [Ennio] Vanotti, per esempio, ho avuto dei rapporti molto... Sempre in camera insieme, quindi c’era questo rapporto di grande aiuto e di grande confidenza, e ancora oggi manteniamo i rapporti. Ci si sente con grande piacere. Poi la vita non è solo ciclismo, penso ci sia anche altro. Poi purtroppo la vita è sempre di corsa, gli impegni son sempre tanti e ci si perde… per strada. Però si cerca sempre di tenerli sempre un po’ vicini». 

- Prima mi hai buttato lì, en passant, qualche nome. Mi tracci delle differenze, come direttori sportivi che hai avuto, tra un Pietro Algeri alla Del Tongo e alla Malvor e un Davide Boifava alla Carrera? Personaggi anche così diversi… 

«Pietro Algeri, dal mio punto di vista, è stato il vero direttore sportivo, che ti ha preso proprio da papà e ti ha cercato di insegnare, di aiutare. Davide Boifava, essendo anche all’interno del gruppo sportivo, e quindi era direttore sportivo ma anche il gestore, gestiva quindi c’era anche un interesse economico, era un manager quindi il rapporto era un po’ diverso. Io poi da lui sono arrivato, appunto nel ’90, quando ormai, dopo essere arrivato secondo al Giro d’Italia, ero già maturo e quindi anche per lui non era facile iniziare un rapporto…». 

- Però proprio per questo, rispetto agli esordi con Algeri, da Boifava arrivavi con uno status diverso, no? 

«Sì, però confidenza ne ho avuta più con Pietro. Perché io sono arrivato a 21 anni al professionismo e quando il pulcino nasce, trovi la chioccia e tu ti attacchi, cerchi di aiutarti. Dopo quattro anni uno ormai è maturato, è cresciuto, il rapporto cambia. Non sei più il bambino ma sei anche l’adolescente quindi il rapporto è un po’ diverso. Devo dire che anche con Boifava non ho avuto alcun problema. L’unico problema mio è che ho avuto degli infortuni che non mi han permesso di rendere come lui stesso si aspettava, perché qualcosa in più si aspettava. Poi, ha avuto la fortuna di trovare un Chiappucci che veramente ha fatto un salto di qualità e questa cosa, nei miei confronti, non è che si è incrinato il rapporto ma giustamente… Chiappucci, per quanto andava, era giusto dare più risalto a lui…». 

- L’appellativo “Il Cardinale” per Boifava da che cosa viene fuori? Dalla sua capacità di cercare sempre di mettere d’accordo un po’ tutti? 

«Eh beh, sì. Questa è la cosa più difficile. Tieni conto che ogni atleta, il campione, deve essere un po’ egoista di natura, perché deve vincere. Vuole sempre vincere. Il coordinare tutti i vari uomini, o i vari galli del pollaio, è sempre la cosa più difficile. E quindi ci sono queste gelosie, queste ripicche. Magari durante le riprese televisive o durante la gara non si notano, ma tali situazioni nascono. Io per esempio posso dire una cosa che magari non si è mai saputa. Io mi ricorderò sempre quando Chiappucci prese la maglia gialla al Tour de France [12ª tappa, 12 luglio 1990, 33,5 km da Fontaine a Villard-de-Lans, vinta da Erik Breukink, nda]. Io mi ricordo che nella “famiglia” di prima, quando c’era una vittoria molto importante, eravamo tutti allegri. Quando siamo scesi al ristorante quella sera, ed era il momento che ci si ritrovava tutti insieme perché quel giorno [la tappa] era a cronometro quindi ognuno aveva fatto la propria corsa, ci si era visti la sera e tutta la sala, quando entrò Chiappucci, aveva salutato applaudendo la maglia gialla. Aveva fatto una bellissima impresa, ma la squadra non aveva applaudito perché Chiappucci aveva fatto una dichiarazione in televisione, dicendo, alla classica domanda “A chi dedichi questo risultato?”, questa vittoria – questa maglia gialla, in quel caso – “la dedico a me stesso, perché mi son fatto da solo”. E lì…». 

- …il gelo. O un po’ di freddezza, come minimo… 

«Eh beh… Se hai una squadra che ti deve aiutare… Infatti, la squadra c’è rimasta male, e nessuno lo voleva aiutare. E lì bravo Boifava nel cercare di recuperare i grandi nomi – come il velocista Bontempi, c’erano dei personaggi validi… – affinché tutti poi lavorassero per Claudio Chiappucci. Lì è stato, secondo me, un atteggiamento un po’ magari ingenuo, diciamo, no? Una frase ingenua dettata dalla poca così esperienza nello svolgere un ruolo di primo attore. Però gli è un po’ costata…». [ride, nda] 

- E anche caro. Senti, invece questa cattiveria che tanti imputavano a te di non avere, alla fine era davvero così? O sono le solite esagerazioni giornalistiche perché c’è sempre bisogno di un’etichetta: e Giupponi poco cattivo era quella più facile? 

«No. Io probabilmente “cattivo” non son stato mai». 

- Però per un campione è una qualità che serve, vero? 

«Mah, io non son così convinto. Devi essere determinato, quello sì, ma la cattiveria, secondo me, ti porta da nessuna parte. Però probabilmente fa parte del mio carattere. La cosa che lo sport mi ha insegnato è di essere sempre leale. Io, anche nella vita dopo, sono sempre stato molto leale. Non sono uno che pensa male, non sono uno che vuole essere primo attore. Assolutamente no. Probabilmente [mi] poteva aiutare di più ma se sono fatto così, neanche posso cambiare ma sono contento di essere così. Perché nella vita non c’è solo il risultato, non c’è solamente l’essere protagonista. È bello anche far sentire protagonisti gli altri oppure essere tutti protagonisti. A me piace questo, no? Molte volte dico: mi piace anche, quando in questo lavoro per esempio devo presentare qualcosa a qualche medico, lasciare che siano gli altri a fare la parte dominante. Perché – dico sempre – io le mie grandi soddisfazioni di visibilità le ho già avute. E quindi è giusto che [adesso] siano gli altri a… Ma soprattutto, se vuoi essere un grande “condottiero”, ed è questo che ho imparato, devi sempre premiare gli altri. Qui è stato moto bravo Indurain a insegnarmi, ed io lo trasporto nella vita. Indurain era il classico corridore che dava spazio a tutti. Dei piccoli spazi a tutti, però lui si prendeva lo spazio migliore. Quindi lui non era un cattivo, anzi era molto altruista e [per questo] ha perso pure un mondiale [Duitama 1995, vinto dal suo connazionale Abraham Olano, nda], cosa che nessuno avrebbe fatto. Però di lui nessuno parla male. Grande uomo. È un grande uomo. E penso che questo valga di più di alcuni risultati». 

