DONALD TRUMP TI TENGO D’OCCHIO
Grande romanziere americano e grande romanziere dell’America, il premio Pulitzer Richard Ford consegna a «la Lettura» un testo sull’ingarbugliato voto presidenziale di novembre mentre è in Italia per presentare il libro che segna il ritorno in scena del suo protagonista Frank Bascombe. Per dire che...
L’idea del ritorno di Trump fa paura;
Harris, che voterò, è un’incognita"
15 Sep 2024 - La Lettura
di RICHARD FORD
Avrete senz’altro sentito anche voi che ci saranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti tra poco meno di due mesi, ma in questo momento la confusione regna sovrana e temo di non poter spiegare adeguatamente «quello che sta succedendo» nella politica americana. Anzi, non saprei spiegare nemmeno una delle 34 condanne penali che pesano sul capo dell’ex presidente Donald Trump, nello spazio che qui mi è consentito. In parole povere, ecco come vanno le cose oggi in America. Abbiamo un candidato presidenziale, a quanto pare in regola, che è stato dichiarato colpevole di 34 reati per sottrazione di fondi pubblici, ma non solo; ci sono anche abusi sessuali nei confronti di diverse donne, e per di più questo individuo risulta geneticamente incapace di dire la verità su qualsiasi argomento. Il nostro uomo, però, vanta una schiera sconfinata di fedelissimi, i quali non solo se ne fregano delle sue vicende giudiziarie, ma hanno perso ogni fiducia nelle istituzioni fondamentali dello Stato che assicurano il funzionamento della nostra Repubblica. Mi riferisco al governo eletto; alla libertà di stampa; ai rapporti con i nostri alleati più stretti e con i nostri nemici giurati. I seguaci di Trump dubitano addirittura della nostra memoria storica. Per molti, queste elezioni quadriennali perfettamente legali, dettate dalla Costituzione, stanno assumendo i contorni di una lenta e progressiva crisi esistenziale che paralizza il Paese.
Vengo spesso in Europa, e gli amici europei mi confessano, aggrottando la fronte, le loro preoccupazioni per l’America. Gli Stati Uniti, sostengono, sono sempre stati un modello di governo democratico e una forza positiva — se non altro nel secolo scorso — in difesa dei princìpi democratici, quei valori da sempre minacciati dai regimi antidemocratici e autoritari che soffocano diritti umani e libertà individuali. Se devo essere sincero, avverto un certo disagio quando sento elogiare il modello americano. Gli Stati Uniti fanno da sfondo a quasi tutti i miei romanzi degli ultimi cinquant’anni e posso dire di conoscere bene l’America. Amo il mio Paese e mi sta a cuore il suo futuro. Ma so anche osservarlo da vicino, e così lo scorso anno, quando si è capito che Donald Trump avrebbe potuto — ahinoi! — tornare alla Casa Bianca, mi è balenato il sospetto, per la prima volta nella mia vita, che con la sua rielezione si rischiava davvero il collasso della democrazia nel mio Paese. E che gli americani, in tali circostanze, hanno molto da imparare dalla storia di altre nazioni (Italia, Germania, Francia, Ucraina), più di quanto i vostri Paesi abbiano da imparare da noi. La semplice ipotesi, peraltro, della rielezione di Donald Trump mi fa capire fino a che punto noi americani diamo per scontata la resilienza delle nostre istituzioni. Non è un male, peraltro, né un sentimento poco patriottico rendersi conto di quanto sia fragile il proprio Paese, e quanto esposto al rischio di andare in rovina. Ma subito dopo bisogna chiedersi come intervenire attivamente per tutelarne l’integrità, accogliendo l’invito lanciato da Michelle Obama ai delegati della Convention Democratica il mese scorso.
