Rudi Garcia, il sergente dei Sogni (2013)



Ama la chitarra, Tintin e l’Andalusia, la terra da cui partirono i suoi genitori. Ma soprattutto adora le squadre piene di giovani e di talento. In Italia ha portato le sue idee di calcio, un misto di Guardiola e di Benítez, le stesse con cui ha dato lo scudetto al Lille. Alla scoperta di Rudi, l’allenatore che ha fatto rinascere la Roma 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
Guerin Sportivo © n. 12, dicembre 2013

Vigilia Lazio. «Un derby non si gioca, si vince».  
Gol e lacrime di Balzaretti, rigore di Ljajic. 
«Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio». 
«Adesso mi sento uno di voi. Adesso mi sento romanista». 
Pre-Inter. Rivoluzione? In Francia è una parola importante». 
Otto vittorie come la Juve di Capello e Ibra, stagione 2005-06. 
«A quella squadra lo scudetto è stato revocato, preferisco prendere come riferimento altre due Juventus che di gare consecutive ne hanno vinte otto (1930-31 e 1985-86, nda). Tra queste c’è la Juve di Platini, e per un francese vuol dire molto».  Anvedi questo. 

Dopo i dogmi dell’Hombre Horizontal asturiano, le verticalizzazioni spinte del boemo, integralista dei silenzi, delle crociate bicolori e dei gradoni, l’aurea mediocrità e il physique du rôle del traghettatore fatto in casa, ci mancava – e ci voleva – lui, un anti-Mourinho. D’ispirazione guardioliana, ma mondata – nei dubbi e nelle fisse filosofali – dal pragmatismo di Rafa Benítez, collega-amico da quando lo ospitò per uno stage al Valencia nel 2001. Giovane, fascinoso, gran affabulatore con la citazione sempre in canna. Ma a differenza dello Special One, lui il rumore dei nemici non solo non lo ama, lo silenzia suonando la chitarra. 

PARIGINO DI PROVINCIA 

A Roma, e alla Roma, sembra esserci nato, Rudi Garcia. Accento dove volete, tanto qui nel Sacro GRA smitizzano e provincializzano tutto dai tempi dell’Impero. Invece è francese dentro, e à la Paolo Conte s’incazza, eccome se s’incazza. Ma nello spogliatoio, il suo regno. Parigino di periferia, è nato il 20 febbraio 1964 a Nemours, 85 km a sud dalla capitale, dipartimento della Seine-et-Marne. Tredicimila anime, sulle guide per il castello del XII secolo sulla riva sinistra del Loing e il museo preistorico regionale della Île-de-France. Rudi però è cresciuto, non solo calcisticamente, a Corbeil, distretto dell’Essonne, 50 km a sud di Parigi. Là papà José allenava ai tempi d’oro del calcio locale: seconda divisione, l’attuale Ligue 2, oggi – con i biancoverdi in decima serie – un ricordo lontano. 

Figlio di andalusi di Garrucha scappati non dal franchismo ma dalla povertà e dall’arretratezza spagnole, José era stato calciatore professionista con Sedan e Dunkerque. L’altra vera passione era però il ciclismo. E al figlio aveva dato il nome del suo idolo, il tedesco Rudi Altig. Un gigante squadrato di 1,80 x 80 kg, pistard e sprinter atipico, pericoloso anche in montagna. In pochi, straordinari mesi del 1962 vinse a maggio la Vuelta, a luglio la classifica a punti al Tour de France e a novembre il Trofeo Baracchi a cronometro in coppia con Jacques Anquetil, dopo averlo tirato per 15 km. 

José arriva all’ASCE con la squadra che è ultima e in 8 giornate la salva. L’anno dopo conquista la promozione in seconda serie. Ai ragazzini delle giovanili dà del lei, anche quelli più difficili, insegna rispetto di regole e compagni, chi sgarra se ne va. È in quel vivaio e con quei princìpi, di calcio e di vita, che Rudi cresce. Fino al 1979, perché nei cadetti nazionali il Corbeil non ha la squadra e così Garcia Jr passa per tre anni al Viry-Châtillon. 