- Hai parlato di lealtà. Tu sei stato in squadra con Visentini (alla Malvor), hai avuto Boifava come diesse (in Carrera). Se – trentun anni dopo – ti dico “Sappada”, che cosa ti viene in mente? 

«Ma sai, io ero alla Carrera nel ’90...». 

- Nel 1987 eri alla Del Tongo. Eri in gruppo e volevo capire come l’hai vissuta. 

«Lì c’è stata... Io ero “Del Tongo” quindi per noi ovviamente andava bene una cosa del genere. Per me è stato un grande tradimento di Roche». 

- Non si era mai visto attaccare un compagno in maglia rosa, per di più vincitore l’anno prima… 

«Be’ ma io se lo facevo con Saronni che lui era maglia rosa…». 

- Ecco, che cosa sarebbe successo? 

«Veniva e mi buttava giù dalla finestra, sulla strada mi buttava giù dalla bicicletta, e a casa. Penso che questo non debba mai succedere e che sia una questione di…». 

- …rispetto? Di gerarchie? Secondo te, Boifava è stato un po’ travolto dagli eventi? 

«È stato travolto dagli eventi, non se lo aspettava. Sapeva che erano due grossi corridori, perché Visentini era un grosso corridore, anche se non lo vinceva al Giro era sempre protagonista e l’anno prima l’aveva vinto; e un Roche che lui sapeva che andava veramente forte, quindi lui ha lasciato fare, tanto uno ce l’ho dietro, uno ce l’ho davanti, so che ho in porto il risultato. Lo sbaglio di Roberto, magari, è che essendo una persona molto emotiva e reattiva, si è lasciato prendere da questo nervoso, e poi alla fine è andato in crisi di fame, non ha più mangiato, sbuffava… il nervosismo, poi, uccide, no? Uccide. E lo stress mentale uccide “di più”. E lì è stato il grande sbaglio. Probabilmente, Visentini doveva avere qualcuno vicino, e magari ne ha avuti pochi di corridori che lo aiutassero a livello psicologico: Dai, stai qua… ma che te ne frega, mangia, tanto poi in salita lo vai a riprendere. È questo il discorso. E invece è rimasto isolato. Il motivo dell’isolamento non lo so. Lì, infatti, il concetto è che [Pietro] Algeri è riuscito di più a creare la squadra a favore del personaggio di quel momento, in questo caso Saronni. E Saronni anche è stato bravo nel cercare di difendere i propri…». 

- A un certo punto, dei Del Tongo quello messo meglio in classifica eri tu, quindi la squadra correva per te, o no? 

«Ecco. Però tieni conto che comunque, con Saronni, è normale che prima c’era lui e poi venivo io. Tutti correvamo per Saronni, io avevo la libertà di essere l’ultimo a lavorare per lui, quindi ero risparmiato fino a che [non c’era più] nessuno… Dovevo lavorare per lui, era una cosa normale ed io non mi sono mai sottratto dal mio impegno. Ancora prima, nell’86, quando ero in maglia bianca e lui in maglia rosa, io alcune volte tiravo per lui perché maglia rosa vale di più di maglia bianca. Ma lo facevo… Se ero più cattivo magari non lo facevo, o facevo finta di essere stanco, ma bisogna essere leali. C’è comunque un interesse. Se si vince un Giro d’Italia o se si porta una maglia – qualsiasi maglia – si guadagnano dei soldi per tutti. È un vantaggio per tutti. Lo sponsor poi è più contento. È tutto un’entrata a vantaggio di tutti». 

- Che cosa è cambiato per voi Del Tongo dalla tappa di Sappada in poi, anche dal punto di vista tattico? Se qualcosa è cambiato… 

«No. Per noi non è cambiato niente perché alla fine cercavi di prendere, di portar via la maglia rosa, che è passata da una spalla all’altra ma sempre della stessa squadra, quindi nulla è cambiato. Probabilmente un Roche era più difficile da poter... E infatti non siam riusciti a fare niente. Ci è dispiaciuto per Visentini perché comunque, anche se all’interno della gara siamo tutti avversari, in realtà poi, fuori della gara, siamo anche tutti amici. E ti dispiaceva per lui perché comunque essere in maglia rosa e perderla per un tuo compagno di squadra… Penso sia una delusione enorme». 

- Secondo te quanto ha influito sulla fine della sua carriera? Ha resistito altri tre anni ma forse con la testa aveva già smesso. È lì che ha smesso, secondo te? 

«Ma sai, Visentini… Probabilmente lui ha vissuto un’epoca per lui non facile, rispetto a me. Si è inserito fra due grandi campioni come Moser e Saronni – e la stampa, giustamente, cavalcava la giusta rivalità, “giusta” perché era una rivalità vera, non creata dai giornali – e lui in mezzo è rimasto un po’ schiacciato. Come altri corridori, come Baronchelli stesso. E Visentini ne ha sofferto soprattutto anche perché Moser è sempre stato molto spalleggiato da parte dell’allora Rcs, o da Torriani. Posso dire di no, che non è vero, ma è vero, quindi… [ride, nda] La verità è questa. Io in quei momenti non c’ero ma quando tutto il gruppo ti dice che è vero… È vero, insomma. Ecco perché mi ricordo ancora la scena che il Boifava mi raccontava, di quando Visentini poi si è accorto che all’antenna della macchina di Torriani c’era attaccato il Moser. Era talmente incazzato nero… Poi c’era un tifoso di Moser… Organizzavano queste “catene di sant’Antonio” per spingere Moser. Queste le ho vissute anch’io in prima persona. Li ho visti. Roberto poi s’è talmente arrabbiato, se l’è presa con un tifoso di Moser che probabilmente lo insultava, o cercava di farlo fermare, lui è sceso, lo ha rincorso a piedi…». 