Forse non sono l’interlocutore ideale per discettare intorno alla situazione politica americana. Sono un semplice romanziere. L’ho già ribadito in altre occasioni. In quanto scrittore, mi reputo un dilettante permanente, affascinato dagli alberi e incapace di vedere il bosco. Per nulla esperto nelle generalizzazioni superficiali e di facile consumo. Inoltre, i fatti della vita reale (gli alberi) non bastano ai miei scopi, e chiedono in continuazione di essere modificati e distorti in modo da far emergere nuove verità. È il compito della letteratura. E dell’arte. Dire la verità, ma per vie oblique, insegna Emily Dickinson. Nessun direttore di giornale, che aspiri al premio Pulitzer, accetterebbe di stampare i commenti di un romanziere sulla corsa presidenziale americana. Siamo troppo stravaganti. Troppo risicati, i nostri canovacci. Siamo induttivi: non crediamo a niente e a nessuno sulla parola, e rispondiamo esclusivamente a noi stessi. Il nostro compito intellettuale è quello di immaginare innanzi tutto gli elementi che ci accomunano, per poi inventare nuove idee sulle cause e le motivazioni di ciò che accade nel mondo, rifiutandoci categoricamente di sposare le supposizioni altrui.
Mi sento in dovere di dichiarare, a questo punto, che negli Stati Uniti la comunità intellettuale non trova molto spazio per far sentire la sua voce, sopraffatta dal frastuono della comunicazione generalista e della sfera pubblica. Le nostre cronache politiche sono alimentate non tanto da quotidiani affidabili e pubblicazioni informate, quanto dalla televisione via-cavo e da migliaia di podcast, blog e chat-room non verificabili, gestiti da sedicenti «esperti» e «opinionisti»: anziani ambasciatori, ormai emarginati ma propensi alle illazioni, e poi generali in pensione, ex portavoce della Casa Bianca incarogniti, e ancora storici autodidatti, e geniacci fai-da-te di ogni risma, ideologia e pregiudizio, nessuno dei quali è chiamato a render conto delle proprie azioni, ligi esclusivamente al mercato dell’intrattenimento. Sono costoro ad azionare i riflettori, alla luce dei quali noi, semplici cittadini, ci affanniamo a cercare la realtà.
Devo ammettere, però, che molti americani vedono e decidono anche nel buio pesto. Bisogna votare per la vice presidente Kamala Harris perché è «una donna di colore», quasi bastassero queste due caratteristiche a qualificarla per la presidenza, dimenticando che nel 2020 la corsa presidenziale di Kamala Harris finì nel nulla, e non si capì nemmeno perché vi avesse partecipato. Altri spingono per Donald Trump, il candidato che «si è fatto da solo», «il difensore dei lavoratori e dei piccoli imprenditori», «l’uomo d’affari geniale», l’unico capace di «far rigar dritto Putin». Nulla di più falso. (Sorpresa: lo sapevate che la popolarità di Trump aumenta quando sparisce dalla circolazione e, al contrario, quanto più appare in pubblico, tanto più cala nei sondaggi? Un bel mistero). Henry James diceva che gli scrittori lavorano nell’oscurità, alla ricerca della luce. Nella politica americana contemporanea — la vita reale, non la finzione letteraria — l’elettore non riesce a vedere un bel nulla, nemmeno due dita agitate sotto il naso, avvolto com’è dal turbine mediatico di giudizi irrazionali e informazioni fuorvianti. Purtroppo la colpa, banalmente, è da attribuire anche al nostro innato disinteresse civico.
Ma rispondiamo almeno in parte alla domanda su quel che accade sulla scena politica americana in questo momento (siamo a meno di 50 giorni dalle elezioni): due sono gli sfidanti alla presidenza, e — me lo auguro — alla leadership del mondo libero, e nessuno dei due appare idoneo all’incarico. Se l’idea di Donald Trump alla Casa Bianca suscita terrore, l’alternativa di Kamala Harris lascia presagire non poche incognite. Se non fosse che, ovviamente, uno dei due uscirà vincitore dalle urne.
