FINALI MONDIALI - Roma 1990: vendetta, tremenda vendetta
di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
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Per una delle edizioni più scandalose sul piano tecnico, la finale come epilogo più degno: una partita inguardabile. e per di più (o di meno, fate voi) «rubata». Peggio di così…
Le premesse, quelle sì, erano diverse. Quattro anni prima, a Città del Messico, la sfida fra le due stesse nazionali (ma fra due squadre ben diverse) era stata vibrante, tirata e combattuta fino alla fine. Il 3-2 conclusivo aveva premiato la squadra del più grande calciatore del dopo-Pelé, l’argentina di Maradona, a scapito di una formazione che incarnava i più classici valori del calcio tedesco, limiti compresi: corsa, agonismo, concretezza, teutonica applicazione in ogni zona del campo e per tutta la durata dell’incontro ma anche una certa sprovvedutezza tattica e, soprattutto, una cronica mancanza di fantasia. Ma quel Maradona era incontenibile e quella Germania Ovest non sapeva ancora di avere, in Lothar Matthäus, ben più che un mediano, seppure di gran classe.
Argentina-Germania ovest atto secondo, dunque. i media suonano la grancassa della rivincita, nel tentativo di dare una certa qual dignità tecnica alla finale di Roma, quasi a voler mascherare il fatto che quella «vera», Italia-Germania Ovest, non si sarebbe mai disputata. a parte la sorpresissima Camerun, vinto (2-3 ai supplementari, con l’ausilio di un rigore quanto mai «sospetto») ma non battuto dall’Inghilterra nei quarti, gli azzurri (con i “Leoni indomabili” e gli jugoslavi i più belli del torneo) e i tedeschi (i più tosti) avevano espresso il miglior calcio di una manifestazione di livello troppo scadente per essere la reale fotografia tecnica del movimento calcistico internazionale. Eppure…
Eppure finisce come deve finire, per tutta una serie di ragioni fin troppo comprensibili. e il bello, si fa per dire, è che a vincere è davvero la squadra più forte (o meno scarsa, pure qui fate voi), la Nationalmannschaft di capitan Matthäus, nell’ultimo atto schierato in una posizione insolitamente arretrata, e delle vecchie o nuove conoscenze della Serie A, da Brehme a Völler, da Kohler ad Hässler (titolare al posto di Thon), da Reuter a Klinsmann. e di “Guidone” Buchwald la cui mastodontica figura di centrale davanti la difesa meglio simboleggia, nel grigiore dell’ormai imperante 5-3-2, l’irreversibile involuzione dell’ex gioco più bello del mondo.
Per vincere, però, la corazzata germanica deve ricorrere alle «magie» (sic) di un arbitro messicano, Edgardo Codésal, ostaggio della FIFA e in particolare del boss (in tutti i sensi) João Havelange. Codésal era genero del vicepresidente FIFA Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente brasiliano che, per dirla con Gianni Minà, "non avrebbe sopportato due vittorie di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione". La chiusura... della cerchia.
Ma se la Germania occidentale ha meritato di giocarsi la chance per il titolo, l’argentina ha fatto talmente tanta fatica che c’è da chiedersi come diavolo sia riuscita a fare tutta quella strada.
La risposta, ovvio, sta proprio nel diavolo, nella fattispecie provvisto di due nomi e un cognome: Diego Armando Maradona. Con lui a ricamare invenzioni e con la velocità dell’imprendibile Caniggia, quello «vero», la Selección si rintana col baricentro ben arretrato salvo poi fiondare in avanti l’ossigenato attaccante innescato dai lampi di classe che il Pibe de oro elargisce, ahilui e ahinoi, ormai quasi da fermo.
Con un piede gonfio così ma con ancora intatta la capacità di «vedere» gli spazi come nessuno, il numero 10 argentino «nasconde» il pallone per poi, al momento opportuno, lanciare in profondità il compagno, come faceva quattro anni addietro con Burruchaga. allora l’Argentina aveva infilato così in finale la Germania ovest, che le aveva offerto il fianco per la stilettata del 2-3 conclusivo; e sempre a Italia 90, c’era cascato, nei quarti, il più brutto Brasile di ogni epoca, quello blasfemamente «imbastardito» dall’introduzione del libero fisso attuata dal Ct Sebastião Lazaroni. Sì, lo stesso visto poi a far danni a Firenze e a Bari.
Della semifinale contro gli azzurri, e in particolare del «povero» vicini prima osannato e poi crocifisso da critica e tifosi anche al di là degli oggettivi meriti e demeriti, si è detto tutto e forse troppo quindi non è il caso di stuzzicare vecchie ferite mai rimarginate. La lunga premessa per ricordare come la vittoria tedesca appaia, alla vigilia dell’ultima recita all’Olimpico, talmente scontata da far presagire una pericolosa aria di ribaltone. Ma qualcuno, qualcuno molto in alto, si sarebbe ben cautelato.