- Sì, al Giro dell’84, nella tappa di Selva di Val Gardena. Voleva ritirarsi, poi Battaglin l’ha convinto a risalire in bici e ad arrivare al traguardo. Mesi dopo, il Visenta ha segato la bici e l’ha restituita in pezzi a Boifava… 

«Ha segato la bicicletta... Ecco, tutte queste situazioni lo han portato comunque a… Lui, un carattere molto forte, non è che aveva bisogno di niente, famiglia ricca, benestante, lui un carattere molto determinato anche un po’ “menefreghista”, alla fine ha sofferto…». 

- Volevi dire strafottente? 

«Strafottente no. Nel gruppo viaggiava la voce che era uno che non si allenava mai, che beveva tanto. Sicuramente non era il tipico buon esempio, però era uno che si allenava tanto. Anche perché poi i risultati, se non ti alleni… Poi qualche volta poteva magari bere il bicchiere in più, ma chi non l’ha mai fatto? Tenendo conto poi che i ciclisti, rispetto agli altri sport, sul bere e mangiare non puoi sgarrare sennò il giorno dopo non puoi essere competitivo… Quindi era il contrario. Poi ci son su queste voci ma era a lui stesso che piaceva far uscire queste voci… E poi era già fuori in bicicletta, magari usciva alle cinque di mattina perché gli piaceva il fresco e rientrava alle nove quando gli altri uscivano, e tu dicevi: guarda Visentini che non va in bicicletta. No: ha già fatto quattro ore di bicicletta…». [ride, nda]. 

- Visentini l’avrai conosciuto bene, anche dal punto di vista caratteriale. Roche invece? L’hai conosciuto bene? 

«Io, poco. Più Visentini…». 

- Tu sei andato in Carrera proprio nel periodo in cui non c’erano loro, cioè dopo Visentini e Roche insieme e prima del ritorno di Roche… 

«Roche già non c’era più… 

- Tornò in Carrera nel 1992, ma in gruppo magari avrai avuto modo di interagire con lui… 

«Ma no, Roche parlava poco, era uno che si faceva molto i fatti suoi. Era un tipo che correva per sé, punto. C’era lui e basta. Ha fatto quell’anno fortissimo e poi è un po’ sparito. “Sparito”, diciamo non ha più fatto quei [risultati]… Non ha mantenuto quel livello, mentre Visentini l’ho conosciuto molto bene. L’ho conosciuto anche al di fuori». 

- Di lui che cosa mi puoi raccontare? 

«Visentini è un personaggio strano, no? Perché comunque è uno cui piace vivere. È una persona molto gioiosa, il classico bresciano – in modo positivo – che lavora, lavora parecchio. Abita a Salò, sposato con una moglie stupenda, avvocato. Però i due opposti, probabilmente sono le due facce, le due “mezze medaglie” che si uniscono: lei è molto colta, molto preparata, molto delicata e lui invece è molto espansivo, proprio bresciano, che – un po’ come il veneto no? – metti una bestemmia quasi in ogni frase». [sorride, nda] 

- Non avrei saputo dirlo meglio, gli hai fatto il quadretto... 

«Però molto ospitale, per esempio». 

- Mi ha sorpreso: con me è stato gentilissimo. Alla fine quelle del Visentini scontroso, che evita ogni contatto con i giornalisti, son tutte voci... 

«Io son andato a casa sua, se non apriva una bottiglia – di vino, ovviamente – e se non la si beveva, quasi si offendeva. E quindi è ospitalità questa, no? Poi, ovviamente, se gli sei antipatico perché magari non ti sei comportato correttamente, è normale che… Ecco, magari, essendo una persona molto riservata, è anche timida. Per me, anche se lui non l’ha dimostrato, era molto timido e quindi può anche essere chiuso e magari “crearsi” accanto delle persone che possono aiutarlo. Nel mondo professionistico, ed io ho avuto la fortuna di correre in tutte le categorie, ho sempre trovato direttori sportivi che hanno creduto nel gruppo e nell’insegnarti lealtà, sacrificio…». 

- Non a caso, l’unico direttore col quale Visentini si è trovato davvero bene – me l’ha detto lui stesso – è…? Te la metto lì, facile-facile… 

«Pietro Algeri?». 

- Bravo. Competente sul piano tecnico e, come dicevi, con anche quella componente… 

«…umano-familiare. Pietro per me è stato… Ma non posso dire degli altri – a parte che non ne ho cambiati tanti, perché alla fine, dopo Algeri sono andato da Boifava quindi non è che ho cambiato molto, poi dopo la squadra bene meno ho fatto con Pezzi Mercatone Uno, che c’era Franco Gini però era già diverso, verso la fine, ero già grande. Però sotto questo aspetto, sì, devo dire che lui essendo anche timido non è riuscito a…». 

- Per chiudere questo discorso dei due galli nel pollaio, due ne abbiamo visti con Sappada al Giro ’87, ma qui alla Malvor altro che due, guarda che roba… Qui com’era lì vivere con tanti galli, anche se due o tre erano a fine carriera come Contini, Saronni e Visentini, alcuni che invece si affacciavano… 

«Un Allocchio che oggi copre un ruolo importante con RCS, e meritato poi oltretutto, devo dire comunque poi velocista sapevamo che quando c’era arrivo in volata dovevam tirare per lui… Quindi si lavorava bene…». 

- E quindi le gerarchie erano chiare… 

«Ma molto chiare, quindi direi con Contini abbiam corso anche un Giro d’Italia, via ha preso la maglia rosa, anche se era meglio che la prendessi io [ride, nda] però d’altronde…il primo che arriva è meglio alloggia…». 

- Chi la fa l’aspetti. Contini ancora ce l’ha con Alessandro Paganessi per la Tre Valle Varesine del 1983, persa per due secondi… 

«Però d’altronde.. poi c’erano alcuni giovani, da Furlan a Piasecki, che fu un gran cronoman, Lang… Però si viveva anche abbastanza bene perché comunque era capace di dare spazio un po’ a tutti. Io comunque al Giro d’Italia arrivavo sempre per secondo e poi, quando saltavano gli altri, c’ero io, però fa parte [del gioco]…». 

- Col Gavia non annullato come sarebbe finita? 

