OMAGGIO A GPO - La leggenda del vecchio Filadelfia


Nel 1957 piansi per un derby: era il primo che vedevo senza avere accanto mio padre

Siamo gelosi del nostro stadio 
Conosciamo i gol fatti dalla folla 

Qui il Grande Torino giocava? 
No, vinceva. 
Il Grande Torino poteva solo vincere.

GIAN PAOLO ORMEZZANO
Stampa Sera, 2 maggio 1989
— © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Il campo di via Filadelfia è sicuramente magico, lo provano le scritte sui suoi muri, ce ne sono di quarantacinque anni come minimo (la parola «balilla», ad esempio) e resistono nitidissime, meglio ancora di quelle mussoliniane sulle case rurali. Ma è anche uno stadio straordinario per riamare il calcio. Non è possibile immaginare un posto di calcio più perfetto, tra la Vecchia Inghilterra e il post-moderno. Le tribune in legno, la gradinata in cemento che sembra, con le sue porosità, sudare la storia. Intorno le case con la gente ai balconi, a godersi adesso le straordinarie partite delle squadre giovanili granata, le migliori del mondo, una volta le partite stravolgenti del Grande Torino. Ma è tutto lo stadio a essere profondamente museale.

Dove si vendevano i biglietti ci sono ancora le feritoie da bunker, dietro stavano i cassieri, sembravano monaci che raccolgono il denaro dai fedeli, passato attraverso feritoie del convento. Il cosiddetto antistadio, con fondo di ottima ghiaia da struscio, ingloba un hangar dove si stendono le maglie appena lavate della prima, seconda, terza, decima squadra. In certi giorni di vento, sembra che danzino i fantasmi dello squadrone che fu. E sovente tutte le maglie paiono avere il numero 10 di Valentino Mazzola.

Che stadio. Rocco che ci giocò da triestino e poi ci finì da allenatore diceva che era pieno di fantasmi, quelli di Superga ed anche il fantasma vivo, vivissimo dell'Avvocato, aleggiante sulle cose di tutta la città e quindi anche su quelle del Torino.

Rocco diceva sempre «il Toro», non «il Torino», invitava i giornalisti a bere del vino spesso nella stanza-osteria, sotto le gradinate, dei genitori di un ragazzino assai promettente, Cavallito, che giocava (errore? orrore!) nella Juventus. Rocco aveva una voglia matta di farsi granata a vita, ma capiva che non poteva più. E preparava, da subito, l'addio a quell'esperienza, troppo coinvolgente per essere serenamente sopportata. Ma chi scrive queste righe sa il Filadelfia di adesso e di ieri anche per averlo vissuto quando ci giocava il Grande Torino. Ci giocava? Ci vinceva. Non era pensabile che il Grande Torino non vincesse al Filadelfia. Qualche volta avrà pure pareggiato, magari perduto, ma la rimozione di quelle anomalie è totale. Il Filadelfia era il Grande Torino. Ed è il Grande Torino del Duemila.

La gente sceglieva la curva, nell'intervallo era il passaggio da una porta all'altra, mediante un determinato, vivace passeggio, di indemoniati dei 90 minuti e soltanto di quelli. Si andava da una porta all'altra, per seguire — noi malati, noi tifosi veri — il portiere avversario, e continuare a narrargli di cosa stava facendo sua moglie in quel momento. Il vero grande tifoso si informava perfettamente sulla situazione famigliare dell'avversario estremo difensore, come diceva Carosio nelle sue radiocronache, ed era preciso nel citare nomi, cognomi, situazioni. Ma soprattutto si andava da una porta all'altra per risucchiare il pallone. Ci ha detto, pochi anni fa quindi tanti anni «dopo», Giuliano Giovetti, il quale fu attaccante del Torino post-Superga, dopo esserlo stato dal Modena e del Como, che «si segnavano gol granata, al Filadelfia, senza sapere assolutamente come». Giovetti era un tipino talentuoso, tutto tecnica e niente fisico, per fargli segnare il gol la gente del Filadelfia doveva risucchiarlo in porta con il pallone. Giovetti tenero, indifeso e intanto tremendo, entrava lui pure in rete e i giornalisti scrivevano di manovra corale, conclusa da un suo guizzo. «In realtà — ha raccontato lui — venivo aspirato da un urlo, ma un urlo come nessun altro urlo, perché anziché emettere il fiato e dentro il fiato la voce, la gente succhiava tutti i rumori del mondo e li faceva suoi». Ma perché proviamo, sia pure con mediazione, a narrare il Filadelfia? Quello stadio non si narra, neanche Omero ce la farebbe a cantarlo. Chi lo ha goduto è stato fortunato, amen. Mai più ci potrà essere un simile posto di culto, dove si andava non per vedere «se» la propria squadra vinceva, ma «come» la propria squadra vinceva. Dicono che ci stavamo in trentacinquemila.