A 18 consegue “le bac”, come i francesi chiamano colloquialmente il baccalauréat, equivalente del nostro diploma liceale, introdotto da Napoleone nel 1808. E sempre nel 1982 firma per il Lille, club nel nord dove trascorre 2 anni da “interno” e 4 da professionista. Se ne andrà nel 1988, dopo 170 gare e 4 gol (tutti in campionato), e ci tornerà vent’anni dopo. Da allenatore. Un destino forse già scritto quando, «a neanche 10 anni – come raccontato dalla sorella Sandrine al Le Parisien – Rudi provava le prime tattiche al subbuteo». Per lui una specie di doposcuola, visto che al Collège Départemental Chantemerle sembrava andarci solo per giocare a pallone in cortile a ricreazione, prima di fare di corsa rue Ernest Féray – la vecchia rue Marcel Cachin, di fronte al teatro e vicino alla prigione – per ricominciare fino a sera in quello di casa. 

VITA DA CAEN 

Giocando da trequartista, più che segnare creava. Memorabile però il suo primo gol col Lille. Dicembre 1984, il 3-2 al Parc des Princes contro il Paris Saint-Germain, uno dei suoi club preferiti. 

Non dev’essere stato facile essere un centrocampista offensivo in Francia negli anni 80, l’epoca in cui, nel ruolo, l’Esagono esprimeva i suoi migliori interpreti. II carré magique (il quadrato magico) della Francia campione d’Europa ‘84, in quello stesso stadio, il Parco dei Principi, con Luis Fernandez, Jean Tigana e Alain Giresse nobili scudieri di “le roi” Michel Platini. 

Dopo 5 stagioni al Lille, ecco le tre al Caen, dove è allenato da Robert Nouzaret e Daniel Jeandupeux. Nel 1991, pur di non restare in Normandia, firma col Martigues, ma dopo 13 presenze (e altrettante nel breve ritorno al Corbeil), per seri guai a un ginocchio e soprattutto alla schiena si ritira. A soli 28 anni e dopo 300 partite fra prima e seconda divisione. 

Tra il 1992 e il 1994 sta lontano dai campi. Per costruirsi un futuro si iscrive all’università, a Orsay. Ottiene il DEUG (Diplôme d’études universitaires générales) e lo STAPS (Sciences and Techniques of Sports and Physical Activities), certificati che in Francia abilitano ad allenare nei settori giovanili, e in tv a CanalSatellitle fa il bordocampista per le interviste post-partita e in studio l’opinionista. Esperienze che, ammetterà poi, gli saranno utilissime in panchina. 

PRIMI PASSI 

Dal 1994 al 1996, è più allenatore che giocatore al Corbeil, nei campionati regionali. Nel 1995, a due mesi dalla fine come aveva fatto papà José, salva la squadra, ma in Division d’Honneur. Dal 1996 al 1998, allena a tempo pieno e chiude a metà classifica e secondo. A fine anni 90, per due campionati, fa il fisioterapista, poi l’osservatore degli avversari e infine l’assistente tattico al Saint-Étienne fa, nobile decaduta del calcio transalpino. Da luglio 2000 è assistente di Nouzaret, suo allenatore ai tempi del Caen ed esonerato il 30 settembre, poi di John Toshack, che il 21 dicembre subentra al traghettatore Gérard Soler. Il 5 gennaio 2001, tornato in Spagna il gallese, la prima squadra viene affidata a Garcia in collaborazione con Jean-Guy Wallemme, braccio destro ma a fine stagione, con la squadra retrocessa, la coppia verrà sostituita da Alain Michel. Wallemme viene licenziato a maggio, Garcia ad agosto, e tra i due le divergenze si ricomporranno un decennio dopo, da allenatori rispettivamente di Lens e Lille. 