«Mah, guarda, io ho sempre detto che ero – anzi, sono – sicuro di vincerla. Te lo posso dire con estrema sincerità, a meno che poi foro, cado…». 

- Fignon quindi lo vedevi attaccabile? 

«Sì, io penso di averlo dimostrato anche nell’ultima cronometro, di cinquanta chilometri, Firenze [Giro 1989, 22ª e ultima tappa, 53,8 km da Prato a Firenze: vinse Lech Piasecki con 1’03 su LeMond, 2’05” su Giupponi, Fignon quinto a 2’21”, nda]. Una crono adatta a lui perché tutta pianura, e nonostante lo choc che ho avuto per lo stop su a Pila, mi son fermato e poi son ripartito, ho perso venti secondi, in un percorso adatto a lui, quindi vuol dire che la mia condizione fisica era nettamente superiore. Poi sapevo anche che, quando ho vinto la tappa di Corvara, lui aveva dei problemi. Aveva freddo, quella era stata una giornata abbastanza fredda, lui aveva problemi anche col ginocchio, gli faceva male, quindi per me la tappa del Gavia era… Poi avevo appena vinto la ma la prima tappa importante. Andavo veramente forte come non sono più riuscito ad andare in carriera. Veramente, come si dice, proprio non sentivo la catena, sui pedali. Ero sicuro. Poi io avevo anche dichiarato: O vinco o salto. Secondo, a me non interessava. Ero convinto di vincere perché andavo veramente forte. Infatti la sorpresa è stata proprio quella. Diciamo nella storia del ciclismo d’Italia, forse non han mai tolto una tappa. Sospesa. L’unica volta che han sospeso una tappa è stata quella, io ero alla Malvor. L’anno prima, quando poi son arrivato quarto, che in maglia rosa c’era Chioccioli… [il Gavia si fece] Lì, poi, sai, diciamo che comunque c’erano questi. C’è da dire che allora – anche se questa è una voce, poi non so dire – con Moser e Saronni, essendo italiani e il Giro è italiano, e ci sono anche interessi di un ritorno [economico], sicuramente in quegli anni lì il Giro era meno difficile rispetto ai Giri degli anni successivi…». 

- I famosi (o famigerati) Giri “delle gallerie”… 

«…perché comunque cercavi di avvantaggiare i corridori italiani». 

- Lo fanno anche al Tour per i corridori francesi. Guarda le due cronometro di quest’anno [2018]: è una Grande Boucle disegnata per Romain Bardet, anche se poi magari – per mille motivi – non la vincerà… 

«È anche normale…». 

- Dal punto di vista caratteriale, di Fignon, da avversario leale, che cosa mi puoi dire? 

«Ma sai, Laurent è sempre stato una persona… Io l’ho conosciuto un po’ nella fase non dico calante, perché poi ha vinto il Giro, ma comunque non era più il Fignon [dei tempi] di Hinault: là era un giovane emergente. Era un personaggio molto corretto, molto “normale”. Non era uno che litigava. Mai». 

- Quella sua fama di snob, di grande antipatico? 

«Nooo. Era il classico parigino ma “signorino”, signore: non poteva essere antipatico. Era una persona che faceva la sua vita, in gruppo non pretendeva nulla, non era arrogante. Poi nella vita privata non lo so. Ci sono delle persone che possono essere più antipatiche, che magari sono sgarbate, però lui no, anzi tutt’altro. Poi, al Giro d’Italia, quando eravamo concorrenti, lui aveva paura di perdere il Giro e non s’è mai comportato con atteggiamenti… assolutamente no. Grande rispetto, e io grande rispetto per lui. Poi, è stato bravo a gestire la situazione. Io non avevo non i mezzi ma il percorso adatto per poterlo battere e quindi… Difatti anche la critica che avevo ricevuto dopo la tappa di Prato, che abbiam fatto le salite, non mi ricordo più i nomi [21ª e penultima frazione, 220 km da Spezia a Prato con le ascese di Carpinelli, San Pellegrino, Abetone, Prunetta e Sammomme, nda], e non ho attaccato. Non ero scattato. La facevo con regolarità, ma la mia tattica, che poi ha vinto Bugno quella tappa, era anche normale perché ovviamente Fignon aveva un accordo con i grossi corridori che poi correvano con lui il Tour: datemi una mano che poi vi ritorno il favore. Ed essendo corridori di prim’ordine, se io scattavo, e andavo da solo e lasciavo il gruppetto di Fignon con questi tre o quattro tutti insieme, io cuocevo da solo davanti e in cinque mi rincorrevano in pianura dall’ultima salita all’arrivo. Quindi io cercavo, ho cercato, a uno a uno di staccarli e di lasciare che diventasse una corsa a uno. Alla pari. E non a cinque. Ma purtroppo non ce l’ho fatta». 

- Una critica che qualche addetto ai lavori ti faceva è che forse ti ritenevi più forte di quel che eri, e che magari non avevi un motore così potente. Ti ci riconosci o sono critiche un po’ ingenerose? Perché magari quella da una parte era la tua forza e dall’altra il tuo limite… 

«Mah, guarda, io in realtà fisicamente forse ero meno dotato di altri». 

- E quindi casomai valeva l’opposto: riuscivi a spingerti al di là dei tuoi limiti fisici? 

«La testa, per me, più del motore, anche se il motore, rispetto a tanti altri, era sicuramente meglio, perché sennò… Se non hai il motore, non vai. Un asino non diventerà mai un cavallo, no? Più alto…Però la testa… Anche nei test. Io mi ricorderò sempre questo aneddoto. Prima di fare il Giro della Val d’Aosta nel 1984, il test di Conconi e tutto… Mi fanno il test a Dalmine, il test di soglia, il test di Conconi, insieme a una squadra di professionisti. Io ero dilettante. Faccio questo test, finisco questo test, addirittura si son girati, per vedere i risultati. Neanche mi hanno salutato. Dico: boh… Vado. E son salito sulla mia ammiraglia che mi portava al Giro della Val d’Aosta perché il giorno dopo iniziava il Giro della Val d’Aosta. L’ho vinto». 

- Ma perché senza salutarti? Da quanto i valori erano bassi? 

