Kate Winslet - Guardo l’umanità come Lee Miller
Otto anni di scetticismo e rifiuti, ma poi l’attrice è riuscita a produrre e interpretare il film dedicato alla grande reporter di guerra, inquieta ex modella. «Scattava tenendo la Rolleiflex all’altezza del cuore, il suo modo per abbattere le distanze»
24 Nov 2024 - La Lettura
Di PAOLA CASELLA
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Ci ha messo quasi otto anni, ma alla fine Kate Winslet è riuscita a portare sullo schermo la storia di Lee Miller, sia in veste di interprete che di produttrice: Lee, il film diretto da Ellen Kuras, ripercorre la vita e la carriera dell’ex modella, fotografa di moda e poi fotoreporter durante la Seconda guerra mondiale, nonché musa (e grande amore) di Man Ray, con cui ha condiviso una visione surrealista dell’immagine, e amica di Jean Cocteau e Pablo Picasso. Come corrispondente dal fronte per la Condé Nast, Miller si è concentrata sui ritratti dei prigionieri e delle infermiere da campo, e ha documentato per immagini la battaglia di Saint-Malo, la liberazione di Parigi e i campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Il film di Kuras racconta anche la vita privata di Lee Miller e la sua lotta contro la depressione e l’alcolismo, conseguenze del disturbo post-traumatico che la fotogiornalista ha riportato dal fronte. «Ho affrontato anni di ricerca — dice Winslet a “la Lettura” — per riuscire a distillare l’essenza della sua storia con gli sceneggiatori Liz Hannah, John Collee e Marion Hume: una storia densa di eventi e di gesti simbolici, come quello di farsi fotografare nella vasca da bagno di Hitler con gli stivali ancora imbrattati del fango dei campi».
Perché c’è voluto tanto tempo per realizzare il suo progetto?
«Mettere insieme il budget è stato una lotta, spesso la risposta dei potenziali investitori era: “A chi potrebbe piacere una donna così?”. Si concentravano sull’alcolismo e la depressione invece che sul fatto che Lee Miller fosse una professionista che non mollava mai nel suo sforzo di testimoniare la verità e di opporsi a qualunque regime. Ma siccome anch’io sono cocciuta, quel rifiuto e quella scarsa disponibilità mentale mi hanno fatto venire ancora più voglia di perseverare».
Che ricerche ha fatto per prepararsi al ruolo?
«Ho scandagliato il suo archivio personale, reso disponibile da suo figlio Antony che oggi ha 70 anni, e ho trovato migliaia di foto inedite, più le lettere e i diari di Lee. Ho tenuto in mano le sue macchine fotografiche, imparando a usarle in modo che sembrassero una mia appendice, come lo erano per lei: Lee teneva la Rolleiflex all’altezza del cuore, e quando alzava lo sguardo dall’obbiettivo tornava a guardare negli occhi i suoi soggetti, senza creare distanza fra sé e loro, anche grazie al tipo di macchina fotografica a lente unica che usava. Infine ho studiato tutte le sue fotografie, molte delle quali oggi sono esposte nei principali musei del mondo, apprezzandone lo stile e la lucidità di visione».
Che cos’ha imparato sui fotoreporter di guerra studiando la vita di Miller?
«Che senza la loro volontà di raccontare le cose come stanno, anche a costo della propria vita, non avremmo modo di conoscere la verità sui conflitti in corso, soprattutto oggi che ci vengono raccontati attraverso mille filtri e lo specchio deformante della propaganda. Anche ai tempi di Lee molto di quanto succedeva al fronte veniva occultato, e oggi con i social media e l’Intelligenza artificiale è facilissimo creare immagini fasulle. Un fotoreporter invece testimonia la guerra reale, anche in un momento in cui la narrazione è diventata prioritaria, e lascia che sia il pubblico a trarre le conclusioni».
Molti corrispondenti di guerra vengono osteggiati, incarcerati o anche uccisi...