Anziché aspettare una panchina di livello nazionale, Garcia accetta nel 2002 quella del Dijon. In due anni lo porta in Ligue 2 e in semifinale di Coppa di Francia, persa 2-0 contro lo Châteauroux. Nel 2007 lascia il piccolo club della Borgogna per il Le Mans, che in Ligue 1 chiude nono grazie alla spina dorsale formata da Yohann Pelé in porta, il montenegrino Marko Basa in difesa e gli ivoriani Romaric e Gervinho a inventare. In rosa ci sono anche il mediano franco-algerino Hassan Yebda, futura meteora al Napoli, e la punta franco-brasiliana Túlio De Melo, che a gennaio firma (invano) sia col Parma sia col Palermo. Anche lì, altra semifinale persa ma in Coppa di Lega: 5-4 ai supplementari dal Lens. 

PROVE DI 4-3-3 

Quel gran calcio gli vale però il ritorno al Lille, come successore di Claude Puel. Dura poco: le ingerenze del dirigente Xavier Thuilot lo portano alle dimissioni. Ma tempo sedici giorni e il presidente Michel Seydoux lo convince a restare. L’ascesa sarà irresistibile. Nel 2011 il club – che non vinceva il campionato dal 1954 e la Coppa di Francia dal 1956 – in una settimana centra lo storico doublé con questo undici-tipo: Landreau – Debuchy, Rami, Chedjou, Emerson – Balmont (Obraniak), Mavuba, Cabaye – Gervinho, Sow, Hazard. Un 4-3-3 corto e compatto che in fase di possesso si apre nel 4-1-2-3 o nel 4-1-2-1-2 grazie ai movimenti di Eden Hazard tra le linee e agli accentramenti di Gervinho, l’altro esterno del tridente. Se ci vedete analogie con la sua prima Roma, fate bene: un portiere bravo anche coi piedi (De Sanctis), terzini che spingono (Maicon e Balzaretti), un centrale tecnico e dinamico a proteggere la difesa (De Rossi) affiancato da gente che pensa e s’inserisce (Pjanic e Strootman), esterni alti (Florenzi e Gervinho o Ljaijc) che spaziano per il falso nueve (Totti) o la punta centrale (Borriello). «Non sono sorpreso dal suo successo», ha detto a L’Équipe Nolan Roux, suo attaccante nell’ultimo anno al Lille. Ne apprezzavo molto i discorsi, è un ottimo motivatore. E tatticamente è bravo, da lui ho imparato tanto». 

Come al solito, in spogliatoio ha istituito un conseil des sages, il consiglio degli anziani: Totti, De Rossi, Maicon, De Sanctis, Bradley, Strootman. Al Lille erano Rio Mavuba, Aurélien Chedjou, Florent Balmont, Benoit Pedretti e Franck Beria. All’inizio c’erano pure Mickaël Landreau e Mathieu Debuchy, ma poi qualcosa s’è rotto: Landreau pativa la concorrenza di Steeve Elana, Debuchy voleva raggiungere Yohan Cabaye al Newcastle, e ci è riuscito. 

PARTENZA INTELLIGENTE 

Ama le squadre zeppe di talento giovane, ovvio che al mercato facciano gola. Al Lille campione aveva il 19enne Hazard («non una pepita, una miniera»: al Chelsea per 40 milioni), il 23enne Gervinho (all’Arsenal per 12), i 24enni Rami (per 6 al Valencia), Cabaye (per 5 al Newcastle) e Moussa Sow (per 14,6 al Fenerbahçe), il 25enne Debuchy (al Newcastle per 6). Ma dopo cinque stagioni, e l’Europa sfumata per il sesto posto in Ligue 1 – per il club un fallimento – il suo ciclo al Lille era finito. Rudi cercava nuove sfide. E la Roma lo intrigava più del Malaga, che per il dopo-Pellegrini aveva lui in pole davanti a Gerardo “Tata” Martino e a Bernd Schuster. 

«Una partenza perfetta, gestita in modo intelligente», l’ha definita a L’Équipe il vicedirettore generale del Lille, Frédéric Paquet. «Ne avevamo parlato a lungo. E quando ha avuto la proposta della Roma, era logico che se ne andasse». Garcia aveva ancora un anno di contratto, «ma vi posso garantire che non ha chiesto niente». 

