Stefano Allocchio: l'uomo della strada
di Pier Augusto Stagi
Tuttobici, Numero 8 - anno 2006
Da corridore è stato un buonissimo velocista, adesso è un raffinato passista: calmo, paziente, un vero maestro di mediazione e diplomazia. Da corridore era benvoluto da tutti; da dirigente della RCS Sport, anche. Stefano Allocchio di strada ne ha fatta tanta: ieri in bicicletta, oggi in macchina. Eppure è solo all'inizio del suo viaggio.
«Ho ancora tanto da imparare e non ho fretta di arrivare. Per il momento sono contento di dove sono, di quello che ho fatto. Spero solo di fare sempre meglio».
È così Stefano Allocchio: un agonista ma non un cannibale. Alla polemica preferisce il dialogo, alle urla il sorriso. «Io cerco di andare d'accordo con tutti. Non sempre è facile, ma con un po' di buona volontà e pazienza si può. Magari ci si impiega un po' più di tempo, ma alla fine si arriva dove si vuole arrivare. A me non piacciono le scorciatoie: ho imparato che se uno lavora con impegno e costanza, i risultati prima o poi arrivano».
E lui non ha né fretta né tanto meno smania di arrivare. Sa che però è sulla buona strada e con un po' di fortuna e buona volontà, di strada ne farà ancora parecchia. Le prime pedalate sono state precedute da calci. I primi passi li ha mossi su un campetto di calcio, la sua prima grande passione.
«Il gioco del calcio mi è sempre piaciuto tantissimo, e ancora oggi appena posso non mi perdo una partita della mia Inter», dice lui, che è stato uno degli ultimi ciclisti milanesi (è cresciuto in città, in via Gallarate 389, dove i suoi gestivano un bar). Poi sulla spinta di papà Marco, ha scoperto il ciclismo.
«Creò una squadra di cicloamatori affiliata alla Federazione che si chiamava GS Tartavalle e lì, con quella maglia ho cominciato la mia avventura nel mondo del ciclismo».
Una pedalata tira l'altra, e Stefano Allocchio abbandona il pallone per intraprendere la carriera di ciclista. Lascia la società paterna e approda alla US Trenno, poi da dilettante alla FGM di Luciano Marton e l'ultimo anno tra i puri con la San Siro di Alcide Cerato. Non vince tantissimo, ma vince bene e soprattutto si fa apprezzare sia su strada che su pista.
«Nell'84, dopo aver partecipato all'Olimpiade di Los Angeles (riserva del quartetto, 4° posto; 11° nella corsa a punti, ndr) al mio ultimo anno tra i dilettanti, ho anche "rischiato" di vincere una Sei Giorni di Parigi in coppia con Roberto Amadio. Purtroppo per noi, lui fu tamponato (fu preso in pieno da Aster Brunati, ndr), e si ruppe una spalla: addio sogni di gloria in una delle Sei Giorni più importanti al mondo».
Passa professionista nella stagione 1985, con la maglia della Malvor Bottecchia di Mario Cal, e va subito a segno.
«Vinco alla Settimana Internazionale Siciliana: era la mia seconda corsa da professionista in assoluto. Poi, come se non bastasse, vinco anche due tappe al Giro d'Italia: tappa di Foggia (i battuti Freuler e Gavazzi) e quella di Salerno (i battuti Saronni e Freuler)».
Allocchio, che nasce a Milano il 18 marzo del 1962, si fa largo nel mondo del professionismo e il gruppo lo adotta: per tutti diventa il "papa".
«Ma con quello della cupola non c'entro nulla - dice lui con quella faccia da furbetto pronto a farsi una grassa risata -. Questo soprannome me lo affibbiarono Alberto Volpi e Sandro Pozzi amici e colleghi di allenamento: correva l'anno 1987. La squadra ci aveva dotato di un cappellino bianco, col paraorecchie: io ero tra i pochi che l'avevano messo e siccome in quel periodo Papa Giovanni Paolo II, Karol Wojtila, era andato a sciare, da quel momento cominciarono a chiamarmi in quel modo: il soprannome "papa" mi è rimasto fino alla fine della mia carriera».