LA PARTITA
Il primo episodio da segnalare precede il fischio d’inizio, riguarda il pubblico (in prevalenza italiano) ed è assai poco edificante. all’esecuzione dell’inno nazionale argentino, dagli spalti piove una selva di fischi che non ha eguali in tutta la storia del calcio.
La selezione guidata dall’esperto Carlos Bilardo paga sì l’eliminazione inflitta all’Italia ma anche e soprattutto il fatto di schierare lui, Maradona, artefice primo della polemica sapientemente scatenata alla vigilia della semifinale giocata proprio a «casa sua», al San Paolo di Napoli, gara che aveva letteralmente spaccato in due il popolo partenopeo: «L’Italia è la Patria», si diceva a Mergellina e dintorni, «ma Maradona è ’u piezz’e core». E se quella fetta di cuore è anche «mej’e Pelé», allora son dolori.
Come non bastasse, Dieguito, dopo la rissa nel ritiro argentino in quel di Trigoria, non aveva risparmiato i suoi strali neanche alla Roma padrona di casa in quella che era solo un’altra delle sue uscite create ad arte per procacciarsi anche il più piccolo dei vantaggi psicologici.
L’Argentina, priva di tanti squalificati (Batista, Giusti, Olarticoechea e, in primo luogo, della freccia bionda Caniggia, sostituito da Dezotti), si stringe attorno al suo capitano e leader tutt’altro che silenzioso. il labiale («Hijos de puta!») di Diego in lacrime non ha bisogno di traduzione e rimane l’autentica icona del Mondiale 1990, assieme agli occhi spiritati e imploranti di Schillaci e (sic) lo sputo dell’olandese Frank Rijkaard in faccia al «razzista» Völler negli ottavi. «È stato il più grande dolore che ho provato nella mia carriera di calciatore. non potrò mai dimenticare la mancanza di rispetto degli italiani nei confronti dell’Argentina. L’inno nazionale è una cosa sacra, e chi lo fischia non merita che disprezzo», dirà alla stampa giustamente ferito Maradona.
E il caso avrà anche ripercussioni politiche tanto da sfiorare l’incidente diplomatico tra due Paesi da sempre vicini eppure mai così lontani. La gara è così brutta e piatta che in pratica comincia nel secondo tempo. nei primi 45’, a parte una punizione di Maradona dal limite, susseguente ad un fallo di Buchwald su Basualdo e finita alta sopra la traversa al 39’, non un’azione, non una trama degna di tal nome. Solo tanta paura (di scoprirsi) e qualche calcione. e immaginatevi l’allegria di chi, per assistere al Grande evento, ha buttato via centinaia e centinaia di biglietti da mille delle vecchie lirette.
Poi, nel secondo tempo, ecco accendersi la speranza. È il 2’ quando Littbarski conclude a lato sfiorando il palo sinistro della porta difesa da Goycoechea; e il 13’ quando Augenthaler, libero con licenza di uccidere in attacco, va per le terre in area di rigore argentina. Sembra fallo ma l’arbitro lascia correre. Pia illusione: sta infatti per cominciare l’assurda recita del direttore di gara.
Al 15’ è ancora protagonista Goycoechea che devia un tiro di Brehme, in assoluto il migliore in campo. La Germania attacca e lo fa nell’unico modo, incolore e monocorde, che conosce e qualcosina azzarda ma è pur sempre un rischio calcolato. Per due volte la difesa teutonica, rimasta scoperta, se la fa addosso: al 33’ Calderón (subentrato dopo neanche dieci minuti della ripresa ad un irriconoscibile Burruchaga) viene steso da Matthäus, poi è Basualdo a cadere in area tedesca. Quelle incursioni di due onesti incontristi sporadicamente inseritisi dalle retrovie saranno le uniche sortite offensive dei biancocelesti, ormai rassegnati a sperare nei rigori. Ma per l’arbitro, in entrambe le circostanze, non succede nulla. Gli argentini lì capiscono, se non lo avevano fatto prima, che la gara è già decisa, se non nel risultato, di sicuro nell’esito. e si innervosiscono di brutto.
Qualcosa accade invece al 65’ quando Codésal espelle il mastino Monzón – omen nomen dicevano i romani, traduzione libera: un nome, un destino –, entrato al posto di Ruggeri (futura meteora all’Ancona, 7 presenze e un gol in Serie A nel 1992) all’inizio del secondo tempo e reo di aver brutalizzato Klinsmann almeno un paio di volte in appena venti minuti. i princìpi di rissa non si contano più e se questo è il cosiddetto calcio moderno, no grazie: vogliamo scendere.
