FINALI MONDIALI - Madrid 1982: una vittoria da Urlo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
Rainbow Sports Books ©

C'è quello di Edvard Munch. Quello di Allen Ginsberg. E quello di Marco Tardelli. È l’Urlo.

Con il suo Grido, un olio su cartone dipinto nel 1893 e oggi conservato al Munch-museet di Oslo, il maestro norvegese ha dato voce e colore al rantolo muto del Novecento, regalandoci una gelida, inquietante icona che incarna - spietatamente - la condizione esistenziale della modernità.

Nel 1956 una poesia, che esprimeva una disperata e impotente denuncia contro il materialismo, si abbatté con la forza di un uragano nello stagnante conformismo della letteratura. E, più in generale, della cultura americana: era Howl di Ginsberg, considerato il portavoce della Beat Generation degli anni Cinquanta, pubblicata presso la City Lights Books di San Francisco, casa editrice fondata e diretta da Lawrence Ferlinghetti. L’anno del processo per oscenità (!) è invece il successivo, 1957.

L’11 luglio 1982, il secondo gol, quello «della sicurezza» e la susseguente esultanza di Marco Tardelli sono la rappresentazione di un sogno, grande come il mondo, che diventa realtà. Il suo è qualcosa di più che un semplice un urlo liberatorio: è un grido di battaglia, di irrefrenabile gioia, di esaltazione agonistica. È l’essenza stessa del calcio, dello sport. E nell’immaginario collettivo degli italiani è rimasto il simbolo della determinazione, della grinta, dell’orgoglio. Al di là di ogni facile retorica, di tutto ciò che di bello e di buono si annida nel giocare al pallone. In quell’urlo c’è il miglior spot che il calcio abbia mai fatto a se stesso.

Neanche la mente più perversa e contorta del più celebrato romanziere avrebbe potuto partorire un’avventura come quella vissuta in terra spagnola dall'Italia campione del mondo 1982. Dalle tristi esibizioni della prima fase, nella fresca Vigo, al linciaggio morale avvenuto a mezzo stampa, scritta e urlata, alla riscossa contro i mostri sacri Argentina e, soprattutto, Brasile, alla «scontata» semifinale con la Polonia priva dello squalificato Zibì Boniek, all’apoteosi finale nonostante il rigore sbagliato (sullo 0-0). Un lungo viaggio con “Pablito” Rossi presto passato dalla (ver)gogna del calcio-scommesse alla fama mondiale, il primo, vero, sensato e irripetibile silenzio-stampa (l’espressione, oggi stra-abusata, nacque allora) e, a traguardo raggiunto, concluso col più autentico sport nazionale: il salto sul carro del vincitore.


LA PARTITA
L’inizio è soft. Al 2’, triangolo Littbarski-Fischer-Littbarski al termine del quale l’ala destra del Colonia lascia partire un pallonetto poi facile preda di Zoff. Come da tradizione è la Germania a «fare» la partita, l'Italia però non va mai in affanno.

Il primo vero brivido arriva dopo 7’ e non è dovuto ad un’azione di gioco bensì all’infortunio di Graziani. Subìto fallo da Bernd Forster, nel cadere “Ciccio” picchia la spalla destra, già acciaccata dalla semifinale con i polacchi. Lo sfortunato attaccante deve uscire. In lacrime. E il dolore, ci scommettiamo, è nulla in confronto al dispiacere di dover abbandonare il campo nella partita della vita. Entra Altobelli. Cinicamente, per la serie: non tutto il male vien per nuocere.

Sul piano tattico qualcosina cambia, anzi parecchio. Graziani, specie adesso che è nella seconda fase della carriera, è una punta capace di generosissimi ripiegamenti. “Spillo” invece ha ancora il gol dentro. Registrate le prime «intemperanze verbali» (eufemismo, leggi: insulti agli azzurri) da parte della linguaccia Uli Stieleke per, a suo dire, i troppi falli, ecco la prima offensiva italiana. È di chi non ti aspetti, il pivellino del gruppo: Giuseppe Bergomi.