Una buona e onesta carriera la sua, conclusa dopo nove stagioni di professionismo e dieci vittorie (tra le quali quattro tappe al Giro d'Italia, più una alla Vuelta e alla Tirreno, ndr), oltre a due medaglie di bronzo ai mondiali su pista nella corsa a punti (Bassano '85 e Colorado Springs '86) e ad una buona dose di titoli italiani.
Si è fatto benvolere: dai più esperti e dai giovani. Fin quando è restato in gruppo era lui il cuscinetto tra i big del movimento e gli ultimi arrivati.
«È capitato tante volte che qualche corridore neoprofessionista venisse da me a chiedere consigli. Ricordo ancora quando Coppolillo venne a chiedermi se poteva fare un saluto alla famiglia nei pressi di Dozza. "A chi devo dirlo?", mi chiese. Io andai da Bruno Leali, che era in maglia rosa e tornai con il via libera. La stessa cosa la feci per me. Era il mio ultimo Giro d'Italia, si arrivava a Milano. Andai da Miguel Indurain e gli dissi: "Miguel, io ho un bar qui vicino, vado avanti un attimo, saluto i miei, prendo un po' di ghiaccioli e torno". Così ho fatto».
La storia o la leggenda narra che fu lui la causa scatenante dell'addio al ciclismo da parte di Beppe Saronni.
«Beppe ancora oggi la racconta così - ci spiega Allocchio -. Era l'89: correvamo assieme. Beppe dice di aver capito di dover smettere perché non riusciva a tenere il mio passo in salita: "Se non tengo la ruota di Stefano è bene che smetta", disse. Ha proprio trovato una bella scusa...».
Allocchio mattacchione; Allocchio sempre pronto a darti una mano. Allocchio però nel frattempo è cambiato, cresciuto, in tutti i sensi.
«Fare qualche bischerata mi piace ancora adesso, perché guai a non trovare il modo di farsi una bella risata in compagnia, ma con gli anni si matura, aumentano le responsabilità, e le cose vanno fatte sempre più seriamente».
E lui una volta sceso di bicicletta le cose ha cominciato subito a farle davvero seriamente. Avrebbe anche potuto fare l'opinionista RAI, come per un breve periodo ha fatto in coppia con l'indimenticabile Adriano De Zan, voce storica del ciclismo.
«È stata una bella esperienza, impari tante cose, ti rendi conto di come sia difficile parlare per delle ore di cose che sai perfettamente ma che con altrettanta precisione devi raccontare al volo. Poi però mi è capitata l'occasione di entrare in RCS Pubblicità e non me la sono fatta sfuggire. Era il '95, e ho cominciato ad occuparmi di spazi pubblicitari. Poi, nel gennaio del '98, mi chiama l'allora amministratore delegato di RCS Sport, Biffi, che mi propone di entrare nello staff del Giro. Andavano in pensione Morelli e Cantù, e io ho accettato con entusiasmo».
Vive a Cesano Maderno, con la moglie Sandra e i figli Anita di 17 anni, Jacopo di 14 e l'ultima arrivata, Caterina, di quasi tre.
