AL PACINO: «Bere mi salvò la vita»


In anteprima pagine e foto dell’autobiografia di Al Pacino, leggenda del cinema. «Una medicina. Cechov era d’accordo»

13 Oct 2024 - Corriere della Sera - La Lettura

Avevo iniziato a fare la maschera al Rivoli Theatre in Times Square. Alcune persone che ci lavoravano erano ricercate dalla polizia, altri avevano famiglie da mantenere, e la maschera era uno dei tre lavori che facevano. Capitava che mi dicessero: «Ehi, ragazzo, ho bisogno di recuperare un po’ di sonno. Riesci a sostituirmi?». Io dicevo di sì, e loro andavano a schiacciare un pisolino in balconata. Quando il sabato sera venivano quelli del New Jersey, si riconoscevano subito. Le ragazze carine si avvicinavano a me dicendomi: «Questo è per te», e mi mettevano in mano qualcosa, come se fosse una mancia. Poi aprivo il palmo e vedevo che era un fiammifero usato. Non potevo che ridere. Nel cinema c’era un bancone dei dolciumi con uno specchio a quattro ante. Mi mettevo lì davanti e guardavo stupito angolazioni della mia faccia che non avevo mai visto. Chi è questo qui? — mi chiedevo. Mi osservavo di profilo, di tre quarti, di fronte, e pensavo: come posso fare l’attore con una faccia del genere? L’anziano gestore della sala disse la sua: «Tagliati quelle basette che sembri un messicano». Pensai che fosse un commento stupido. Alla fine mi licenziò perché passavo troppo tempo davanti allo specchio. Ma lo fece in modo leggiadro, come un balletto, mentre scendeva dalla balconata lungo una colossale scala a chiocciola che sembrava uscita da Via col vento. Giunto che fu al primo piano, mi vide, puntò il braccio verso di me e disse: «Sei licenziato!», per poi scendere nell’atrio. Il tutto senza fermarsi. Che modo elegante per far fuori qualcuno. Quasi l’avrei applaudito.

Un altro mio lavoro consisteva nel consegnare le copie di «Show Business» ai chioschi lungo la 7ª Avenue. Era un settimanale che la gente del mondo dello spettacolo leggeva per sapere cosa andava in scena e dove si tenevano le audizioni. Informazioni molto preziose. Per un giorno di lavoro mi davano dodici dollari, che per me era un bel gruzzolo. Allora andavo al bar con il mio rotolo di banconote da un dollaro e le dispiegavo a una a una, come se fossi un riccone, per poi buttarle sul bancone come se ne avessi chissà quante. Quando non avevi il becco di un quattrino, come me all’epoca, cercavi di dormire fino alle quattro del pomeriggio, giusto per placare i morsi della fame. E se riuscivo a mettere insieme un dollaro e diciannove centesimi e concedermi il lusso di una bistecca con le patate da Tad’s Steaks, era come il pranzo del Giorno del Ringraziamento. Per consegnare i giornali avevo un carretto rosso con cui facevo tutti i chioschi sulla 7ª Avenue, dalla 34ª alla 57ª Strada. In fondo al carretto tenevo un fiasco di Chianti. Quando pioveva, mi davano una specie di poncho lungo fino ai piedi che non mi proteggeva granché, ma almeno evitava che i giornali si bagnassero. Alle nove e mezza o alle dieci di mattina cominciavo il mio giro e, mentre mi infradiciavo sotto il diluvio, mi consolavo con una canzoncina di mia invenzione:


Mi sento uno schianto Col mio fiasco di Chianti.

Charlie e Cechov sarebbero stati d’accordo con me: bere mi salvò la vita. Era la mia medicina, attutiva le sofferenze e mi teneva lontano dal pronto soccorso del Bellevue Hospital. Bevevo la sera, e il giorno dopo buttavo giù qualche pasticca. La mia testa andava per conto suo, e l’alcol aveva l’effetto di calmarmi. Se avessi sniffato la coca, probabilmente mi sarei staccato da terra; l’alcol placava il senso di vuoto che sentivo dentro di me e calmava la mia agitazione. Posso solo dire che funzionava.

A un certo punto smisi di vedere Charlie. Non ricordo il motivo preciso. Non so che cosa feci o mancai di fare. D’un tratto mi disse: «Devi andare avanti per conto tuo». Di certo non me l’aspettavo, e mi sentii come respinto. Penso che Charlie vedesse il mio potenziale, ma doveva pensare alla sua vita. Aveva passato i trenta da un pezzo, aveva una moglie e una bambina, e le sue priorità erano altre. Mentre io ero un ventenne fragile e non molto maturo. Ed ero sull’orlo della disperazione. Forse lo cercavo troppo, forse ero troppo dipendente da lui. Forse pensava che, dopo la morte di mia madre, avessi bisogno di altro. Ma ero molto meno articolato di lui. Ne avevo di strada da fare per arrivare al suo livello.