«I mei valori, sì. Non ti consideravano, ma questo qua chi è? Un amatore, è un allievo… Il risultato del test era molto basso, e poi ho vinto il Giro della Val d’Aosta. Diverse volte mi è successo questo. Quindi penso che probabilmente il mio motore non era come quello di Bugno o come quello di Fondriest. Poi non lo so, diciamo che conta il binomio delle due cose, il motore e soprattutto la testa. Perché la testa ti permette di andare oltre, dove non riesci. Io ho avuto un attimo di smarrimento quando è cambiata la tipologia dell’allenamento: dal classico allenamento “casuale”, non ripetizione ma salite-allungo, allungo-medio, ma senza cardiofrequenzimetro e poi quando, con l’èra di Conconi, è diventato invece un allenamento molto programmatico. E devo dire che in quel periodo ho perso… Dovevo forse farmi seguire da qualche specialista prima per imparare nuove tecniche di allenamento che migliorassero la mia performance. E invece mi ci sono avvicinato un po’ troppo tardi. Dico subito che, per esempio, Conconi, il personaggio odiato da tutti, per me è stato un grande medico». 

- Il problema erano certi “conconiani” magari, non Conconi… 

«Non lo so. Io dico che comunque c’è molta ipocrisia all’interno, no? Si spara su uno per proteggere gli altri o per… Io reputo che non c’è alcun santo all’interno, né da parte dei medici né dei corridori, di tutti, perché poi alla fine… Quando non dico si dorme tutti insieme ma [si sta] insieme trecento giorni l’anno, conosci meglio il tuo direttore sportivo e il tuo compagno di camera che tua moglie. E io mi ricorderò sempre, per questo mi piace spezzare una lancia in favore di Michele Ferrari, di quando ho fatto la prima visita da lui, perché son stato seguito da lui per quasi un anno. Io non lo conoscevo, son entrato e mi fa: Ma tu perché sei venuto da me? Io ho spiegato un po’. E lui: Se tu pensi che con un farmaco, con una pastiglia, tu pensi che tu possa andar più forte e vincere… Tu sei entrato da lì, quella è la porta e ti dico: esci pure. Certamente, “curarsi”… Attenzione: sto parlando di “cure” normali, non doping. Distinguiamo dal doping. Uno sportivo deve essere supportato a livello vitaminico, di amminoacidi, ma la pastiglia non ti fa andar più forte. “Primo, devi esser magro come ti dico io, seconda cosa ti devi allenare come ti dico io, terza cosa da me devi arrivare a una soglia che ti dico io. Se non arrivi a quel livello, tanto è inutile che puoi correre in bicicletta”. E lì mi ha fatto capire quanto sia importante...». 

- Quanti anni avevi? 

«Avevo ventisette anni». 

- Quindi avevi ancora margini di crescita? 

«L’anno dopo il secondo [posto al] Giro d’Italia ho avuto la sfortuna di rompermi la clavicola, nel ’90, prima della Milano-Sanremo. Fratturata in quattro punti. Mi è stato fatto un intervento veloce, rapido, per farmi correr subito. Mi han messo questa placca con otto viti – perché era scomposta – e con un intervento in anestesia generale che mi ha sfasato la preparazione al Giro d’Italia, e quindi ho perso… Poi riprendere non è così facile perché ci vuole un periodo, dei tempi. L’anno dopo ho avuto un altro infortunio prima del Giro, alla Vuelta – allora la Vuelta era prima del Giro – Mi si è rotto, tranciato, il muscolo del tibiale. Una lesione importante, quindici giorni prima del Giro d’Italia. Franco Combi, diventato dottore anche dell’Inter – grazie a un trattamento con degli uncini mi ha messo a posto il muscolo e son riuscito a partire. Ma con una gamba non pedalavo. Quindi per due anni, ’90 e ’91, proprio nel momento cruciale ho perso… Tieni conto che normalmente allora un ciclista doveva migliorare la propria performance del 5-6% prima di tornare allo stesso livello di prima di un infortunio. Quando hai perso il 10%, diventa dura. Due anni consecutivi così son stati un po’ una mazzata. Poi perdi un attimo anche il punto di riferimento. Non sai più come fare, e lì non è facile. Anche perché il mondo professionistico è tanto bello però è anche tanto crudele. Io, per esempio, ho provato al Giro d’Italia con la Malvor. Mi ricordo che son salito con l’aereo di [Mario] Cal, grande personaggio anche lui. Dovevo passare a casa e poi andare alla Domenica Sportiva. Fuori casa mia c’erano quattromila persone, neanche riuscivo a entrare in casa per cambiarmi per andare alla Domenica Sportiva. Mi aspettava la macchina per andare a Milano. L’anno dopo, passato un anno e con l’infortunio che ho avuto, non c’era nessuno. Nessuno che magari mi riconosceva, no? Quindi dalle stelle alle stalle». [ride amaro, nda] 

- Mi hai fatto venire in mente il difficile dopo-carriera di Roberto Pagnin, che è stato anche tuo compagno. Una volta smesso, per lui non è stato facile. 

«Non è facile. Il problema degli sportivi, penso in generale e poi nel nostro mondo, è proprio difficile. Perché quando tu corri vivi la tua vita in un mondo sportivo che non è quello reale. Siamo fortunati. Siamo agevolati. Anche se magari è dura, sembra che tu ti devi far chissà che cosa, ma è un mondo agevolato. E quando entri nel mondo reale come nel nostro caso, dai trenta ai trentacinque anni, la maggior parte di noi non è capace di far nulla. Molte volte non hai un titolo di studio. E devi inventarti un nuovo lavoro. Cosa non facile. E quindi lì devi avere veramente una grande tenacia». 

- Tu che studi hai fatto? Sei perito elettronico, giusto? 

«Io son peggio degli altri. Io dovevo essere perito termotecnico ma non ho dato l’esame perché non mi sentivo preparato. Io poi sono un personaggio particolare. Se non mi sento al cento per cento pronto, rinuncio. Anche all’ultimo minuto». 

- E quindi come te la sei cavata? 

«Il ciclismo è stato lo sport che mi ha insegnato molto, a non mollare mai. Dopo le difficoltà della squadra [la Brescialat, nda], è stato molto pesante ma ne sono uscito con le mani pulite e soprattutto a testa alta». 

- A differenza di qualcun altro? 