«Ho una bella famiglia, che mi sopporta e supporta. Il lavoro che faccio è molto bello, ma è anche molto stressante e loro sono il mio rifugio, il mio approdo ideale. Non pensavo che l'organizzazione di una corsa fosse così complessa, ma è anche vero che sulla mia strada ho incontrato due maestri: l'avvocato Carmine Castellano e Mauro Vegni. Io ci ho messo tutta la mia buona volontà e penso anche l'umiltà di rubare il mestiere un po' a tutti. Ho cominciato dal basso, facendo fotocopie, poi pian piano ho cominciato ad acquisire esperienza e competenze. Oggi mi occupo di tante piccole grandi cose, in particolare dei rapporti con le squadre e la giuria e da qualche anno ho cominciato a fare anche i sopralluoghi. Oggi curo tutta la parte sportiva sotto l'egida di Angelo Zomegnan e Mauro Vegni. Se non ci sono loro, il referente sono io. Dalla partenza (dove il responsabile è Italo Zilioli) all'arrivo (Giovanni Mantovani), io ho il compito di coordinare tutto. Una figura fondamentale è anche quella di Giuseppe Figini (quartiertappa e rapporti con gli enti locali). Beppe è il mio angelo custode. Da lui ho imparato e imparo tantissimo: è uno delle memorie storiche più preziose della nostra azienda. È molto più di un collega. Sandra, mia moglie, lo dice sempre: "Stai più con Beppe che con me". D'altronde io con Beppe mi faccio tra sopralluoghi e quant'altro almeno due Giri d'Italia e mezzo: 50 mila chilometri l'anno, per la precisione».
Stefano da un anno ha anche il patentino di direttore dell'organizzazione, ma non morde il freno, resta tranquillo e alla finestra.
«Da Mauro ho solo da imparare, ha metodo e mestiere, se sarò bravo il mio tempo arriverà. Per adesso sono felicissimo di essere il suo vice».
E una garanzia sono anche Italo Zilioli, Giovanni Mantovani, Maurizio Molinari, Marco Della Vedova, a da qualche mese Alessandro Giannelli: ex amici, che si sono ritrovati tutti nella stessa squadra.
«Mantovani è ormai un'istituzione. Agli arrivi sono i corridori i più felici per la sua presenza: la sicurezza è garantita. Ma anche gli altri contribuiscono con la loro esperienza a dare tranquillità ai nostri ex colleghi».
Facciamo però un passo indietro: rimpianti nessuno?
«Da corridore tanti. Tornassi indietro disputerei più Sei Giorni: mi servirebbero per avere più "amicizie" in chiave Mondiali. Se poi avessi avuto più testa, avrei forse vinto anche molto di più. Invece mi demoralizzavo troppo facilmente. Mi bastava un piccolo dolorino e rinunciavo a fare la volata: oggi non farei più così. Ho smesso a trentun anni, ero ancora molto giovane e in ogni caso sarei potuto servire ancora a qualche buon capitano. Diciamo che non mi sono applicato alla professione al cento per cento, non ci ho creduto mai fino in fondo. L'ho fatta un po' troppo con leggerezza. Peccato poi che all'ora ai Mondiali non c'era la prova dell'americana, perché in coppia con Silvio Martinello avremmo potuto fare delle bellissime cose: avevamo fondo e velocità. Potevamo essere davvero una coppia super».
Qual è stata la vittoria più bella?
«La prima non si scorda mai: al Giro di Sicilia. Era la seconda corsa della mia carriera, dovevo tirare la volata a Silvestro Milani, ad un certo punto mi affianca e mi dice: "Non sto bene, falla tu". Mi sono buttato e mi è andata bene. Poi una gran bella volata è stata quella di Salerno, al Giro. Batto Saronni, Freuler e Guido Bontempi, e scusate se è poco. A quei tempi dovevo fare i conti con gente del calibro di Guidone Bontempi, Rosola, Kelly, Moser, Gavazzi e il giovane Cipollini, gente tosta. Sono stato compagno di squadra di Moser, Bugno, Saronni e Fondriest: quattro campioni del mondo. Con Beppe ho sempre avuto un rapporto speciale».
Allocchio burlone? C'era, c'è stato. Nel '92, quando era alla Italbonifica Navigare di Bruno Reverberi si mise d'accordo con Dmitri Konishev e Alessio Di Basco per inscenare un incidente plateale e rocambolesco.
«Ci siamo buttati per terra: sono arrivati l'ambulanza, il medico e i meccanici con le bici... Era tutta una finta».
Adesso però Stefano non scherza più e le cose le fa maledettamente sul serio.
Numero 8 - anno 2006
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