La tregua di Natale


foto: la partita del 24 dicembre 1914 

GRANDE GUERRA » LO STORICO INGLESE ANTHONY RICHARDS RIDIMENSIONA GLI EPISODI DELLA VIGILIA

PAOLO BRUSCHI 
Il Manifesto - sabato 21 dicembre 2024
Pagina 18

Durante il primo conflitto mondiale, i soldati e le famiglie si scambiarono miliardi di lettere, che hanno rappresentato testimonianze di inestimabile valore storico in grado di far luce su eventi spesso edulcorati, distorti o censurati, come la famosa «tregua di Natale» del dicembre 1914. 

Nel volume The True Story of the Christmas Truce: British and German Eyewitness Accounts from World War I (Greenhill Books, 2021), lo storico inglese Anthony Richards ha dissotterrato questo enorme patrimonio documentale, che illustra alla perfezione le cause, il significato e le ricadute dei fatti straordinari che sfociarono in uno stop ai combattimenti, in scambi di regali e in partite di calcio fra gli opposti eserciti.

Secondo Richards, già l’etichetta «tregua di Natale» è una semplificazione fuorviante, poiché lascia intendere che si sia verificato un unico grande evento, mentre è assai più corrispondente al vero l’accadimento di una serie di piccoli, numerosi e sparsi episodi, principalmente nelle Fiandre e soprattutto fra britannici e tedeschi. Similmente, per quanto nel 2014 l’allora presidente della UEFA Michel Platini abbia inaugurato la scultura di un pallone a Comines-Warneton, in Belgio, per commemorare gli avvenimenti di un secolo prima, è altrettanto improprio parlare di «partite di calcio» e del carattere affratellante del «gioco più bello mondo».

Il calcio in effetti stava all’epoca guadagnando un notevole seguito e, allo scoppio della Grande Guerra, governi e classi dirigenti non tardarono a fomentare il nazionalismo e il militarismo contando sulla bruciante e diffusa passione per il football delle masse popolari.

GUERRA SIMULATA 

Per l’antico convincimento che lo sport non è altro che guerra simulata, la stampa sportiva fu quasi unanimemente interventista. All’ingresso nel conflitto dell’Italia, la Gazzetta dello sport titolò in prima pagina «Per l’Italia contro l’Austria hip hip hip hurrah!», mentre in Gran Bretagna le strade furono tappezzate di manifesti di reclutamento per la «grande partita» contro gli Imperi centrali. A migliaia risposero alla propaganda militare che intervallava le partite di calcio, secondo un’idea partorita dallo scrittore Arthur Conan Doyle e sposata entusiasticamente dal Ministero della guerra e dalla Federazione calcistica, che addirittura crearono i cosiddetti Football Battalion, nei quali i calciatori e i loro tifosi potevano addestrarsi e combattere insieme. Nell’eccitato clima di fervore patriottico, gli assi degli stadi non si tirarono indietro: degli oltre cinquemila professionisti, ben duemila si arruolarono e una consistente percentuale morì in battaglia.

Insomma, quando filtrarono le prime notizie dei cessate-il-fuoco, non era facile crederci. Le opinioni pubbliche erano state alfabetizzate allo sport da una retorica bellicista e aggressiva, e gli organi di stampa dei paesi in conflitto invariabilmente descrivevano la disumanità e la ferocia del fronte avverso. Quindi, come era possibile che gli eserciti giocassero a pallone invece di spararsi addosso? I soldati erano forse collusi col mortale nemico?

TRINCEE 

La risposta fornita da Richards risiede nelle mere caratteristiche della vita quotidiana cui tutte le armate dovevano sottostare. Già in ottobre, nemmeno tre mesi dopo l’inizio delle ostilità, il fronte occidentale si dipanava lungo una linea ininterrotta di trincee che andavano dalla costa belga al sud-est della Francia. I vagheggiati e spettacolari attacchi su larga scala erano ormai sostituiti da offensive circoscritte, spesso risultanti nel guadagno di pochi metri di terreno e quindi percepite come inutili dai fanti che perivano a migliaia.