Un addio a Lille da signore per un’accoglienza, a Roma, che definire fredda è un eufemismo. Indifferenza o scetticismo sin dalla presentazione neyorchese, dopo mezza estate spesa dietro i nomi di Massimiliano Allegri, Walter Mazzarri, Laurent Blanc, Marcelo Bielsa. E atmosfera incandescente già dal raduno di Trigoria (contro Pjanic) e in ritiro a Riscone di Brunico (Osvaldo), dove tutti hanno subito capito che per «nuovo» arrivato non doveva intendersi «ultimo». A chi contestava, Garcia ha risposto che «chi critica i giocatori e il club non è un tifoso della Roma, al peggio della Lazio». Anvedi questo. 

IL SUO MONDO 

A Roma non ha ripetuto però gli errori dei primi tempi a Lille («me ne stavo troppo isolato»). E nemmeno quelli, anche logistici, dei suoi immediati predecessori. Su consiglio dell’ex laziale Ivan De La Pena, conosciuto ai tempi del Barcellona, Luis Enrique aveva scelto l’Olgiata: per arrivare a Trigoria tre ore fra andata e ritorno. «Pas très citadin», Garcia ha preferito la verde Casalpalocco, a venti-trenta minuti dal centro tecnico “Fulvio Bernardini”. È una zona signorile alle porte di Roma, sulla strada che porta al mare verso Ostia, davanti al centro commerciale vecchio. In zona, nel comprensorio tra Palocco, l’Axa e l’Infernetto, abitano anche Bradley, Castan, Benatia, Burdisso, Pjanic e Gervinho e l’ex Perrotta. Le tre figlie sono rimaste in Francia con la moglie Veronica, dalla quale è separato: Carla, 21 anni, lavora nella moda, Clara (16) e Lena (14) studiano a Parigi. Mai interrotta perché mai avuta la relazione (attribuitagli dai media per un’ingannevole apparizione su red carpet) con la biondissima Maud Schatteman, 24enne star del reality francese “Bachelor”, da fine luglio vive da solo. 

Abita nella stessa casa abbandonata nella notte tra il 28 e il 29 maggio da Alma e Alua Shalabayeva, moglie e figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, rimpatriate a forza da cinquanta poliziotti. Un caso mondiale che ha fatto vacillare il governo-Letta ma che, come ogni buon scandalo all’italiana, finirà nel nulla. 

I giornali li compra sotto casa, a trecento metri dal portone. Esce di rado e, come il Supermolleggiato, parla ancora meno, i vicini lo descrivono educato e gentile. A differenza di Zeman, non mangia da “Checco allo scapicollo”, la trattoria vicino a Trigoria dove vanno spesso i giocatori. Preferisce “La Locanda”, nel centro commerciale “Le Terrazze” a Casalpalocco, spesso con il suo staff. Più con Frédéric Bompard (1962), il vice che gli guarda in tribuna i primi tempi, che con l’assistente tecnico Claude Fichaux (1969), altro fedelissimo già a Lille (viceallenatore dal 2009). Bompard lo era anche a Dijon (2004-2008) ma come allenatore dei portieri, ruolo che alla Roma è di Guido Nanni. 

Ha un’Audi nera, non beve caffè, ha conosciuto la pasta, ma non ne abusa. Della sua passione per la chitarra racconta tutto il noto video su Youtube, altro cult come il cellulare in panchina (con Bompard) a Livorno alla prima di campionato. Non sa raccontare le barzellette, è ironico e aperto al dialogo. Ama il teatro, la serie tv poliziesca anni 70 Starsky & Hutch e Le avventure di Tintin, striscia a fumetti belga ideata nel 1929 da Georges Remi, in arte Hergé. L’idolo è Nelson Mandela, il numero preferito il 7 e come portafortuna ha attaccato al portachiavi un indalo, talismano andaluso come il pezzo di terra che il Sergente sogna di comprare. Magari dopo aver conquistato Roma. 

CHRISTIAN GIORDANO ©
Guerin Sportivo © n. 12, dicembre 2013


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