Se analizziamo la storia presidenziale americana — da Andrew Jackson a Millard Filmore, da Chester A. Arthur a Calvin Coolidge, da Herbert Hoover a Franklin D. Roosevelt, da Richard Nixon a Jimmy Carter, da Ronald Reagan a George W. Bush, per finire con Donald Trump — scopriamo che tra tanti presidenti ci furono solo un Abraham Lincoln e solo un Thomas Jefferson. La caratura dei presidenti americani, dopo la scomparsa contemporanea di Jefferson e John Adams il 4 luglio 1826, quando il Paese viveva gli anni più rigogliosi e intraprendenti della sua storia, non è mai stata particolarmente eccelsa. Né nel bene, né nel male. Gli Stati Uniti, nati da tredici colonie distinte, ognuna delle quali si reputava una minuscola nazione indipendente, via via fino all’annessione dell’Alaska e delle Hawaii nel 1959, non sono mai stati seriamente concepiti come un’entità governabile a tutti gli effetti. In un sistema federale, dove i singoli Stati erano in perenne conflitto tra di loro e spesso emanavano leggi diverse gli uni dagli altri, non si era mai avvertita la necessità di un leader forte. E difatti, tanto gli Stati originari, come tutti gli altri da allora, hanno sempre opposto resistenza all’autorità del governo nazionale, spesso manifestandogli la propria sfiducia per timore che un altro Giorgio III (o Donald I) potesse usurpare il potere e proclamarsi re. Thomas Jefferson è spesso ricordato per una citazione errata, ovvero che «il governo migliore è quello che governa meno». Negli Stati Uniti, però, questa massima viene presa tremendamente sul serio, e alla lettera, e non solo dai repubblicani. Il motto nazionale americano, "E pluribus unum" («Da tanti, uno»), è sempre stato un vanto assai lusinghiero, ma effettivamente poco comprovato, con il quale gli americani fingevano che i singoli Stati, per lo più impossibili da unificare, costituissero all’atto pratico un’unione che serviva formalmente a dare il suo beneplacito a sviluppo ed espansione, agevolando la conquista progressiva di un continente ricchissimo e sconfinato, spesso con metodi brutali e senza scrupoli. Sotto quest’ottica, l’America è stata fondata in realtà su una profonda contraddizione ispirata al cinismo più bieco. E se siamo durati fino a oggi è un vero miracolo.
Altra curiosità storica — che forse intriga solo il sottoscritto — riguarda proprio il motto supremo della nazione americana, "E pluribus unum", che venne istituito nel 1776 e rottamato dal Congresso nel 1956, forse riconoscendone l’assurdità, per essere sostituito con il ben più allarmante "In God We Trust" («Confidiamo in Dio»), che ovviamente serve a coprire una moltitudine di peccati.
Si discute spesso su che cosa importi di meno all’americano medio, la storia del suo Paese o l’incapacità a individuare l’Italia su una cartina geografica. Almeno adesso sappiamo dove si trova la Francia. L’abbiamo cercata sul mappamondo, quando l’Olimpiade è stata trasmessa in tv. Ma dove sarà la Grecia, e dove l’Italia? I dubbi restano. La maggior parte degli americani (ricordiamo che meno della metà dei cittadini di questo Paese possiede un passaporto) non conosce la differenza tra l’Unione Europea e la NATO, né prova alcun desiderio di informarsi. Per intrattenere gli ospiti, dopo cena, va di moda un giochetto che consiste nel tracciare il contorno del nostro Paese e inserire gli Stati al posto giusto. La moglie di un mio amico, che ha studiato ad Harvard e fa la preside di una scuola privata, non è riuscita a disegnare nemmeno la sagoma degli Usa. Davanti a queste cose, gli americani si sbellicano dalle risate. Tanti sono convinti che abbiamo vinto la guerra del Vietnam. La scorsa primavera, un altro candidato presidenziale costretto a ritirarsi, Nikki Haley, governatrice della Carolina del Sud, ha sostenuto in un incontro pubblico che la Guerra civile americana non è stata combattuta per l’abolizione della schiavitù, bensì per ostacolare le ingerenze del governo nelle libertà dei cittadini. Proponendosi come mediatore per risolvere le ostilità tra Iran e Iraq, si dice che Ronald Reagan abbia chiesto: «Fatemi capire, ma l’ayatollah, dove sta di casa?».
Molti americani — in genere i repubblicani — quando vogliono definire le competenze del presidente sostengono immancabilmente che il Paese va governato «come un’azienda». Questo spiega come mai ci siamo ritrovati con Donald Trump ad avvelenarci l’esistenza, con le sue beghe personali e le transazioni affaristico-truffaldine, e le infinite idiozie sulle iniezioni di candeggina per curare il Covid, e le offese alle donne, e l’oltraggio alla verità e alla legalità, e il vilipendio dell’etica e della morale, e addirittura della Costituzione americana, che ha promesso di abolire se rieletto. È così che funziona il mondo degli affari, immagino. Benché i cittadini siano investiti dei diritti inalienabili garantiti dalla Dichiarazione di Indipendenza, l’etica affaristica li trasforma in «clienti», quelli che fanno la fila per comprare un biglietto del cinema o una macchina usata, e gli affaristi li trattano come tutti i clienti — specie negli Stati Uniti — vale a dire come vile plebaglia strisciante sul gradino più basso della catena alimentare e della scala gerarchica, ignorata e bistrattata quando chiede cure e servizi alla persona, o reclama la tutela delle proprie libertà. In questo modello affaristico, governare equivale a spartirsi i dividendi tra azionisti.