D’altra parte, le trincee erano per lo più antigieniche, ricoperte di fango, sovente allagate e prive di veri e propri ripari. Vi si conduceva un’esistenza grama, stretti fra i due estremi della noia irredimibile e del terrore della morte. Per di più, le linee erano vicinissime fra loro, così vicino che spesso i soldati orecchiavano le conversazioni provenienti dallo schieramento avverso.

In breve, capirono di trovarsi tutti nella medesima condizione, a onta della martellante propaganda.

Con il mutuo obiettivo di migliorare per quanto possibile la routine giornaliera, gli eserciti presero a osservarsi reciproche cortesie secondo una mentalità da «vivi e lascia vivere». Brevi e ricorrenti armistizi, spontanei o concordati, occorrevano quando era necessario riparare le trincee o raccogliere i morti rimasti insepolti, un’incombenza penosa ma indispensabile se si voleva evitare che qualunque sortita fosse intralciata dai cumuli di cadaveri che giacevano nella terra-di-nessuno.

ADDOBBI 

Questi esempi di cessate-il-fuoco riemersero all’arrivo del Natale, quando peraltro si sentì vociferare degli appelli alla pace di Nathan Söderblom, l’arcivescovo luterano che sarebbe stato insignito del Nobel per la Pace nel 1930, del movimento delle suffragette britanniche e soprattutto di papa Benedetto XV. Nella maggior parte dei casi, furono i tedeschi a prendere l’iniziativa, decorando le proprie trincee, accendendo luci sugli alberi e intonando canti natalizi. Gli inglesi se ne accorsero e si adoperarono per ricambiare, com’è nella natura umana. La vigilia e il 25 dicembre il fronte fu punteggiato di lunghi o brevi episodi di fraternizzazione, scollegati fra loro tanto che settori adiacenti ma all’oscuro continuarono la guerra come al solito. Però, dove i fucili furono abbassati, gli uomini uscirono allo scoperto: con grande circospezione e poi con più fiducia, entrarono in contatto verbale e poi visivo, infine si strinsero le mani e si diedero pacche sulle spalle. Si scambiarono sigarette, prese di tabacco, piccoli doni, spille militari e fotografie. Un sergente britannico tagliò persino i capelli a un soldato bavarese, con forbici e rasoio. Inevitabilmente comparve un pallone, o un ammasso sferico di materiale vario, che fu preso allegramente a pedate visto che il calcio era già un linguaggio universale. Non si trattò comunque di vere e proprie partite con squadre, arbitri o pali e traverse, benché elmetti possano esser stati posati a terra a simulare i limiti di una porta. Furono più che altro tiri e passaggi alla rinfusa di giovani liberi, per un fugace istante, di correre e saltare senza il rischio di venire abbattuti da un cecchino.

Improvvisamente come erano cominciate, le tregue cessarono, a volte subito, a volte dopo qualche giorno.

Nessun effetto di lungo periodo ne derivò: la mattanza riprese uguale a se stessa.

Gli alti comandi diramarono ordini affinché non si ripetessero casi del genere, minacciando punizioni e corti marziali. Inoltre, gli ufficiali rispolverarono la mistica patriottica dell’esercizio fisico che prepara alla guerra e la retorica dello sportivo-guerriero.

I palloni furono convertiti a usi meno sovversivi, durante le pause dalla prima linea, in tornei pensati per sollevare il morale delle truppe e tenerle in attività. Oppure, in modo inedito, come sprone alla lotta: un ufficiale se ne fece consegnare un paio, su uno scrisse «La finale della Grande Coppa Europea» e sull’altro «Niente arbitro», con due calci possenti li scagliò nella terra-di-nessuno e il boato della fanteria all’attacco li seguì.

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