KING KENNY, FAST FREDDIE E LE ZANZARE


di Simone Basso
Sport & Cultura - 23 aprile 2020

Il 10, dalle parti di Valencia, si conclude l’annata del MotoGP.

A leggere dei primati di precocità battuti da Marc Marquez, la retroazione è a trent’anni fa, la stagione più appassionante di sempre nella 500 e un mondo che oggi – nell’èra comandata dal marketing feroce della Dorna – ci pare lontanissimo.

Era il 1983, amarcord, e si assistette al duello tra Kenny Roberts e Freddie Spencer.

Una roba mai vista o quasi, se non fosse per il leggendario Mike Hailwood-Giacomo Agostini del 1967.

Kenny Roberts, il Re, nato alla vigilia di Capodanno del 1951, figlio di allevatori in quel di Modesto (California), rappresentò il dopo-Ago: crebbe fiero e selvaggio col dirt track e, in Europa, adattò quello stile alle nostre corse.

L’impatto, malgrado la concorrenza del grande Barry Sheene, fu devastante.

Nel 1978, all’esordio, vinse subito il titolo iridato della classe regina, il primo di un filotto, pur avendo cominciato gareggiando in tre categorie (250, 500 e 750!).

Il marziano fu il pioniere della guida col ginocchio a terra, difatti inventò le saponette (...), un maestro nel controllo della derapata e della piega.

Freddie Spencer, il Principe, di dieci anni più giovane, era il bimbo-prodigio delle due ruote.

Anch’egli cominciò (a cinque anni!) con il dirt track e introdusse l’ultima vera rivoluzione copernicana nella conduzione del mezzo. Prima di lui le 500 cc si guidavano come le 250, con curve rotonde, dolci.

Il ragazzo della Louisiana diffuse il canone moderno, che privilegia(va) l’apertura del gas il prima possibile, quindi meno strada percorsa con la moto inclinata.

L’aggressività, il coraggio leonino, di King Kenny sulla potentissima quattro cilindri Yamaha opposti al sangue freddo, al genio, di Fast Freddie sulla Honda tre cilindri.

Quel contrasto di stili produsse la magia del 1983. I due monopolizzarono la scena, aggiudicandosi sei prove ciascuno: portarono il motociclismo in una dimensione sconosciuta, spostando il concetto di limite sempre più in là.

La penultima gara del Mondiale fu ad Anderstrop, in Svezia. In classifica Freddie aveva due punti di vantaggio, ma all’ultimo giro Roberts precedeva la sua ombra e Spencer. Alla Laktar, l’ultima curva del percorso, il cowboy si vide affiancato – all’interno – dal pupillo di Erv Kanemoto. Entrambi uscirono dai cordoli, entrando nello “sporco”, il primo a rientrarci fu Spencer, che si impose per 16 centesimi di secondo. Finì con Roberts, sul podio, che discusse a muso duro con il rivale sulla liceità di quella manovra.

L’epilogo, il 5 settembre a Imola, in una giornata caldissima: tra i due, all’inizio, si inserì Marco Lucchinelli, poi cominciò il testa a testa americano. Roberts aspettò invano il compagno di squadra Eddie Lawson, che inserendosi tra i duellanti avrebbe regalato il poker al Re, ma Eddie non arrivò. Primo Kenny, secondo Freddie che (per soli due punti) si prese la corona.

Nel paddock, fatti i complimenti all’erede, King Kenny annunciò il ritiro dall’agonismo.

Aveva esordito nel 1974, alla 200 Miglia, contro Giacomo Agostini, proprio sulla Dino Ferrari…

Era un motociclismo straordinario, epico, quanto brutale e inumano.

L’83 non risparmiò nemmeno le tragedie: a Fiume, nella 125 cc, Rolf Ruttimann trovò la morte sotto un guardrail.

In Francia, due mesi prima, fu una mattanza: nel 1982 si corse a Nogaro, un circuito ritenuto – a ragione – troppo pericoloso. La contesa fu boicottata dai ras del plotone e si impose Michel Frutschi.

L’anno dopo il gippì lo organizzarono a Le Mans: durante le libere del martedì, a La Chapelle, Loris Reggiani travolse Iwao Ishikawa. Il giapponese si spense, in ospedale, qualche ora più tardi.

La domenica, al quinto giro, il fato colpì proprio il povero Frutschi, a 220 orari, alla Chemin aux Boeufs. Appena dietro l’elvetico c’era Guido Paci che, la settimana dopo nella Daytona imolese, perì in una caduta.

Ad Assen ci fu invece l’incidente – dalla dinamica raccapricciante – del campione mondiale Franco Uncini, investito da Wayne Gardner e colpito alla testa, col casco che schizzò via.

Poi, a Silverstone, il dramma di Norman Brown e Peter Huber. Brown, sotto la pioggerella, in panne, fu investito a tutta velocità dall’incolpevole Huber: il nordirlandese morì sul colpo, Peter sull’elicottero che lo portava all’ospedale di Oxford. 

Roberts, capintesta e sindacalista della ciurma, pretese la sospensione (almeno temporanea) di quella follia.

Si era già senza 350, fu il canto del cigno della gloriosa 50 cc.

Che vide il bis mondiale di Stefan Dorflinger contro campioni del livello di Eugenio Lazzarini e Ricardo Tormo.

Nel 1984 infatti sarebbe arrivato il tempo delle 80 e Stefan continuerà a imporsi fino alla soglia dei quarant’anni.

Ma le zanzare, un microcosmo avventuroso, naif, di scapigliatura artigianale, non furono più rimpiazzate: un pò come la categoria sidecar che nell’83 registrò il quarto trionfo (sui sette titoli in carriera) di Rolf Biland, il reuccio delle tre ruote.

E che sarebbero sparite definitivamente verso la metà degli anni Novanta.

Spencer, l’eroe glaciale, il pilota perfetto, nel 1985 avrebbe realizzato la più grande impresa nella storia del motomondiale. Fast Freddie dominò 500 e 250 nella stessa annata, una mostruosità tecnica e atletica.

L’uomo bionico stabilì nove primati della pista nelle ventuno corse disputate.

Nelle 250, dieci gare, nove pole e sette vittorie; undici gare, nove pole e sette vittorie nelle mezzo litro.

Oltre alla doppietta iridata, realizzò anche il tris (F1, 250 e Superbike) nella Daytona 200.

Inavvicinabile, alieno: un robot?

A Jarama, la vernice del 1986, sembrò proseguire sul solito spartito. Pole e fuga, con gli avversari subito distanti, poi – improvvisamente – rientrò ai box lamentando una tendinite.

La sua incredibile carriera si concluse quel dì: sparì, avvolto nel mistero, e quando tornò (saltuariamente) pareva aver smarrito i super poteri.

Di sicuro ci fu la sindrome del tunnel carpale e poi forse la testa, la stessa che gli fece bruciare le tappe, che decise di averne abbastanza.

Chissà cosa si ruppe nell’equilibrio psicofisico – fragilissimo – del fenomeno.

Una meteora, una cometa velocissima, la più luminosa di tutte.

SIMONE BASSO
Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 9 novembre 2013

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