Non esiste, ovviamente, un corso di formazione specifica per diventare presidente degli Stati Uniti. Non è richiesta alcuna conoscenza particolare, alcuna area di competenza o professionalità. Eisenhower era un generale dell’esercito. Woodrow Wilson, un rettore universitario razzista. Jimmy Carter, un coltivatore di noccioline, ufficiale di sottomarino e governatore dello Stato. Reagan era un attore nemmeno troppo famoso, sindacalista, governatore di destra, e venditore di saponi in televisione. L’idea stessa di una preparazione mirata per fare il presidente in America appare un’assurdità.
Ma se esistesse una cosa del genere, è lecito affermare che tanto Kamala Harris quanto Donald Trump hanno già fatto la loro gavetta, e nel migliore dei modi, nonostante le numerose lacune. La prima, a un soffio dalla poltrona presidenziale, in questo momento ricopre la carica di vicepresidente e partecipa a tutte le decisioni del governo. L’altro è già stato presidente, come ben sappiamo. Kamala Harris è stata promossa al suo ruolo attuale dal candidato Joe Biden, allo scopo di guadagnare consensi tra l’elettorato femminile e i votanti afroamericani e asiatici. Donald Trump, in realtà, aveva perso le elezioni nel 2016, avendo ottenuto tre milioni di voti in meno di Hilary Clinton, ma si era aggiudicato la maggioranza del cosiddetto «collegio elettorale». Questa istituzione, una bizzarra reliquia del XVIII secolo, venne introdotta dai padri fondatori nel tentativo, appunto, di ricomporre una nazione di Stati indisciplinati e faziosi, per tenerli agganciati al concetto di Paese guidato da un governo centrale. E pluribus unum.
A oggi, solo nove vicepresidenti americani sono stati promossi al gradino più alto, su un totale di 46 mandati presidenziali in 248 anni. Solo ventuno dei 46 presidenti sono stati rieletti, e al secondo mandato hanno ottenuto risultati più deludenti del previsto, forse perché i successi iniziali generano arroganza e sufficienza tali da indurli a riposare sugli allori, mentre il Paese e il mondo intero continuano a correre a una velocità impressionante. Si diventa un nuovo personaggio solo una volta nella vita, e intelligenza e talento, ricordiamolo, non sono prerequisiti per questo lavoro. Lo scettico direbbe che i candidati presidenziali americani con maggiori probabilità di successo sono quelli destinati a ricoprire un unico mandato, e con alle spalle una preparazione minima.
Gli americani, come ben sapete, sono innatamente guardinghi davanti a competenza e professionalità, a meno che queste doti non abbiano generato grandi ricchezze. La stranezza della psiche americana nasce in parte dalla storia dei primi coloni, gente povera e devota che fuggiva dalle persecuzioni religiose e guardava con sospetto ogni forma di conoscenza e raziocinio. Ci affascina, invece, la figura del «dilettante talentuoso», perché potrebbe essere uno di noi. Henry Ford, per esempio. I fratelli Wright. O ancora John Jacob Astor I, che lavorò nella macelleria del padre a Walldorf per poi diventare magnate delle pellicce e primo miliardario americano. Se gli europei vedono nell’America un modello di governo democratico funzionale, per noi americani i modelli culturali sono questi.
Donald Trump, privilegiato sin dalla nascita grazie all’ingente fortuna di famiglia e istruito presso due università prestigiose, è riuscito incredibilmente a farsi passare per l’uomo della strada che ha saputo arricchirsi con l’esercizio di due virtù tipicamente americane, scaltrezza e intuito. Trump ama presentarsi come un vero imbonitore del popolo, furbissimo nell’imbrogliare i suoi creditori, tra i quali il governo americano, anche se questo, in realtà, significa defraudare i contribuenti, vale a dire i suoi stessi simpatizzanti, che tuttavia lo adorano. Un’incongruenza ingannevole si è insinuata nel cuore stesso del movimento MAGA (Make America Great Again, ndr): Donald Trump vi figura come il self-made man, l’uomo che si è fatto da solo e l’astuto evasore, anziché il ricco e sconclusionato acchiappa-cedole che è in realtà.