Classe 1963, insospettabilmente mascherata da un paio di improbabili baffoni che gli danno un aspetto austero e una quindicina d’anni in più, lo “Zio” – soprannome affibbiatogli dal compagno di club Marini – approfitta della momentanea uscita a bordocampo di Breitner per spingersi in avanti. Mentre il Maoista si fa massaggiare la gamba dopo la cura-Gentile, Beppe, con tipica sfrontatezza giovanile non si lascia pregare per sferrare una castagna dalla distanza. La palla sibila oltre la traversa, ma è un segnale: l’Italia c’è. Eccome.

La prova, lampante, arriva al 24’. Lungo traversone di Altobelli per Conti, scattato sull’out destro. Il piccolo tornante azzurro è un furetto imprendibile sul quale il gigante Briegel, nell’occasione più goffo che cattivo, non può che franare. Travolgendolo. Conti, sul vertice destro dell’area piccola si volta, fa per rialzarsi e quando, ancora in ginocchio, capisce che l’arbitro brasiliano Coelho sta indicando il dischetto, quasi ad avvalorarne la decisione, si «accorge» di essersi fatto male e si ributta a terra contorcendosi dal dolore. L’accentuazione, furbetta, non intacca il giudizio su quello che, secondo l’autorevole osservatore Pelé, è stato il miglior giocatore del mondiale. Alla battuta si presenta Cabrini, di solito una garanzia. Il Bell’Antonio, mancino, batte angolato, angolatissimo, perfino troppo. All’ultimo istante cambia la decisione iniziale e «incrocia» il tiro. La nuvoletta bianca che si alza in prossimità del dischetto fa capire che il terzino azzurro calciando «zappa», come si dice in gergo, sul terreno e la palla sfiora il palo, ma dalla parte sbagliata: fuori! La nostra Repubblica, che un’antiquata Costituzione vuole fondata sul lavoro (peraltro semi-introvabile) anziché sul più plausibile calcio parlato, vacilla. Idem il suo presidente Sandro Pertini, ancora non pericolosamente avvicinatosi alla balaustra della tribuna autorità. Schumacher, si tuffa dalla parte giusta, a sinistra, ma non dà la sensazione di arrivarci. Il portierone teutonico ci mette un po’ per capire che la grande paura è passata e la sua faccia assomiglia tanto a quella di un miracolato.

Passano sei minuti e l’Italia, ancora sotto choc, traballa ma non crolla: decisivo, nell’occasione, l’anticipo sotto porta del puntualissimo Collovati su Fischer. È l’ultima emozione del primo tempo. Negli spogliatoi lo stralunato Cabrini è in lacrime in un angolo dello spogliatoio. Bearzot non lo sgrida ma gli grida: «Ma cosa piangi, non vedi che [i tedeschi] non stanno più in piedi?». Poi il Vecio si gira verso gli altri e con lo stesso tono ringhia: «Perché, voi non ve ne siete accorti? Adesso rientriamo in campo e sistemiamo la faccenda».

La ripresa comincia con gli stessi effettivi. Gentile e Bergomi, alle prese con più o meno lievi infortuni, stringono i denti. Al 47’ c’è un calcio franco per la Germania Ovest per uno sgambetto di Scirea su Kaltz al limite dell’area. L’attento Zoff blocca con sicurezza in presa alta.

Tempo nove minuti e «la faccenda», come la chiama il Ct dalla faccia pulita come la sua coscienza, è bella che sistemata. Trequarti di destra dell’attacco azzurro, Rummenigge commette fallo su Oriali. Tardelli tocca per Gentile il cui cross a mezza altezza disegna una strana parabola stranamente arcuata sulla quale si fionda una miriade di uomini. Dopo il velo-non velo di Altobelli – rimarrà eterno il dubbio se sia più lui ad allargare volutamente le gambe per far filtrare il pallone o se sia questo a passarci in mezzo –, il più lesto di tutti è, ancora una volta, la sesta del torneo, Rossi. Pablito dà una spintina a Cabrini e tocca con il ciuffo la palla quel poco che basta per spingerla in rete. Schumacher, Briegel e Karl-Heinz Förster, folgorati, giacciono a terra come svuotati. Stielike, che novità, ce l’ha col mondo. Il Bernabéu impazzisce. Pertini si avvicina, stavolta sì pericolosamente, alla balaustra della tribuna autorità, e la repubblica di cui sopra, unita almeno davanti ai televisori, conferma la sensazione di non essere fondata (solo) sul pressoché introvabile lavoro.