La nostra separazione, però, non durò molto. Non ci fu una vera e propria riconciliazione. Fu come se tornassimo insieme per osmosi. Ma capii che si era creata una distanza, e questo fu molto doloroso.

Andavo alla deriva nel Village, in preda ai miei pensieri e a un malessere generale. Stavo perdendo contatto con la vita. Da un bar telefonai a mio nonno per parlargli di come stavo e cominciai a piangere. «Fatti coraggio. Vieni a vivere con noi», continuava a ripetermi. Io ero in uno stato pietoso e non riuscivo a reagire. Ma non mi trasferii da loro. Me ne andai dal Bronx quando trovai una stanza in affitto a Chelsea a otto dollari la settimana.


Un’altra volta telefonai a mio nonno dopo che mi aveva trovato un posto da muratore. La notte prima di iniziare a lavorare non avevo chiuso occhio, e alle sette di mattina lo chiamai. «Lo so», fu la prima cosa che mi disse. «Non te la senti di andare. Capisco». Per trovarmi quel posto, mio nonno doveva avere fatto una fatica incredibile, ma continuai con i miei lavoretti. Non avevo nessun titolo di studio e non intendevo rimediare. C’era una sola cosa che mi interessava. Credevo di essere un artista.

Quell’anno morì anche mio nonno; capita spesso, quando un genitore subisce la perdita di un figlio. Mia madre era la sua primogenita, e avevano un bellissimo rapporto; era evidente quanto si volessero bene. All’epoca continuavo a consegnare «Show Business», e una volta svenni in strada. Immagino che fosse perché ero denutrito, ma anche per il dolore di questa nuova perdita. Mio nonno era un uomo caloroso dal cuore sensibile, anche se veniva da un mondo spietato. East Harlem, dove la sua famiglia si era trasferita come tanti altri siciliani, pullulava di gangster: i loro cognomi non erano ancora famosi a livello nazionale, ma erano già temibili. Anche lui avrebbe potuto entrare facilmente in quel mondo ma, per quanto fosse povero, non volle prendere quella strada. Come mi disse una volta, non ne aveva il coraggio. Mio nonno non andava d’accordo con la matrigna; così, a nove anni, mollò la scuola, scappò, andò a lavorare in un deposito di carbone e tornò solo quando aveva quindici anni. Era un piccolo selvaggio che scorrazzava con gli altri ragazzi di strada nel Bronx e nella parte nord di Manhattan, quando era ancora tutta campagna. Ogni tanto faceva l’apprendista in qualche bottega o lavorava nei campi, dormendo sotto le stelle. Era l’inizio del Novecento, quando la gente si spostava soprattutto a piedi o su carri trainati da cavalli. Lui non aveva scelto una vita facile, ma gli sembrava un’avventura.Dal suo paese d’origine, in Sicilia, provenivano tanti abili muratori. E mio nonno seguì le orme paterne facendo l’imbianchino. Con gli anni divenne sempre più bravo, e riusciva a mantenere la famiglia. La gente spesso gli faceva i complimenti. Suo figlio, mio zio, diceva che se avesse avuto il talento di suo padre, sarebbe diventato il padrone di New York. Mio nonno raccontava che una volta stava lavorando in un elegante ufficio di una zona signorile di Manhattan quando entrò Katharine Hepburn. Si fermò a guardarlo e gli sorrise. «Com’era?», gli chiesi. E lui: «Oh, era carina. Aveva un mucchio di lentiggini». Da ragazzo, quando lo vedevo fare dei lavori a casa, notai quanto fosse concentrato. Era in un’altra dimensione; in quel momento non esisteva altro. I movimenti delle sue mani erano netti e precisi, rapidi e complessi. Era così concentrato da attrarti nel suo mondo: sembrava un pittore assorbito dalla tela. Sono sicuro che mi trasmise qualcosa, perché è così che in seguito mi rapportai al mio lavoro. Non parlo spesso di mio nonno, ma sono stato influenzato dal suo humor e dalla sua intelligenza. Una volta Charlie lo incontrò, e si accorse subito di quello che aveva dentro e della sua capacità di entrare in relazione con il prossimo. Era un’anima bella e gli volevo un gran bene. Se sono ancora qui è grazie a lui, e non lo dimenticherò mai.