Kamala Harris, dal canto suo, ha ben poco di straordinario: è figlia di immigrati indiani e giamaicani e si è pagata l’università servendo hamburger da McDonald’s. Così riferiscono le cronache. Ma anche il suo percorso ricalca la quintessenza di un’altra narrativa tipicamente americana: il sogno di emergere dalle proprie umili origini grazie alla fiducia incrollabile nelle virtù iconiche del Paese.
Ho preso questi appunti un mese fa, aspettando l’evolversi della situazione per azzardare un epilogo. Gli eventi incalzano, e purtroppo la chiarezza ancora latita. Ma andiamo avanti.
So già chi vincerà le elezioni presidenziali americane? No, non lo so. È importante chi vince? Sì, credo proprio di sì, per tutti noi, in patria e altrove, per chiunque stia leggendo queste parole. A novembre, voterò per la vicepresidente Kamala Harris. Nonostante sia convinto che etnia e genere non costituiscono titoli preferenziali per la carica di capo di Stato, credo che gli Stati Uniti faranno grandi passi avanti sotto la guida di una donna di colore, rispetto a una seconda presidenza Trump. L’elezione di Harris non risolverà tutti i problemi, come gli otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca non hanno spalancato le porte a una nuova e luminosa stagione post-razziale. Anzi, la presidenza Obama ha provocato involontariamente la nascita del movimento MAGA, reazionario, razzista e fascista, sfociato poi nella presidenza Trump. Anche in caso di vittoria per Kamala Harris, quel movimento non sparirà nel nulla. Joe Biden continua a ripetere che MAGA non rappresenta «la nostra identità americana». Ma si sbaglia. MAGA è dentro di noi. Dentro ognuno di noi. E bisogna ammetterlo, se vogliamo reagire e combatterlo.
L’ascesa di Kamala Harris alla candidatura presidenziale ha rinvigorito il Partito Democratico, spezzando la morsa della vecchia generazione, ormai logora, sugli ingranaggi del potere. Ha mosso i primi passi un mese e mezzo fa, come aspirante tutt’altro che ideale alla presidenza. È però migliorata, ha acquisito fiducia e determinazione nell’interagire con il pubblico, sebbene l’ultima intervista alla CNN meritasse appena la sufficienza. È palesemente una donna intelligente e vivace in pubblico, e non si lascia scalfire dalle intimidazioni, qualità utili al momento di affrontare il confronto decisivo con il candidato Trump. Diversamente da lui, più la vediamo, più ci piace. C’è chi sostiene abbia assunto un «atteggiamento presidenziale» nelle ultime settimane, ma se ripenso alla schiera dei nostri ex presidenti, devo ammettere che il senso del termine mi sfugge. Non è mai stato facile, tuttavia, farsi un’idea chiara delle convinzioni fondamentali di Harris: le sue affermazioni sono state altalenanti, e persino oggi appaiono spesso in divenire e scarne di particolari. Ovviamente, come sempre accade sulla scena politica americana, nessuno si assume la responsabilità di quanto dichiarato in passato, se non serve agli scopi presenti. Quattro anni fa, Kamala Harris sembrava addirittura troppo liberal per l’America. Le sue posizioni su Palestina, ambiente, crisi migratoria al confine messicano, assistenza sanitaria e fisco erano tali da confermare quei sospetti. Oggi, quel programma spianerebbe la strada ai repubblicani, se solo Donald Trump fosse capace di rinunciare a insulti, invettive e sproloqui. Peraltro, le recenti esternazioni di Kamala Harris a sostegno di Israele, a favore dello sfruttamento regolamentato dei giacimenti petroliferi, a difesa della legalità, e ancora, l’omaggio reso alla bandiera americana, tutto questo ha segnato un apprezzabile spostamento verso il centro politico. La possibilità che riesca a unificare anche il Partito Democratico — un’accozzaglia eterogenea di fazioni miopi e litigiose, ciascuna focalizzata sulle proprie battaglie — ha meno a che fare con le sue scelte politiche che la prospettiva raccapricciante di una seconda presidenza Trump. Un mese fa, scrivevo che, per vincere le elezioni e governare efficacemente il nostro Paese, Kamala Harris dovrà scoprire dentro di sé quella forza emotiva e quella carica intellettuale che forse non sa ancora di possedere, doti che emergeranno solo nel momento in cui le chiamerà a raccolta per metterle a buon uso. Per quanto impreparati al compito che li attende, i presidenti americani hanno seguito tutti il medesimo copione. Persino Lincoln.