Al 61’, Derwall corre ai ripari inserendo Hrubesch, armadio a quattro ante di 1,88 per 88 kg, al posto del centrocampista Dremmler. Mossa un tantino scontata ma questo il convento teutonico passa. Sei minuti dopo il suo ingresso, il panzer dell’Amburgo si rende per due volte pericoloso. La prima di testa, ma è bravo Zoff ad intercettare. La seconda, su cross di Briegel, con uno strano «sandwich» (assieme a Fischer) sul portierone azzurro.

Al 69’ l’apoteosi. Contropiede manovrato degli azzurri in prossimità degli ultimi sedici metri: Conti per Rossi e da questi a Scirea, che in area allarga sulla destra e di tacco tocca indietro per Bergomi. Lo Zio, non sapendo cosa farsene del pallone glielo restituisce. Il libero prende tempo, indietreggia di qualche passetto poi scorge e serve Tardelli. Schizzo, in posizione centrale, sembra controllare male il pallone che gli ballonzola un po’ sulla sinistra. Di controbalzo, in mezza girata, il Marco nazionale sgancia un fendente che si infila alla sinistra di Schumacher: 2-0.

Quel che ne segue, mentre l’intera «panchina» italiana si riversa in campo a festeggiare a stento trattenuta dalla polizia spagnola, è già leggenda. Quelle immagini faranno il giro del mondo, le rivedremo migliaia di volte eppure non ci stuferanno mai. Anzi. Il groppone alla gola che ne segue è una delle migliori medicine contro i tanti mali della banale quotidianità. Lo spirito si eleva, gli occhi si inumidiscono, le donne strillano. Per tutto questo e molto di più, grazie Marco Tardelli.

E pazienza se decenni dopo quelle stesse immagini saranno «oltraggiosamente» sfruttate per far «kalare» addomi maschili deformati dal troppo benessere e dalla vita sedentaria. Il suo volto, oggi, fisiologicamente non è più quello scavato di quando Marco giocava. La sua carriera di allenatore ha avuto pochi alti (Under 21) e molti bassi (Inter, a suo modo storico lo 0-6 nel derby) ma quanto ha fatto - in campo - il più universale dei centrocampisti del dopoguerra (secondo solo all'olandese Johan Neeskens nel nostro personalissimo cartellino) merita infinito rispetto. E altrettanta ammirazione.

Undici minuti dopo, la partita si «chiude». Ennesimo contropiede italiano – le «ripartenze», vivaddio, sono di là da venire: Conti scappa via a Stielike sulla destra, galoppa criniera al vento e palla al piede poi mette in mezzo per Altobelli. Con la freddezza che lo ha sempre contraddistinto nell’area di rigore e dintorni, e che però le coronarie del nostro popolo non sono, in quei frangenti, pronte a sopportare, “Spillo” trova il tempo di stoppare, «allargarsi» sulla sinistra per eludere l'uscita di Schumacher e segnare a porta vuota. La rete, oltre che fondamentale per stroncare sul nascere ogni velleità di rimonta degli avversari, è di rara bellezza. Ma nessuno lì per lì se ne accorge.

Forse nemmeno lo stesso autore del gol che esulta quasi "controvoglia", con i pugni levati al cielo ma con sul viso un sorriso tirato e un’espressione quasi inebetita mista di fatica, di gioia, di incredulità. Per festeggiare il 3-0 i ragazzi di Bearzot finalmente si scatenano. La piramide formata da Oriali, Cabrini e, in testa, Gentile è una delle storiche istantanee di quei momenti.

A questo punto Pertini dalla tribuna autorità sta quasi per cadere al grido di «non ci prendono più, adesso non ci prendono più…», concetto espresso con il tipico linguaggio gestuale che è un marchio di fabbrica tutto italiano: il dito indice oscillato come per dire che no, non c’è più niente da fare è l’ennesima icona di un mondiale già entrato nella storia. L’abbraccio... reale di Juan Carlos è solo la ciliegina sulla torta: sulla scena diplomatica internazionale è lui, l’86enne Sandropertini, il nostro Paolorossi. Al 38’ c’è un sussulto piccolo piccolo che ci spaventa il giusto, tanta e tale è la superiorità mostrata fino a quel momento dalla squadra italiana.