Non riesco a sapere come. Ero piccolo e mio padre mi portava sempre in un posto di una curva dove si rimaneva comunque larghi, dove potevo veder bene, e da dove si poteva partire, nell'intervallo, per il viaggio da porta a porta. Mio papà non voleva che stessi subito dietro al portiere nemico, imparavo le parolacce. Lui la domenica faceva comunque il sonnellino postprandiale, faticavo a svegliarlo, quando partivamo con la vecchia auto era una grande sgommata, e poi si battevano alcuni record cittadini di velocità. Arrivavamo sempre a partita iniziata, io ero imbronciato, mio padre guardava Mazzola e mi diceva: «Non si è ancora rimboccato le maniche, praticamente la partita vera non è cominciata». Ma il Filadelfia non si narra, non si ricorda, si sente, si ama, si patisce, si vuole, si spera. Quando ci fu la messa di morte per Ferrini, nell'hangar, e don Francesco salmodiava in latino piangendo, qualcosa riemerse, per noi tifosi dal vivo del Grande Torino, e non ci saremmo stupiti di vedere, in un angolo, Valentino a far segno, con la testa, di stare tranquilli, che lui comunque avrebbe messo a posto tutto.
Ma fu un lampo, sia pur lungo mezz'ora. Non si dice (non si dovrebbe dire) il Filadelfia.

Non lo si narra, non lo si espone. È peccato già anche incipriarlo di ricordi. Molti di noi vecchi temono i lavori di ristrutturazione: che non lo facciano troppo bello. E se nel cemento si trova una maglia con il numero 10, che ce la restituiscano, l'avevamo messa noi, lavorando di cazzuola, per celebrare un derby vinto, un altro scudetto. Apposta per i posteri, perché credevamo ai posteri almeno quanto adesso i giovani credono ai poster. Ridendo e piangendo comunque pensiamo di avere scritto sul Filadelfia, nelle righe qui sopra, qualcosa di sincero. Non sappiamo come e quanto possa interessare alla gente. Ma non pensiamo neppure che debba interessare. Siamo molto gelosi del Filadelfia. Pensiamo che quanto abbiamo visto e provato in quello stadio sia stata una sorta di unzione, a farci nobili. Conosciamo il segreto dei gol fatti dalla folla.

Ma per metterlo in atto, aspettiamo il ri-Filadelfia. C'era un giocatore livornese, Leo Picchi — fratello maggiore del grande Sandro — che giocava nel Torino in un ruolo anfibio, e che dopo tre minuti di partita diventava rosso rosso, come Marini dell'Inter diventava bianco bianco. Leo Picchi sapeva abbastanza di calcio ma poco o niente di gol, anche lui risucchiammo più di una volta col pallone nella porta dei nemici del Torino: che ai suoi tempi non era più il Grande Torino, ma non era neppure un Torino piccolo. Ammesso che il Torino possa mai essere piccolo. Bene, chiudo con miscellanea, in prima persona molto singolare. Provo a pensare a Edu al Filadelfia, sarebbe anche lui un campione sanguigno. Ricordo un derby nell'inverno del 1957, la Juventus era sulla carta più forte, vinse 4 a 0 o 4 a 1 il Torino, all'attacco c'erano — se ricordo, ma ricordo — Armano, Arce, Jepsson, Ricagni, Tacchi. Piangevo perché era la prima partita che vedevo senza avere accanto mio padre, morto pochi giorni prima. Era ancora il Filadelfia, da quel giorno anche mio padre, che aveva lui pure fatto segnare quei quattro gol, entrò fra i monumenti dello stadio magico.


Nel ricordo di Gian Paolo Ormezzano, grande giornalista scomparso due giorni fa e per anni nostro inviato speciale, pubblichiamo un suo articolo sulla magia dello stadio Filadelfia tratto da Stampa Sera del 2 maggio 1989 Gian Paolo Ormezzano Cuore granata.

Gian Paolo Ormezzano, scomparso venerdì a 89 anni, è stato un grande tifoso del Toro, passione ereditata dal papà.

Commenti

Post popolari in questo blog

Dalla periferia del continente al Grand Continent

Chi sono Augusto e Giorgio Perfetti, i fratelli nella Top 10 dei più ricchi d’Italia?

I 100 cattivi del calcio