«A me degli altri non interessa. A me l’unica cosa, il mio rammarico è che comunque stavo per portare all’interno un grande sponsor, CartaSì [dal 10 novembre 2017 divenuta Nexi dalla fusione con ICBPI, nda], che poteva far del bene al ciclismo. Questo nel ’94». 

- Quindi subito dopo la chiusura della Brescialat? 

«Sì. Quando ci siamo divisi». 

- Tu, Bordonali e Leali? 

«Io, Bordonali e Leali. Io con Bordonali non andavo d’accordo, lui ha continuato con la Liquigas, io e Leali siam rimasti insieme con un altro gruppo [San Marco Group, nda]. Quell’anno lì avevamo conosciuto il dottor Lanfranchi, che era il direttore, anzi il presidente – direttore poi presidente – di CartaSì, il quale mi aveva rassicurato che loro entravano nel mondo del ciclismo, e per noi comunque era una cosa importante. Io, per il mio carattere, quando sono entrato nel ciclismo, sono entrato in punta di piedi, e non come sponsor ma come general manager di una nuova squadra. Addirittura ho cercato di portare all’interno anche gli sponsor tecnici. Normalmente gli sponsor tecnici – le maglie, i maglifici o le biciclette o le scarpe – possono sponsorizzare anche due [o più] squadre. Per dirti, io facevo tutte aziende che non erano mai state nell’ambiente professionistico o che comunque non c’erano più. Quindi ho fatto anche rientrare degli sponsor tecnici. E anche i nostri sponsor: portare all’intero del mondo professionistico una CartaSì poteva essere una cosa importante. Il problema è che CartaSì era composta di quaranta banche, se non mi sbaglio. È sufficiente che qualcuno dica di no, o che qualcuno dica che Giupponi non è affidabile subito, e ovviamente gettano la spugna. E quindi…». 

- E che Giupponi potesse non essere “affidabile subito” magari l’ha detto – o fatto dire – qualcuno che aveva interesse a…? 

«Più che interesse, una cosa che ho notato – e che non è bella – è che molti all’interno sono gelosi. La gelosia purtroppo è una cosa brutta, non è positiva. Molte volte piuttosto che lo faccia lui è meglio che non la faccia nessuno. Invece no. Facciamoli entrare in questo sport ché magari dopo entra lui e magari entra anche l’amico e c’è spazio per tutti. È come quando, magari, gli stipendi o i contratti dell’ambiente crescono: facciamoli crescere perché poi magari crescerà, magari meno, ma crescerà anche…». 

- Ho letto una vecchia intervista che hai rilasciato a Gino Sala nella quale dici: nel gruppo non c’è fratellanza. Te lo ricordi? 

«Me lo ricordo. Diciamo che nel gruppo, tra i corridori, un po’ di fratellanza c’è. Però molte volte c’è la falsa fratellanza, molte volte ci sono queste gelosie. Io dico che più che [poca] fratellanza ci son queste gelosie, dettate, probabilmente, anche da poca “lungimiranza”, per non dire un’altra parola, che fa male. E c’è anche nel mondo lavorativo, nella vita “normale”». 

- Tu, Bordonali e Leali alla Brescialat siete stati i primi corridori ancora in attività a essere anche patron di voi stessi... 

«Sì, eravamo in tre: io, Bordonali e Leali». 

- Togliamoci questo dente, dai. Mi racconti? 

«Brutta esperienza. Siamo partiti grazie a un aggancio di Olivano Locatelli, direttore sportivo ancora oggi nei dilettanti». 

- E che ha cresciuto, tra i tanti, anche Fabio Aru. 

«Bravo, sì. E a cui devo molto». 

- Anche lì, non so se è questione di gelosie ma alcuni sostengono che lui i giovani li “bruci” spremendoli troppo e troppo presto... 

«Io, nella mia carriera dilettantistica, penso che a [Domenico] Garbelli e a [Olivano] Locatelli devo tutto. Tutto. Nelle altre categorie anche ad altri, ma in quella categoria – che poi è fondamentale – io gli devo tutto. Erano molto duri con noi corridori, ma era giusto». 

- Per prepararvi a ciò che sarebbe venuto dopo, al professionismo? 

«Ma no. Loro dicevano: o sfondi o vai, fai altro. Che stai qua a fare fino a venticinque anni?». 

- E forse è anche più onesto, no? 

«Più onesto. Io non capivo, ho capito dopo. Quindi devo dire che il loro trattamento è stato veramente una cosa fantastica. Giusta. Anche se dura, ma giusta, no? Mi hanno formato parecchio. Quindi o vai, o stai a casa. Sbagli, vieni a casa in bicicletta. Brescia, si finiva di notte, Gran Premio della Città di Brescia, di notte, abbiamo sbagliato, non abbiamo fatto quello che voleva, siamo andati a casa in bicicletta. A mezzanotte. E nessuno dei genitori poteva seguire con le macchine per farci, con i fari, seguire la strada. Chi seguiva, [al figlio] gli stracciava il cartellino. E la mattina [dopo] alle sette, duecento chilometri, tutti insieme dietro moto». 

- La prossima volta stavi attento… 

«Bravo. Adesso, a parte questo…». 

- E… la pericolosità delle strade di oggi… 

«Quella c’era anche allora. Però devo dire che devo tutto a loro. Per me, non toccatemi Olivano e non toccatemi neanche Garbelli. Poi, oltretutto, Olivano ha imparato anche da Garbelli, no? Devo dire che io beccato anche i due periodi: Garbelli un po’ alla fine, quindi magari un po’ più buono, e Locatelli, all’inizio, che si formava. Quindi ho preso, nelle parabole, i migliori. Potrebbe anche essere quello il discorso. Però, tornando ai tre: Bordonali molto imprenditore, che per fare i soldi non guardava in faccia a nessuno. E questo per me è stato… Leali invece bonaccione…». 

- Forse troppo? 

«Forse troppo. E che comunque, un po’ come me, si fidava delle persone. Lo sponsor è entrato tramite Locatelli, perché Mario Cioli, che era stato nostro sponsor [con la Novartiplast, nda] nei dilettanti e voleva far tre anni nei professionisti, mi ha proposto: dai, fatelo voi, fallo tu così almeno impari un mestiere, perché prima o poi dovrai smettere. E lì io, avendo trent’anni, ovviamente ci ho creduto». 