Sulla sinistra c’è una punizione di Müller, entrato al 69’ al posto di un impresentabile Rummenigge, troppo rotto per essere vero. La palla, ciccata da Cabrini di testa e respinta corta da Gentile, finisce sui piedi di Breitner poco dentro l’area. L’ultimo ad arrendersi spara una gran botta a pelo d’erba che s’infila alle spalle di Zoff. L’onore dei bianchi è salvo ed è significativo che il loro gol sia stato segnato da uno dei senatori, lo stesso che otto anni prima, nella finale di Monaco di Baviera, era stato il migliore in campo. Per l’eterno Breitner, il migliore e più consono dei passi d’addio.

C’è ancora da soffrire un pochino, se non altro ricordando cosa erano stati capaci di fare i tedeschi dell'Ovest in semifinale contro la Francia. Sotto 3-1 (aiuto…) nel secondo tempo supplementare, avevano pareggiato al 107’ per poi spuntarla ai rigori.

A proposito di penalty, al 42’ Littbarski va giù in area ma l’arbitro non abbocca. Il sospirone di sollievo che si alza dallo Stivale provoca strane perturbazioni fin sulla penisola iberica. Ormai è andata, e quando il triplice fischio di Coelho sancisce la fine interrompendo su Causio la catena di passaggetti nata da Scirea e proseguita con Bergomi, l’Italia intera è già in piazza a fare caroselli con le auto e a tuffarsi nelle fontane. E Nando Martellini si regala il passe per la leggenda con il suo immortale «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!».

Le scene che seguono rimarranno scolpite nella memoria collettiva degli italiani. Quella di Zoff a braccia alzate che solleva la coppa FIFA ispireranno il maestro Guttuso per un’opera storica che finirà anche sui francobolli. La gioia irrefrenabile di Gentile contagia l’intera tribuna d’onore. Il ritorno della comitiva azzurra a bordo dell’aereo presidenziale con annessa partita a scopone fra Pertini, Bearzot, Zoff e Causio. Ciascuno di noi ne ha una preferita, personalmente andiamo con quella del “Vecio” Bearzot sollevato di peso e issato in trionfo da tutto il gruppo azzurro, compresi quelli che non hanno giocato mai. Saremo inguaribili buonisti, retorici e quant’altro ma a noi pare tutto sincero. accadesse oggi, tra Borsa, diritti tv e plusvalenze, non ci scommetteremmo un euro, ma nell’82 si poteva ancora sognare e le due lirette due che avevamo le avremmo puntate ad occhi chiusi. Grazie, ragazzi. Grazie.


LA TATTICA

Consentiteci un elogio allo sfortunatissimo Antognoni. Protagonista di un gran mondiale, il «putto» fiorentino ha la sventura di farsi male proprio sul più bello, quando è ora di passare alla cassa dopo aver ingurgitato i peggiori veleni. Contro la Polonia, si procura un taglio profondo ad un piede che non gli consente di giocare nemmeno con una scarpetta modificata. Se non è jella questa… Ma con la «bandiera» viola la sorte doveva godere di un credito illimitato, visti i pedaggi passati (lo scontro con il portiere genoano Silvano Martina nell'81) e futuri (la frattura alla gamba destra nell'84) che gli ha imposto.

Ma il bell’Antogno non c’è e il Ct azzurro deve fare di necessità virtù. La genialata è in agguato. Bearzot, anziché cautelarsi con un centrocampista di quantità come Marini da affiancare ai combattenti Oriali e Tardelli, conferma Bergomi, il giovanotto di bellissime speranze che aveva debuttato contro il Brasile e rimpiazzato lo squalificato Gentile nella semifinale contro i polacchi. Dossena, sostituto naturale di Antognoni ma troppo giovane per accollarsi una tale responsabilità, rimane quindi in panchina e il regista di fatto diventa il tornante Conti. dall’altra parte, il fluidificante di sinistra Cabrini è sgravato di qualche compito difensivo e può scorrazzare sulla sua corsia di competenza. In questo modo, sulle fasce laterali l'Italia ha due «pendoli» di altissimo livello per tecnica e dinamicità.

La strategia degli azzurri è semplice: in porta monumento Zoff, e ogni commento è superfluo; in difesa, ai lati il rude Gentile e Cabrini, al centro due stopper, Collovati e Bergomi, bravi di testa e sull’uomo (il primo su Fischer, il secondo su Rummenigge), protetti alle spalle da un libero come Scirea (nato centrocampista), impeccabile in appoggio e capace di «salire» palla al piede; della linea mediana s’è detto e là davanti, due punte vere, il rapinatore Rossi e il faticatore Graziani, la cui copertura supplisce all’intelligenza tattica persa con Bettega, gravemente infortunatosi nell'81 contro il belga Munaron, il portiere dell’Anderlecht, in Coppa dei Campioni.