E se vince Donald Trump? La sua vittoria è realmente possibile. Quando accenno a questa ipotesi, i miei amici cambiano discorso e mandano in soffitta la ragione. Ma è una reazione pericolosa.
In sostanza, Trump ha promesso di condurre il Paese alla rovina se verrà rieletto: si proclamerà dittatore, abolirà la Costituzione, farà uscire gli USA dalla NATO, revocherà gli impegni presi con Taiwan e Ucraina, si laverà le mani dei palestinesi, erigerà barriere doganali severissime, concederà a Putin carta bianca per invadere i Paesi confinanti, farà guerra all’Iran, si ritirerà nuovamente dagli accordi sul clima — e fin qui per la politica estera.
In patria, ha promesso di sostituire con i suoi leccapiedi tutti i funzionari del ministero della Giustizia e dell’Interno, di rimpinguare la Corte Suprema con l’arrivo di nuovi giudici reazionari, di processare e incarcerare tutti gli avversari politici, di abolire l’agenzia governativa per la protezione dell’ambiente e il ministero dell’Istruzione, di vietare l’insegnamento della storia dei neri, di tagliare i sussidi alle mense scolastiche per gli alunni poveri, e infine di abbandonare i diritti riproduttivi alla legislazione dei singoli Stati. C’è di tutto e di più, tranne forse l’ordine di inviare uno stormo di droni a bombardare Chicago. Se votate Trump, votate il suo programma. Ed è proprio quello che vogliono tantissimi americani. Li sento discutere nei diner e al supermercato, dal meccanico e in banca. Durante il volo transatlantico, la settimana scorsa, ero seduto accanto a una professoressa di Diritto costituzionale presso la facoltà di legge della prestigiosa Università della Virginia. Costei affermava che Kamala Harris è una nullità assoluta e che una nuova presidenza Trump saprà restituire all’America il suo prestigio globale, pur ammettendo l’esistenza di «qualche problemuccio». Voterà per Trump, mi sono detto scendendo dall’aereo.
Sin dall’inizio, ho notato che la nuova campagna elettorale di Kamala Harris punta invece a smorzare i toni delle critiche rivolte alla retorica apocalittica di Trump, che lo dipingono come l’arci-nemico e la peggiore minaccia esistenziale al mondo intero. Al suo posto, la presidenza Harris viene presentata come una scelta liberatoria per gli elettori americani: libertà di votare senza timore di rappresaglie, libertà di gestire il proprio corpo, libertà di protestare contro un governo oppressivo. Pare proprio che gli strateghi della campagna di Harris abbiano compreso che spaventare i votanti con lo spauracchio di Trump non è la strada che porta alla vittoria. Difatti, i seguaci di Donald Trump sanno benissimo di che pasta è fatto il loro uomo. E non lo temono. Forse non lo inviterebbero a cena a casa loro, ma approvano le menzogne da lui diffuse sui vaccini avvelenati e sulle torme di criminali cinesi che si infiltrano nel Paese dal confine messicano per vendere droga e assassinare i cittadini inermi nel loro letto. Per loro solo Trump è in grado di rassicurarli su tutto ciò che li spaventa e li disgusta.