Finalmente cominciai a conoscere qualcuno nel Village: artisti o attori come me. Uno era Tommy Negron: era cresciuto anche lui nel South Bronx, faceva l’accordatore di pianoforti e pensavo che sarebbe diventato un grande musicista. A volte dormivo a casa sua, sul pavimento. Aveva una ciotola piena di monetine da un centesimo, da cui ogni tanto attingevo. Allora con una manciata di monetine si potevano fare molte cose. E poi mi piaceva Alec Rubin, uno dei registi in forze all’Actors Studio che occasionalmente guidava le improvvisazioni. Allestiva degli spettacoli in un piccolo spazio sotto il suo appartamento sulla 72ª Strada. Una volta mi lavai nella sua vasca da bagno e subito dopo scesi a recitare in Why Is a Crooked Letter. Lo spazio era così piccolo che mentre il mio personaggio stava fumando, una spettatrice mi passò un posacenere. Facevo spettacoli per bambini al Theater East, fiabe o cose buffe. Una volta mi toccò la parte dell’intrepido cacciatore che salvava Cappuccetto Rosso dal lupo cattivo. Un’altra volta ero un ranocchio che, dopo essere diventato principe, voleva tornare ranocchio perché la sua fidanzata era ancora una rana. Era un musical e dovevo cantare. Arrivavo alle recite del sabato e della domenica pomeriggio ancora rintronato dopo la notte precedente, ma in qualche modo riuscivo a ballare e a cantare fino alla fine dello spettacolo. E con i soldi che mi davano, tiravo il resto del fine settimana.

L’Actors Gallery era un piccolo locale di Soho per una trentina al massimo di spettatori, cui si accedeva da una rampa di scale. Lo gestiva Frank Biancamano, che faceva lo spedizioniere quando io lavoravo come pony express a Manhattan. Quando mi presentai a fare il provino mi chiese: «Ma noi non ci conosciamo?». Ero imbarazzato, e rimasi lì, tutto ricurvo, facendo il timido, perché non volevo che mi riconoscesse. Ma l’audizione andò bene. I miei primi ruoli furono in La guerra di Troia non si farà di Jean Giraudoux e in Mario e il mago di Thomas Mann: roba tosta. E poi I creditori di August Strindberg, dove ero uno dei tre personaggi (una donna, l’ex marito e il nuovo marito). Forse non ne colsi tutto il significato, ma adesso lavoravo con attori esperti, e anche di talento.

E poi una sera, sul palcoscenico, mi venne rivelato il potere dell’espressione come mai mi era successo prima. Non è una cosa che stessi cercando, e proprio qui stava il bello. Aprivo la bocca e capivo che in qualche modo potevo parlare. Le parole uscivano fuori da me, erano le parole di Strindberg, ma le dicevo come se fossero mie. Il mondo era mio, le mie emozioni mi appartenevano ma andavano oltre il South Bronx. Mi lasciavo alle spalle ciò che era familiare. Diventavo parte di qualcosa di più grande. Scoprivo che dentro di me c’era molto più di quanto credessi, che appartenevo a un mondo intero e non a un posto solo. E pensavo: che cosa mi sta succedendo? È come se mi sollevassi da terra. È una cosa che è qui e se mi allungo riesco a toccarla. Adesso so che è possibile. D’un tratto, in quel momento, fui universale.

Sapevo che dopo non dovevo più preoccuparmi se mangiavo o non mangiavo, se facevo soldi o non ne facevo, se ero famoso o no. La vera fortuna, in questo mestiere, è non farci caso. E vedevo aprirsi una porta: non conduceva a una carriera, al successo o alla ricchezza, ma allo spirito vivente dell’energia. Mi era stata concessa l’opportunità di guardare dentro me stesso, e non potevo fare altro se non dire: voglio fare questo per sempre.

( traduzione di Alberto Pezzotta)

***


AL PACINO
Sonny Boy. Un’autobiografia 
Traduzione di Alberto Pezzotta 
LA NAVE DI TESEO 
Pagine 336 più 32 di apparato fotografico, euro 22 
In libreria dal 15 ottobre

I premi Attore leggendario e regista, Al Pacino (New York, 25 aprile 1940) ha ricevuto nove nomination al premio Oscar, per film come Il padrino, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Serpico, Il padrino - Parte II e The Irishman, e ha vinto l’Oscar come miglior attore nel 1993 per Scent of a Woman ("Profumo di donna"). È stato candidato diciannove volte ai Golden Globe e ne ha vinti quattro; è stato nominato per tre Tony Awards vincendone due e per tre Emmy Awards conquistandone due 

Le immagini 
A sinistra: Al Pacino ritratto nel 2016 da Brigitte Lacombe. In alto, da sinistra: tre foto di Al bambino tratte dall’album di famiglia che accompagna il libro in uscita in contemporanea mondiale (© Mark Scarola)

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