KATHRINE SWITZER - LA PRIMA VOLTA


di MARCO TAROZZI
American Runners

C’è sempre una prima volta. Ma non è quasi mai semplice fare da apripista. Soprattutto quando significa abbattere muri, peggio ancora se sono psicologici. A pensarci adesso fa sorridere, ma appena quarantacinque anni l’idea che una donna potesse correre per quarantadue chilometri filati era molto più che di là da venire. Non era proprio contemplata. Faceva testo la maratona più antica al mondo, la vecchia e gloriosa Boston Marathon, che ancora nell’anno di grazia 1967, settant’anni dopo la sua nascita, proibiva categoricamente l’iscrizione alle atlete. Motivazioni? Semplici quanto assurde: si riteneva che le donne non fossero adatte a prove così “estreme”. Soprattutto a livello mentale.

Non lo abbiamo scelto a caso, quell’anno. Era doveroso, perché la rivelazione successe proprio in quel momento. E in quella corsa. La più antica, la più gloriosa. I tempi erano maturi perché una ragazza facesse qualcosa di eclatante, di utile e necessario per sgretolare quel muro. Serviva soltanto un nome, e arrivò anche quello. «K.V. Switzer».

LA TESTA DURA

C’era scritto proprio così nella richiesta di iscrizione di Kathrine Switzer, vent’anni appena. La ragazza che voleva correre la maratona. Non lo aveva fatto per il gusto di frodare l’organizzazione della Boston Marathon, ci aveva messo soltanto un pizzico di malizia. Il fatto è che fin da bambina si era abituata a firmare a quel modo. Diceva di voler diventare una grande scrittrice, e le grandi scrittrici si firmano con le iniziali... Di fatto, servì a farla passare inosservata. Richiesta accettata. Maratona nel mirino. 

La storia, in realtà, era cominciata molto tempo prima. Quando, ancora dodicenne, Kathrine espresse in famiglia il desiderio di diventare una cheerleader della squadra di football. «Mio padre mi guardò e mi disse semplicemente: perché vuoi restare una semplice spettatrice? Nella vita bisogna cercare di essere attori. Meglio se pratichi uno sport, avrai qualcuno che verrà a fare il tifo per te...».

Così, la ragazza scelse di essere protagonista, come raccomandava papà. Iniziò dall’hockey su prato, e ci mise da subito molta dedizione. Continuò con questa disciplina una volta iscrittasi al Lynchburg College. Per mantenere la condizione, oltre ai normali allenamenti, andava a correre tutti i giorni. E finì per essere notata dal coach della squadra di cross dell’istituto, che combatteva quotidianamente con una cronica mancanza di uomini per le gare di società.

In pratica, Kathrine andò a rinforzare la squadra maschile. O meglio: lo avrebbe fatto, se al college non si fosse gridato allo scandalo. Prima di tutto le regole: la ragazza poteva continuare ad allenarsi con gli uomini, prendendosi una bella patente di stravagante, ma di gare nemmeno a parlarne. Lei però non era certo il tipo da gettare la spugna. Poco tempo dopo essersi iscritta alla Syracuse University, e tutto sommato stanca di dover correre da sola ogni giorno, tornò alla carica e ottenne di potersi allenare con la squadra di mezzofondo maschile. Quella femminile, nell’ateneo, era ancora di là da venire. «Niente gare» le dissero i tecnici, «ma resta insieme a noi quanto ti pare». E lei, naturalmente, non se lo fece ripetere.

POSTA CELERE

Ma a Syracuse la aspettava anche uno di quegli incontri che ti segnano la vita. Era il 1966, e a notarla mentre lei si allenava fu un runner che di lunghe distanze se ne intendeva. Arnie Briggs era il postino dell’ateneo. Ma soprattutto era un maratoneta, uno che aveva corso già quindici volte sulle strade di Boston e che sapeva riconoscere la passione negli occhi e nelle gambe di chi incontrava. La vide “addosso” a Kathrine, e ne divenne prima amico e compagno di corsa, poi allenatore. I due macinavano insieme miglia e miglia, e durante un’uscita serale, in quel freddo inverno, Kathrine espresse all’amico il grande sogno. «Pensa, tu hai corso quindici volte a Boston, è qualcosa di unico. Mi piacerebbe poter provare quell’emozione almeno una volta».