«Ed è anche più pericoloso per le donne: molte di quelle con cui ho parlato durante la preparazione del film mi hanno manifestato la loro paura, confermando che certe esperienze al fronte lasciano una traccia pesante. Ma mi hanno anche descritto l’adrenalina che si prova nel seguire un conflitto in prima linea, e l’orgoglio nel cercare di rendere giustizia a ciò che hanno osservato attraverso le immagini che sono riuscite a immortalare».
Il film sembra concentrarsi soprattutto sulla forza di carattere di Miller.
«Lee ha ridefinito la femminilità come resilienza, integrità e compassione, e l’ha fatto ottant’anni fa. Ho voluto ripercorrerne vita e carriera quando era già una donna di mezza età, come lo sono io che l’anno prossimo compirò 50 anni, e cercava di raccontare la guerra soprattutto alle donne, attraverso le pagine di riviste “femminili” come l’edizione inglese di “Vogue”. Oggi è facile identificarsi in lei, soprattutto per chi, come me, ha una figlia alla quale vuole trasmettere certi valori. Anche per me è stata una grande fonte di ispirazione, e me la porto dentro. Penso così tanto a lei che mio figlio più piccolo mi ripete: “Ma quand’è che ti stanchi di parlarne?”».
Nella seconda parte della sua vita, qualcuno ha considerato Miller una figura femminile poco attraente.
«Lee aveva una forma di vanità, che le derivava dall’essere stata una modella: sapeva quale fosse il suo lato migliore e nascondeva i denti non proprio perfetti sorridendo sempre a labbra chiuse. Ma quando ha cominciato a lavorare nelle zone di guerra ha dovuto familiarizzare con le truppe, diventando “una dei ragazzi”, per ottenere da loro le informazioni necessarie a svolgere il suo lavoro. Al fronte non poteva cambiarsi d’abito, a volte non riusciva nemmeno a farsi una doccia per settimane, dunque ha detto: al diavolo il look, quel che conta è fare bene ciò che faccio. A me peraltro non interessava raccontarla attraverso uno sguardo maschile: non volevo né sessualizzarla né fare di lei una vittima a causa del suo trauma post-traumatico, o dell’infanzia segnata da una madre che era spesso ricoverata per disturbi mentali e da una violenza subita da Lee quando aveva solo sette anni. Oggi sarebbe felice di sapere che il 25 novembre è la Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne: ai suoi tempi di queste cose non si poteva proprio parlare».
Nel film, parlando delle donne, Miller dice ironicamente: «Prima siamo troppo giovani, poi siamo troppo vecchie. Non siamo mai abbastanza».
«E invece bisogna dirlo, a noi stesse e agli altri: siamo più che abbastanza! È il resto del mondo che fa fatica a rendersene conto. Alle nostre figlie dobbiamo trasmettere la certezza che vanno bene così come sono, e l’orgoglio in ciò che riescono a realizzare: io ad esempio sono fiera di Lee, e me lo dico da sola».
Miller afferma anche: «Preferisco fotografare più che essere fotografata». Ora che si è occupata della produzione di questo film, anche lei direbbe lo stesso?
«Diciamo che vorrei continuare a fare entrambe le cose: in scena come attrice e dietro le quinte come produttrice, per assicurarmi che le cose siano come le vorrei, a maggior ragione visto che ci metto la faccia».
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Il film
Il film Lee (2024), diretto da Ellen Kuras e uscito nelle scorse settimane negli Usa e in Gran Bretagna, dove è candidato a tre premi Bafta (in Italia sarà distribuito da Vertice360), è un ritratto della fotoreporter americana Elizabeth «Lee» Miller (1907-1977), musa degli artisti Man Ray e Picasso, raccontata nel periodo in cui Miller ha testimoniato per immagini la Seconda guerra mondiale dalle linee di combattimento. Lo ha prodotto e ne è protagonista l’attrice Kate Winslet (Reading, Regno Unito, 1975; sopra in una scena), vincitrice di un Oscar nel 2008 per The Reader. Basato sul saggio The Lives of Lee Miller di Antony Penrose, figlio di Miller e del suo secondo marito Roland Penrose, il film Lee esplora anche la lotta della fotoreporter contro la sindrome da stress post-traumatico sviluppata al ritorno dal fronte.
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