- Ma ti sentivi pronto o ti sei un po’ buttato? Prima mi hai detto che se non ti senti pronto al cento per cento, rinunci, magari anche all’ultimo momento. 

«No, non mi sentivo pronto. Però ho fatto questo ragionamento: Cioli come imprenditore mi può insegnare a livello imprenditoriale, mi sono messo assieme con altri due corridori di cui mi fidavo, quindi stiamo insieme in tre così ci aiutiamo a vicenda e poi abbiamo inserito tre persone che dovevano gestire il gruppo. Il problema è che inserire delle persone a gestire il gruppo non è stata la decisione giusta. Queste persone ci hanno sperperato tutto quello che noi avevamo [messo] dentro». 

- Non le conoscevi così bene quelle persone? 

«No, io non le conoscevo così bene, no. E quindi si è disfatto un po’ tutto. La gestione non era corretta e allora abbiamo deciso di smettere tutti, perché è inutile che ci entrano dei soldi e ne spendiamo il doppio, perché non abbiamo il controllo. E quindi abbiamo deciso di smettere, per cercare di capire, di gestire bene le cose. Lì comunque ho capito che non ero preparato a fare il ruolo in cui ero. Non è una cosa molto facile trovare gli sponsor, abbiamo cercato in tutti i modi di cercare di continuare. Devo dire che comunque l’esperienza-Brescialat “nostra” è stata un’esperienza che, con quattro soldi, abbiamo ottenuto dei grandi risultati». 

- Ma in tutto questo come facevi ad avere la testa anche per correre? 

«Eh, lo devi fare. Sicuramente eravamo meno attenti nella corsa, però riuscivamo anche…». 

- Perché comunque era roba tua? 

«Sì, roba mia. Però ragionavamo come se fossimo [solo] corridori, quindi la gestione di tutto era per i corridori. Quindi chi correva per noi, e noi stessi, stavam da dio, perché ragionavamo – e tutti ragionavano – per i corridori. Non ragionavamo per i risultati o per i soldi, per i bilanci. E di conseguenza avevamo i risultati, comunque degli ottimi risultati. Avevamo pochi soldi, eravamo una squadretta molto piccola, ci mancavano gli sponsor. Cioli dava una parte, non tutto, e di conseguenza dovevam trovare. Però è stata disastrosa perché poi la gestione non era fatta bene. Ho dovuto smettere, poi Cioli – un imprenditore che si è fidato di Bordonali – ci è andato contro e abbiam dovuto chiudere. Poi ha cercato di… Si è fatto anche dei danni, Cioli, quindi è stata un’esperienza… Su suggerimento del commercialista e degli avvocati, era meglio far fallire la società per evitare di pagare tutti i vari debiti. Io invece ho voluto chiudere la società, mettere in liquidazione e chiudere, perché non volevo avere debiti con nessuno. E tribolando, e mettendo a rischio anche la mia vita privata, perché alla fine io sono uscito…». 

- Per te è stato un bagno… 

«Eh sì, io son uscito pieno di debiti. Tutti i soldi che avevo guadagnato li avevo persi tutti, in più son uscito con tanti di quei debiti… che ho impiegato dieci anni a pagarli. Per me è stato un momento veramente difficile, forse il più difficile. Perché comunque, quando sei general manager e hai quaranta dipendenti – quaranta no, ma comunque venticinque-trenta – e non hai i soldi per pagare e devi chiudere l’azienda sapendo che tutti questi hanno [famiglia]… Devi chiudere, e a queste cose non sei abituato perché da corridore… È brutto. Io ho passato un periodo veramente difficile che neanche ho voglia di raccontare, perché sono cose dure».

- Lì che hai fatto per uscirne? Ti sei aggrappato alla famiglia? 

«Alla famiglia, al lavoro. Perché facevo tre lavori in contemporanea, perché poi alla fine non lavoravo… Perché, cosa fai? Io ho avuto mio padre che mi faceva fare un po’ di lavori che faceva lui, di muratore, un po’ di imbianchino… Poi andavo in giro…». 

- Tuo padre faceva l’autista, vero? 

«Ha fatto un po’ di tutto, mio padre. Ha fatto il mutatore, l’autista, ha lavorato anche nel chimico. In quel periodo faceva le riparazioni, dalle piastrelle ai muri, a imbiancare, un po’ da elettricista, tuttofare, gli impianti. Un po’ mi ha aiutato anche lui: vieni con me… Ho guadagnato qualcosina. La mattina e il pomeriggio portavo i bambini a scuola con il pulmino, lì mia moglie è stata brava, mi ha aiutato anche lei. Poi di notte, due volte la settimana, portavo a stampare l’inserto della Gazzetta. C’era un’azienda che impaginava su dei dischetti. Preso il pacchetto, era piccolo, lo portavo – il primo entro le due, il secondo entro le quattro – in posti diversi per stampare gli allegati per la Gazzetta e per il Corriere della Sera. Ritornavo, prendevo il camioncino e andavo a prendere i bambini. E lavoravo con mio padre…». 

- Ammazza… 

«Eh beh, quando ci sono i debiti...». 

- Non solo la fatica, ma che umiltà… 

«Eh, ma sai, quando devi fare… O non paghi, o rubi, o lavori. Non hai scelta. Solo che per me… Io ho fatto questo, poi pian piano con questo lavoro…». 

- E come ci sei arrivato a questo lavoro? 

«È stato casuale. Perché è stato un amico, anzi è stato mio cognato, Luca Filipponi, che mi ha detto: Guarda, c’è una persona che sta cercando un agente nel settore dentario per un’azienda a Brescia, va’, prova. Alla fine, ho fatto due calcoli: è un bel settore, perché son dei medici, io son sempre stato abituato a trattare con i medici e sicuramente, lavorando con loro, hanno qualcosa da trasferirmi e quindi posso imparare. Per me è motivante il fatto di imparare qualcosa. Poi a stare in giro, sono stato abituato fin da piccolo a stare in giro per il mondo, ma non mi pesava. Ho detto: proviamo. E devo dire che è stata la svolta giusta. Ho trovato un’azienda che mi ha formato, è stata un’azienda molto brava a prepararmi, poi io: l’azienda, avendo anche uno che ha molta fame; e io che mi sono anche dato da fare. Fa parte anche del mio carattere, di non fermarsi mai. E da lì ho fatto questo percorso. Da agente a responsabile d’area, poi son venuto qui alla MegaGen Italia, che cercava un responsabile commerciale». 