Ma ancora non siamo all’apoteosi, che arriva, puntuale come una cambiale, sotto forma di un doppio regalo coi fiocchi. anzi, con un bel doppio «pacco». il primo gli argentini devono scartarlo quando l’ineffabile messicano nega loro un evidente penalty per un fallo (?) commesso su Dezotti, il secondo è addirittura tanto clamoroso quanto irreparabile: Codésal punisce un’entrata goffa, ingenua finché si vuole ma non fallosa del numero 17 Serrizuela su Völler che, più furbo di un italiano, va a cercare il contatto per poi lasciarsi cadere con un tuffo degno del miglior di Biasi. È fatta. Codésal non aspettava altro e figuriamoci se si lascia scappare l’occasione. Al posto di cuor di leone Matthäus, che non se la sente «per via delle scarpette nuove», sul dischetto va il glaciale Brehme, che non sbaglia: destro secco e angolatissimo del prototipo del perfetto ambidestrismo pedatorio e tedeschi virtualmente Weltmeister, campioni del mondo. Goycoechea, il portiere della Selección che in semifinale, ai rigori, aveva stregato Donadoni e Serena, intuisce e si tuffa sulla destra ma non riesce a ripetere il miracolo. a cinque minuti dal novantesimo e quindi dal miraggio supplementari-rigori, il sogno argentino di diventare tricampeón svanisce miseramente.
La Germania Ovest merita di diventare campione, non di diventarlo così. e meno di tutti lo merita Beckenbauer: lui che dell’eleganza e dello stile applicati al calcio ha sempre fatto quasi una ragione di vita e che bissa da tecnico il titolo ottenuto da capitano a Monaco nel 1974.
Prima del triplice fischio, Codésal fa in tempo ad infierire espellendo all’87’ Dezotti che strappa la palla dalle mani di Kohler che sta perdendo tempo. È davvero tutto in una partita che non ha dato niente. al calcio, al pubblico e ai suoi diretti protagonisti. Anzi, forse proprio a loro ha tolto qualcosa. agli amanti del bel gioco poi, ha tolto anche l’ultimo dubbio sulla sensazione che si è ormai giunti al punto di non ritorno. Ma mai parlare troppo presto: all’orizzonte si profila il fin troppo soleggiato Mondiale americano. dalla padella alla fornace.
Amara nota a margine: qualche mese dopo Codésal sarà radiato dalla Federcalcio messicana. Per cosa? Indovinello facile facile: inizia per "c" e finisce per ...orruzione. Chiaro il concetto?
LA TATTICA
Poche le differenze rispetto a quanto visto quattro anni prima a Città del Messico.
La Germania è cresciuta, sul piano della personalità dei suoi tanti campioni sparsi all’estero, prima ancora che su quello tattico. Nel ’90, sarebbe improponibile il sacrificio di Matthäus in marcatura su Maradona. Lothar è la star assoluta e tutta la squadra fa perno su di lui. Beckenbauer gli consegna le chiavi dell’attacco e lui lo ripaga con prestazioni-monstre. degnissimi scudieri, i fluidificanti Berthold e Brehme (grandissimo), Augenthaler, Kohler e Buchwald che compongono l’impenetrabile cerniera centrale, i lucidi Littbarski e Hässler al suo fianco a centrocampo e i sempre pericolosi Völler e Klinsmann in avanti. dritti all’obiettivo e senza tanti fronzoli, questo, in estrema sintesi, il credo tattico di Beckenbauer, più che sufficiente in un panorama di desolante mediocrità generale.
Per l’Argentina il discorso è ancora più breve. La compagine allestita da Bilardo è più che mai Maradona-dipendente, ovvio, peccato solo che Diego non sia più quello dell’azteca. aggrappata al suo fuoriclasse, la Selección punta a proteggere la difesa, il miglior reparto della squadra, con una batteria di faticatori che ha il compito di dar la palla prima possibile al proprio numero dieci, dal quale ci si aspettano invenzioni per l’unica punta (il solo Caniggia per quasi tutto il torneo, Dezotti in finale) o per se stesso. Per il resto tanta noia e botte. Chi si accontenta...
CHRISTIAN GIORDANO ©
IL TABELLINO
Roma (stadio Olimpico), 8 luglio 1990
Germania Ovest-Argentina 1-0 (0-0)
Germania Ovest (5-3-2): Illgner; Berthold (reuter dal 73’), Brehme; Augenthaler, Kohler, Buchwald; Littbarski, Hässler, Völler, Matthäus, Klinsmann. Ct: Franz Beckenbauer.
Argentina: Goycoechea; Sensini, Lorenzo; Serrizuela, Ruggeri (Monzón dal 46’), Simón; Burruchaga (Calderón dal 53’), Troglio, Dezotti, Maradona, Basualdo. Ct: Carlos Bilardo.
Arbitro: Edgardo Codésal (Messico).
Marcatore: 84’ Brehme (a) su rigore.
Espulsi: 65’ Monzón (A), 87’ Dezotti (A).
Spettatori: 73.603.
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