"Ciccio" però si fa male dopo appena sei minuti e al suo posto gioca Altobelli: scusate se è poco. Come dite, vi puzza un po’ di 5-3-2? Ebbene sì, il Vecio lo davano per bollito ma «giocava» dieci anni avanti ai suoi tempi. Però non ditelo a certi professorini usciti da Coverciano ché sennò si offendono. Sapete com’è, il calcio, il 5-3-2, la «zona» e chissà cos’altro, credono di averli inventati loro…

Come gioco, la squadra campione del mondo a Madrid si mantiene un filo sotto alla splendida Italia vista in argentina quattro anni prima. Marca sempre a uomo in difesa e a zona a centrocampo (da qui il neologismo «zona mista») ma è più dura, più «cattiva», più esperta, e forse meglio preparata sul piano fisico. Nata e cresciuta in un mare di polemiche – fa scandalo l’assurda contestazione a Bearzot, reo, tra le altre cose, di non aver mai convocato l’interista Evaristo Beccalossi –, nella prima fase la squadra fa una fatica immane; poi esplode. E lo fa in faccia alla critica, a quella più assennata e onesta che davanti a certi «spettacoli» non poteva tacere ma soprattutto a quella più becera, che nei giorni di Vigo seppe dare il peggio di sé, abbassandosi fino ad allusioni che meritano solo il dimenticatoio.

La Germania Ovest, poverina, è alla frutta e ha già fatto tanto ad arrivare sin lì. Dilaniata da polemiche interne che in campo sfociano in vistose litigate – il libero Stielike spende più energie a blaterare che a giocare –, la rosa che il Ct Jupp Derwall si trova a gestire nell'emergenza ha il suo miglior petalo, Rummenigge, menomato da noie muscolari e non sembra più lui. Eppure fra i campioni d’Europa figurano nomi di tutto rispetto.

In porta c’è il «matto» Harald "Toni" Schumacher che nelle giornate di grazia sa fare cose egregie.

In difesa due possenti cursori esterni come Kaltz e Briegel che assicurano spinta e traversoni, mentre al centro i fratelli Bernd e (soprattutto) Karl-Heinz Förster rendono dura la vita a qualsiasi attaccante. In tutto il torneo solo Rossi è riuscito a segnargli.

A centrocampo, dove spesso si aggiunge per cucire la manovra il libero Stielike, si integrano la lucidità di Breitner, i polmoni di Dremmler e, sulla destra, un frugoletto dalle gambe a "x" tecnico e sgusciante come Littbarski.

Di punta, un centravanti d’area abile in acrobazia come Fischer e, guai fisici a parte, la classe di rummenigge. alla bisogna, dalla panchina sono pronti la torre Hrubesch, grezzo stilisticamente ma dalla stazza di una petroliera, e l’elegante Hansi Müller la cui fragilità muscolare, specie se assommata allo scarso feeling con il veterano Breitner, lo rende inadatto a certi palcoscenici.

Una formazione, quella tedesca, dura a morire. Ma contro quell’Italia, quell’Undici luglio, c’era poco da fare. Per chiunque.
CHRISTIAN GIORDANO ©
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IL TABELLINO

Madrid (stadio "Santiago Bernabéu"), 11 luglio 1982
Italia-Germania Ovest 3-1 (0-0)
Italia
: Zoff; Gentile, Cabrini; Bergomi, Collovati, Scirea; Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani (Altobelli dall’8’, Causio dall’89’). Ct: Enzo Bearzot.
Germania Ovest: Schumacher; Kaltz, Briegel; Stielike, K. H. Förster, B. Förster; Littbarski, Dremmler (Hrubesch dal 61’), Fischer, Rummenigge (H. Müller dal 69’). Ct: Jupp Derwall.
Arbitro: Antonio Coelho (Brasile)
Marcatori: 57’ Rossi (I), 68’ Tardelli (I), 81’ Altobelli (I), 83’ Breitner (GO).
Spettatori: 90.000 circa.

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