I Democratici oggi si rendono conto che Kamala Harris dovrà vincere con ampio margine per impedire a Trump di truccare le elezioni con il suo esercito di scaltri sondaggisti e lestofanti, pronti a tutto per mettere in discussione l’esito delle urne. E con un insolito colpo di genio, sul finire dell’estate, hanno deciso di appioppare a Trump un semplice aggettivo, chiamandolo «strano» (weird). Trump, il buffone da strapazzo. Che non vale la pena prendere sul serio, nelle parole di Kamala Harris alla Convention Democratica. Il termine rimanda a un archetipo familiare, anch’esso assai comune in America. Un tipo un po’ svitato. Un incompetente. Un mix tra Oliver Hardy, Gomer Pyle e Forrest Gump. Uno sfigato. Il genere di persona che mai potrebbe ambire alla presidenza, nell’immaginario collettivo. E tutto questo senza banalizzare in alcun modo le minacce che Trump continua insensatamente ad agitare contro di noi e il mondo intero. Gli organizzatori della campagna elettorale di Harris sanno che il sistema migliore per sconfiggere Trump è trattarlo per quello che è, inchiodarlo a una definizione, quasi a voler dire: tutto di lui è falso, al punto da apparire irreale e difficile da afferrare; tronfio e spudorato, con la sua chioma arancione somiglia a un personaggio dei cartoni animati, sempre pronto a sparare menzogne a raffica. Come ho già accennato, meno si fa vedere in giro, più è apprezzato dal suo pubblico.
Inquadrarlo chiaramente per quello che è, questo è il compito che spetta a noi elettori, se Trump dovesse vincere.
In questo stato d’animo, mi consolo con il pensiero maligno che, in fin dei conti, Donald Trump riconosce di essere in corsa per la presidenza, ha organizzato la sua campagna elettorale, e si preoccupa, strepita e impreca all’idea che la vittoria potrebbe sfuggirgli di mano. Che teme il carcere, proprio come ogni persona normale, anche meno arancione di lui. Questo mi fa capire che, in fondo, Trump rimane una creatura delle istituzioni: un monello viziato, che spera sempre di farla franca, ma conosce benissimo le regole che intende infrangere. Nel caso di Trump, siamo davanti a un uomo che si preoccupa terribilmente del suo aspetto fisico e di come sarà giudicato dalla Storia. I suoi seguaci saranno pure nichilisti, anarchici e teppisti, o miliardari avidi ed evasori, ma Trump resta un semplice narcisista, il cui principale difetto, e il più destabilizzante, è di lasciarci perennemente con il fiato sospeso: noi cittadini non sappiamo mai quello che intende dire o fare. Dai suoi discorsi sconclusionati si evince che nemmeno lui sa quello che dice, e la sola cosa che gli sta veramente a cuore è spararle grosse per vantarsi e pavoneggiarsi. Le grandi nazioni sono costruite sulla coerenza e l’affidabilità della loro leadership. Trump, invece, parla a vanvera, come quando dice di voler abolire l’agenzia per la protezione dell’ambiente, o revocare la Costituzione. E un attimo dopo, è capace di affermare l’esatto opposto. Si era vantato di avere abrogato il diritto all’aborto, poi all’improvviso si è trasformato nel paladino dei diritti riproduttivi. Così facendo si rivela un personaggio sfuggente, elusivo, difficile da afferrare e da capire realmente, e pertanto difficile da combattere. Se diventerà presidente, dovremo sforzarci di considerarlo «conoscibile», più simile a noi stessi che al grande satana. Dovrà essere questo il nostro piano d’azione per la salvezza del Paese: tenere gli occhi puntati su Donald Trump per contestarlo e ostacolarlo risolutamente e, perché no, deriderlo, mobilitando tutte le istituzioni governative sfuggite alla sua mannaia. Come per tutti i precedenti 46 presidenti, nel corso della nostra storia, il governo degli Stati Uniti è stato scandito da innumerevoli contestazioni e battaglie.
Infine, ecco la mia ultima teoria, personalissima, e forse ingenua: non credo proprio che Donald Trump vorrà passare alla storia come il presidente che ha sfasciato gli Stati Uniti d’America. Perché non può fare a meno degli Stati Uniti, nemmeno lui; perché anche lui è figlio delle istituzioni e tradizioni del suo Paese. Per quanto singolare possa sembrare, sotto questo punto di vista Trump appare assai normale. E pertanto, dovesse vincere, continuerò a sperare, e non gli consentirò di stravolgere e annientare la mia integrità. Sono convinto che le forze del bene avranno la meglio a novembre, e vinceranno gli americani che non vogliono spingere nel baratro il loro Paese, rispetto a quanti sono intenzionati a demolirne le fondamenta, o semplicemente se ne infischiano. Forse è il romanziere, dentro di me, che alza la voce per dire la sua. È la mia verità, l’accetto per quella che è, e mi lascio condurre per mano dalla mia fede. Che altro posso fare?
Richard Ford (traduzione di Rita Baldassarre)
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