Arnie glissò. Buttò lì che correre per ventisei miglia è decisamente diverso, e più impegnativo, che correrne dieci, il massimo a cui la ragazza era arrivata. Ma in realtà ne frenava gli entusiasmi perché conosceva bene la semplice realtà. E cioè che alle donne quella maratona era vietata. Ma Kathrine non era certo il tipo da darsi per vinta. Continuò a ribadire il concetto, sera dopo sera. Si fece addirittura piacevolmente insistente. E Briggs si rese conto, e tutto sommato lo aveva sempre saputo, che quel divieto era qualcosa di ridicolo e anacronistico. Vide quella luce negli occhi di Kathrine e decise che sì, era lei quella che avrebbe potuto e dovuto provarci.

Mese dopo mese, gli allenamenti si intensificarono e le distanze si allungarono. Fino a 26 miglia. E poi 28, 30, 32... Si sentiva pronta. E decise di iscriversi. Senza sotterfugi, come aveva dovuto fare l’anno prima Roberta “Bobbi” Gibb. Col suo nome vero, come gli aveva consigliato anche Arnie, «perché questa è una gara che va affrontata a testa alta». Solo che decise di riempire il modulo con quelle iniziali. K e V. E la cosa passò completamente inosservata. Così, pochi giorni prima della gara, Kathrine aveva il suo numero di partenza, ufficiale, tra le mani. Pronta a condividere quel giorno da pioniera con l’altra donna che contribuì ad abbattere il muro dell’ipocrisia. Bobbi Gibb, appunto.

SULLE ORME DI BOBBI

Ma chi era questa Gibb? Un’atleta con la A maiuscola, innanzi tutto. Cinque anni più della Switzer, nata il 2 novembre 1942 a Cambridge, Massachusetts, e cresciuta nei sobborghi di Boston, anche lei era tra quelle che pensavano che il limite di 1,5 miglia imposto dalla AAU per le gare femminili andasse decisamente stretto. Correva anche lei ogni giorno, comprese le otto miglia che la portavano a scuola dopo il matrimonio californiano con William Bingay, marinaio ed ex runner che aveva incontrato, ovviamente, correndo. Si era preparata per la Boston Marathon del 1966 per un anno e mezzo e quando la direzione di corsa le ribadì il regolamento federale, e il concetto che «le donne non sono psicologicamente adatte a correre una maratona», decise di dimostrare il contrario.

Il giorno della gara si fece portare dalla madre nei pressi del traguardo, si nascose in un cespuglio e attese lo start. Dopodiché si gettò nella corsa, fuori gara, con un paio di shorts del fratello maggiore, una canotta nera sotto una felpa blu. Fu presto riconosciuta dagli uomini in gara, che la sostennero e la incoraggiarono, e dal pubblico che prese subito la sua parte. E il governatore del Massachusetts, John Volpe, la attese sul traguardo per congratularsi. Non aspettò molto: Bobbi chiuse in 3h21’40”.

Ovviamente le classifiche non ne riportarono il nome. Almeno fino al 1996, anno in cui, nel centenario della gara e nel trentennale della sua impresa, si vide riconosciuta quella vittoria, e anche quelle dei due anni successivi, 1967 e 1968, sempre con tempi di prim’ordine. Pochi giorni dopo la prima volta, un articolo sulla rivista Record American titolava così: «Roberta, ora è ufficiale: le donne possono correre la maratona».

In seguito Bobbi Gibb, che aveva studiato Belle Arti a Boston, si laureò in Scienze a La Jolla, California, e nel 1978 entrò a far parte dell’Ordine degli Avvocati del Massachusetts. Poliedrica. Sarebbe stata, più avanti negli anni, anche l’artista prescelta per scolpire i trofei dedicati alle tre atlete destinate a salire sul podio olimpico a Los Angeles 1984, nell’anno in cui la maratona debuttò alle Olimpiadi. E dunque i suoi lavori sono finiti nelle mani di Joan Benoit, Julie Brown e Julie Isphording, le prime tre ai Trials USA per quei Giochi.

Perché, allora, accendere i riflettori sulla storia della Switzer, anziché su quella della Gibb? Perché la prima fece un passo oltre: non si limitò a “partecipare” alla Boston Marathon del 1967, si era proprio regolarmente iscritta. Aveva rotto un tabù, seppure grazie al fatto che la sua richiesta era passata inosservata a qualunque controllo. Se Bobbi Gibb aveva già gridato alle nudità del re, dimostrando che una donna poteva correre, e forte, una quarantadue chilometri, l’arrivo al traguardo di Kathrine Switzer avrebbe avuto un risalto ancora maggiore. Perché sarebbe rimasto nella memoria e negli annali. Per questo gli organizzatori, una volta scopertala, fecero di tutto per buttarla fuori dalla gara. Non solo metaforicamente. E in modo decisamente brutale.