- Son loro che han cercato te o ti sei proposto tu? 

«No, loro han cercato me». 

- Tramite quelli che in gergo si chiamano headhunters, i cacciatori di teste? 

«No, tramite un amico medico cliente che stava usando i loro prodotti e che era in confidenza con la proprietà. Loro stavano cercando delle figure per poter crescere e anche per gestire meglio l’azienda. Han detto: No, guarda c’è Giupponi che è molto bravo. Alla fine li ho conosciuti. Loro hanno un po’ la mia stessa filosofia: credono molto nella famiglia e nel rapporto umano, e questa cosa mi è piaciuta tantissimo». 

- Ti sembrava di essere tornato ai tempi di Algeri? 

«Di Algeri. O nei dilettanti, quando il rapporto umano è al primo posto, no? Ancora, e prima di tutto. Difatti con i due proprietari, uno l’hai conosciuto e uno è in Corea, all’interno ci sono le mogli che gestiscono la parte più importante dell’azienda, e c’è questo rapporto molto umano. Loro soffrono quando qualcuno non si comporta correttamente, no? E a loro e a me questo…». 

- È questo il segreto per… 

«Ma è bello, perché nella vita non c’è solo il soldo, non c’è solo il lavoro, non c’è solo la bicicletta. Ma se non riesci a creare un rapporto umano, rimani poi da solo. Quando arrivi a casa e non c’è niente…». [sorride, nda] 

- Ti sei spiegato bene. Chiudiamo con questo: il ciclismo, oggi, lo guardi? Ti diverte? 

«Guarda, faccio fatica. È cambiato tanto». 

- Troppi soldatini? 

«Son tanti soldatini, e tanti meccanismi che magari sono diversi da quello che sono io, da quando correvo io. Certamente, come dico molte volte, ho più di cinquant’anni, ne ho 54, quindi magari sono meno elastico nel cambiare. Perché il mondo cambia e devi cambiare, come dicevo prima, e io magari non sono così rapido nel cambiare. È un mondo cui devo molto, ho avuto molto, e mi piace tantissimo. Ogni tanto vado. Tutti gli anni, grazie anche allo Stefano [Allocchio], riesco ad avere i pass e vado a vederlo. È un mondo diverso. Non dico meno o più bello, è diverso. A me piace tanto. Ovviamente ci son dei rapporti meno profondi rispetto a prima, perché son un po’ più individualisti ma perché è il meccanismo che lo rende così». 

- Anche i tempi. 

«I tempi. Cosa devo dire? È diverso ma non perché sia meno bello. Sicuramente la spettacolarità c’è ancora. È così, quindi bisogna anche accettarlo. A vederlo ti vengono in mente i tanti meccanismi, ti rispecchi in tante situazioni e ti fanno piacere. E sei anche un po’ nostalgico. È anche bello quando poi rivedi i tuoi ex compagni di avventura o di squadra, fa sempre molto piacere. Però è uno sport, a differenza di quel che si dice. Molte volte mi confronto con qualcuno: Eh, mai sai, lo sport del ciclismo è uno dei più duri, è normale che uno si debba “aiutare” per affrontare queste fatiche quotidiane. E io dico: No, non è vero, assolutamente no, perché è un’abitudine alla fatica. Non è vero che per forza bisogna usare delle sostanze per andare meglio. È un’abitudine, uno si abitua. Io dico sempre: A ventun anni facevo Vuelta e Giro e diventava una cosa molto difficile, mi pesava fisicamente e psicologicamente, gli ultimi anni, a trenta, quando non potevo avere la freschezza dei ventuno, mi pesava molto meno. Ho fatto Vuelta, Giro d’Italia e Giro di Svizzera, e mi sentivo normale, tranquillo. Quindi direi che è uno sport, penso, tra i più sani. Oggi, è molto più estremizzato. Mi dice qualcuno, come Davide Bramati [diesse della Deceuninck-Quick-Step Floors, nda], che addirittura mangiano per quello che consumeranno. Noi una cosa del genere non la facevamo, tutti meno andavamo un po’ così, a tasto, a sensazione, non a controllare le calorie. E quindi è molto più esasperato. Però sempre bello. E poi quest’anno anche il Giro è stato spettacolare. Il Tour dà sempre delle emozioni. Speriamo che qualche italiano possa comunque…». 

- Con chi sei rimasto in buoni rapporti? Non necessariamente campioni, magari anche corridori misconosciuti. 

«No, come corridori pochi, perché essendo fuori, non frequento l’ambiente sportivo e quindi li ho persi. Sicuramente con Gianni Bugno, le poche volte che ci sentiamo. È sempre un personaggio. Siamo amici, non ci si vede ma basta un colpo di telefono e ci si vede. Anche perché, casualmente, uno dei miei capi di MegaGen Italia collabora all’interno di un agriturismo dove c’è un eliporto dove Bugno atterra. E quindi casualmente… Il mondo è piccolino. La proprietaria dell’agriturismo è la figlia dei titolari della Scarpe Bianchi. Non so se ti ricordi le scarpe Bianchi… L’ho rivista in una riunione aziendale, tu… tu… Ed è stato anche bello. Ennio Vanotti [suo compagno alla Del Tongo nel 1987, nda] per esempio. O magari meno conosciuti. Luca Rota, per esempio. Abbiamo corso insieme [Novartiplast 1983, Del Tongo-Colnago-Zanussi 1988, Malvor-Sidi-Colnago 1989, Carrera-Vagabond 1990, nda]. Baronchelli, prima eravamo in squadre diverse ma quando poi ha vinto il [suo secondo] Giro di Lombardia: due bergamaschi, due corridori in fuga, due della Del Tongo, dormivamo in camera insieme… Quindi i rapporti, assolutamente. Magari non ti vedi perché purtroppo la vita ti porta su strade diverse, però i rapporti personali e umani, quando corri in biciletta, sono molto forti. Se non ti vedi, poi quando ti rivedi vedi l’espressione…». 

Cantandola coi Dire Straits, quella dei Brothers In Arms

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