LA SPINTA CHE CAMBIÒ LE REGOLE

Nel vivo della gara. Pochi giorni prima dell’appuntamento, Kathrine svelò al suo fidanzato, il martellista Tom Miller, dell’iscrizione ormai avvenuta. E lui si inventò una sorta di sfida: «Se corri la maratona tu, voglio farla con te». Uscì la sera stessa e corse per circa nove miglia, e al rientro a casa aveva un sorriso felice: «Sì, posso farcela...».

Quella mattina, la più attesa, era fredda e piovosa. Anzi, a tratti cadeva una sorta di nevischio che infastidiva gli atleti alla partenza. Kathrine indossò orgogliosa il pettorale e parecchi maratoneti le si strinsero intorno per augurarle una buona corsa. Si sentì nel giusto, e magicamente leggera. Non aveva niente da nascondere: si era anche passata un filo di rossetto sulle labbra. Iniziò a correre con Arnie, Tom e John Leonard, un amico e compagno di università. Decisi a restare, se possibile, uniti fino al traguardo. Ma dopo appena quattro miglia, dal pullman zeppo di giornalisti e fotografi che seguiva la gara qualcuno iniziò ad accorgersi di quel pettorale numero 261. «C’è una ragazza! Una ragazza sta correndo con gli uomini». 

Mentre i fotografi si precipitavano a immortalare la novità, dal pullman scese di gran carriera Jock Semple, il direttore di gara. Piuttosto noto per il suo carattere non esattamente malleabile. Iniziò a rincorrere Kathrine, furioso. E quando la raggiunse la prese alle spalle urlando «Esci subito da questa gara e restituiscimi la pettorina». L’intento, chiaro fin da subito, era quello di gettarla fuori strada. «Cercavo di correre ma lui mi tirava per la maglia, mi presi davvero un grande spavento», ricorda Kathrine.

Semple però aveva fatto male i conti. Pensava di essere in mezzo a un gruppo di maratoneti, non immaginava che a correre ci fosse anche un lanciatore di martello. Tom Miller gli arrivò addosso, lo placcò e lo fece volare a terra. «Temevo lo avesse ucciso», ha sempre ricordato poi, potendone sorridere, la Switzer. No, Semple era battuto ma per fortuna non annientato. Ma intanto Arnie Briggs si era avvicinato alla ragazza gridandole «e adesso corri via come il vento!». Lei non ci pensò due volte. Non era lì per farsi sopraffare dalla paura o per alzare bandiera bianca.

Kathrine chiuse in 4h20’00”, quasi un’ora più di Bobbi Gibb, che però non preoccupava Semple perché non aveva alcun numero ufficiale appuntato sul petto. Fu squalificata, ovviamente. Ma questa volta la storia, con tanto di foto dell’aggressione, superò i confini del Massachusetts, gli stessi confini statunitensi. Girò il mondo. E per la Switzer fu uno stimolo ulteriore. Quel sogno di maratoneta era diventato una lotta da portare avanti, a nome di tutte le donne che intendevano correre senza ipocrisie né barriere.

Dopo quella storia, quelle foto, tutto quel clamore, furono tante le ragazze che iniziarono a dedicarsi al running. Ancora più di quante ne avesse ispirate Gibb, che pure fu la prima in assoluto e aveva anche dalla sua un ritmo più veloce. Switzer non restò con le mani in mano. Convinse il suo ateneo a dare vita al Syracuse Track Club, e fece proseliti tra le altre studentesse. Avrebbe poi partecipato altre otto volte alla Boston Marathon, finendo seconda nel 1973, e avrebbe vinto a New York nel 1974. E soprattutto non mancò all’appello all’edizione del 1972. Un appuntamento storico, grazie soprattutto alla sua cocciutaggine, e alle basi che aveva posto negli anni precedenti.

LA VITTORIA PIÙ GRANDE

Cinque anni dopo. 1972. L’anno che davvero cambiò tutto. Quello in cui le donne vennero ufficialmente ammesse a correre la maratona di Boston. Con qualche riserva da parte di un ancora relativamente convinto Jock Semple... 

«Scontroso com’era Jock ci regalò un discorso di benvenuto a modo suo», ricorda la Switzer. «Disse così: beh... ora signore, siete le benvenute a Boston. Ma dovete affrontare i tempi di qualificazione degli uomini... Già, a suo modo, come sempre. Era la stessa persona che cinque anni prima si era lasciata prendere dalla rabbia perché una ragazza stava correndo ufficialmente la sua gara... E quell’assalto aprì davvero una breccia nel muro. Perché, vedete, in effetti non c’erano regole che dicessero che una donna non potesse gareggiare, c’era solo assoluta mancanza di eventi del genere per noi, e una credenza comune secondo cui una donna sarebbe stata danneggiata nella sua femminilità correndo lunghe distanze, e comunque non avrebbe mai dovuto farlo in mezzo agli uomini. Ma dopo quell’aggressione del ’67, dopo tutto quello che si scrisse e si disse, molte ragazze iniziarono a uscire di casa per andare a correre. E mentre la gente cominciava a farsi domande su quel ragionamento assurdo, in tante affrontavano in forma non ufficiale quella maratona. Quel giorno del ’72 stavamo assistendo al nostro successo, ma Jock era ancora contrariato e continuava a dirci che avremmo dovuto batterci ai livelli degli uomini. Bene, lo accontentammo: sette di noi erano in grado di correre sotto le tre ore e mezza, e quel giorno ci eravamo tutte date appuntamento a Boston. Ricordo bene che eravamo al settimo cielo: finalmente, dopo tanti anni, eravamo libere di essere atlete senza dover tenere alto il vessillo della femmina sexy a tutti i costi. Eravamo coscienti di aver abbattuto un muro, una barriera sociale e anche politica, proprio come avevano fatto le nostre antenate quando si erano battute per il diritto di voto, o quelli allo studio e all’insegnamento parificato all’università. Non è un’esagerazione: negli anni Settanta, la maratona era considerata l’evento più duro e impegnativo dello sport. Ottenere la possibilità di correrla tra gli uomini significava cancellare migliaia di anni di preconcetti sulla debolezza delle donne. Eravamo le atlete che avevano reso possibile tutto questo, ed eravamo tutte lì, insieme. Quando ci schierammo sulla linea di partenza, capimmo che stavamo per correre dentro una nuova era. Avevamo vinto la Grande Corsa...».

LA NUOVA ERA

Kathrine Switzer, e certamente Bobbi Gibb, sono state eroine della corsa. Oggi negli Stati Uniti le donne che si dedicano al running sono più degli uomini. Nella Boston Marathon del 2012, piena zeppa di atlete di altissimo livello, con una lista di top runner della gara femminile da urlo, molte di quelle eroine del 1972 si sono ritrovate per festeggiare i quarant’anni di un sogno realizzato. C’era anche la Switzer, che nel frattempo è diventata giornalista sportiva, scrittrice (Marathon Woman la sua biografia) ed è stata inserita nella National Women’s Hall of Fame nel 2011. La prova che tutti quei divieti erano una barriera mentale? Sta tutta in una inaspettata amicizia...

«In quella storica gara del ’72 arrivai terza. Jock Semple mi premiò con un trofeo che si era scheggiato. Si scusò per questo, ma ci rise su: “Mi hai fatto ammattire per cinque anni, disse, e ti meriti un trofeo rotto!”. L’anno dopo mi baciò davanti a tutti, e in favore di telecamere, prima della partenza. Tutto era magicamente cambiato. E poi... beh, poi siamo diventati ottimi amici...».


KATHRINE SWITZER È NATA IL 5 GENNAIO 1947. AUTRICE E COMMENTATRICE TELEVISIVA, SCRITTRICE, MARATONETA. DOPO IL “CASO” DELLA BOSTON MARATHON 1967, LA AAU VIETÒ ALLE DONNE DI COMPETERE CON GLI UOMINI, PENA LA SOSPENSIONE DA OGNI TIPO DI GARA. SWITZER E ALTRE ATLETE SI BATTERONO PER I PROPRI DIRITTI, FINALMENTE RICONOSCIUTI NEL 1972 ANCHE ALLA MARATONA PIÙ ANTICA AL MONDO. SWITZER HA VINTO LA NEW YORK CITYMARATHON NEL 1974 IN 3H07’29”, E NEL 1975 HA OTTENUTO UN PERSONALE SUI 42 CHILOMETRI DI 2H51’37”, DI NUOVO A BOSTON. È STATA NOMINATA “RUNNER DONNA DEL DECENNIO 1967-77” DALLA RIVISTA RUNNER’S WORLD.

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