HOOPS MEMORIES - Texas Western '66, la storia vera di Glory Road

Christian Giordano 
RAZZA IDEA
I Miners campioni NCAA 1966

Non puoi farne giocare cinque tutti insieme,
sono indisciplinati.
Non puoi farne giocare cinque tutti insieme,
non ti ascolteranno.
Non puoi farne giocare cinque tutti insieme,
quando il gioco si farà duro
non reggeranno la pressione.


di CHRISTIAN GIORDANO

Nello sport ci sono episodi, circostanze, eventi destinati a trascendere il mero fatto agonistico. E, talvolta, a generare una serie di falsi miti, di fasulle etichette, d’inesattezze e semplificazioni che, negli anni, diventano nuove verità.

È il caso della finale NCAA 1966, persa 72-65 dalla grande e tutta bianca Kentucky del coach retrogrado e razzista Adolph Rupp contro la Texas Western piccola e nera del suo illuminato e progressista collega Don Haskins, il primo a giocarsi la gara per il titolo nazionale del college basketball con un quintetto interamente di origine afroamericana.

Le cose non stavano proprio così ma è così che furono e sono raccontate. Capita, quando la Storia si è scritta con la retorica del campo e stampata con le lusinghe della leggenda.

Con Lew Alcindor di UCLA lontano ancora un anno dalle gare ufficiali (all’epoca i freshmen non potevano giocare in prima squadra), la corsa al titolo universitario era considerata più aperta che mai, e sin dal suo avvio il Torneo NCAA fu ribattezzato Last Chance Tournament.

L’ultima occasione, si pensava, prima dell’ineluttabile dominio che il futuro Kareem Abdul-Jabbar avrebbe esercitato sulla competizione e – con l’introduzione della regola che vietava la schiacciata, sia in riscaldamento sia in partita – forse sull’intero movimento, ma che nessuno immaginava si sarebbe protratto anche con il suo successore ai Bruins, Bill Walton.

Allo stesso modo era difficile prevedere che l’edizione 1965-66 avrebbe riservato più emozioni delle sette successive messe assieme, non a caso ribattezzate Bruin Invitationals in ossequio alla supremazia delle squadre guidate dal Mago di Westwood, al secolo John Wooden.

UCLA aveva già infilato il suo bravo back-to-back nel biennio 1964-65 (98-83 su Duke e 91-80 su Michigan) ma non sembrava attrezzata per il ter. Sensazione avvalorata dalla storica partitella in famiglia prestagionale fra le matricole e la varsity, spazzolata 75-60.

Al Pauley Pavilion doveva essere la Salute to John Wooden Night ma si era trasformata nella notte magica del 2.12 Alcindor, per lui 31 punti, 21 rimbalzi e una sequela di stoppate di cui tuttora si favoleggia pur senza conoscerne il computo esatto.

Da quella batosta la prima squadra di UCLA (18-8 in stagione) non si riprese più. Il 10-4 le valse il secondo posto dietro Oregon State nella Athletic Association of Western Universities (oggi Pac-10). Ma alla Final Four di College Park, Maryland, andò la numero tre del ranking nazionale: Texas Western (23-1). Chiii?

Le altre elette erano le solite note Kentucky (24-1) e Duke (23-3) e la cenerentola Utah (21-6). Nell’ordine le numero uno, due e tredici delle classifiche di Associated Press e United Press International; con Utah ultima a raggiungere le finali e, stando ai pronostici, la prima candidata a uscirne, se non altro perché nel finale della stagione regolare aveva perso per frattura a una gamba capitan George Fisher.

Gli Utes erano alla prima Final Four in 32 anni, ma nonostante la presenza di Jerry Chambers (quarantello tondo nell’83-74 su Pacific nella semifinale dei Regional), Rich Tate e Merv Jackson – tutti nell’All-Regional Team – non erano un pericolo.

Ben altra considerazione vantavano le semifinaliste dell’est, i Wildcats di coach Adolph Rupp, che inseguiva la pietra verde del quinto titolo NCAA, un record, e i Blue Devils del suo “clone” Vic Bubas. Kentucky aveva battuto 86-79 Dayton nella semifinale dei Mideast Regional e 84-77 i Michigan Wolverines (al terzo titolo consecutivo nella Big Ten) in finale, gara che chiuse la brillante carriera collegiale dell’All-American Cazzie Russell.

Guidata dalla guardia Bob Verga e dall’ala Jack Marin, entrambi nel Secondo quintetto di All-America, Duke aveva superato negli East Regional St. Joseph’s (76-74) e Syracuse (91-81) ed era al terzo viaggio alle semifinali in quattro anni. Per molti, l’unico ostacolo credibile che poteva impedire al 64enne Rupp di coronare il suo forse ultimo sogno di gloria.


UK EMPIRE vs ALL-BLACKS
Già solo per la forza della tradizione, UK era già allora una delle superpotenze del college basketball. In più veniva da una cavalcata di 23 successi interrotta dall’unico stop, in marzo, in trasferta contro Tennessee nella penultima gara stagionale. Stavolta però il Barone non aveva una grossa squadra, perlomeno per statura e stazza. I migliori realizzatori erano l’ala-guardia Pat Riley (22 punti a partita per il futuro iconico coach di Lakers, Knicks e Heat) e la guardia Louie Dampier (21.1, più 9 rimbalzi di media, capofila dei suoi), futuro all-time leader per punti (13775) e assist (4044) nella ABA con i Kentucky Colonels e insieme con Byron Beck dei Denver Nuggets l’unico a disputarne con gli stessi colori le nove stagioni di esistenza; e come la prima delle UCLA campioni nel biennio precedente, schierava un quintetto che non superava l’1.94 della guardia-ala Tommy Kron (10.2) e dell’ala-centro Thad Jaracz (13.2), l’altra bocca da fuoco oltre all’ala Larry Conley (11.5). Qualche ispirata penna li ribattezzò Rupp’s Runts (runt indica una pianta o un animale poco cresciuti, come i bovini di razza nana del Galles e della Scozia, nda), ma i nanerottoli di Rupp sapevano giocare eccome, soprattutto di squadra, e non fu certo una sorpresa vederli arrivare alle Final Four.

La vera sorpresa era invece Texas Western, che dal 1967 si chiamerà UTEP, University of Texas at El Paso.

I Miners erano imbattuti con le Top 10 ma erano dati in calo dopo l’unica sconfitta, nell’ultimo turno, per due punti con Seattle, «la miglior cosa che potesse capitarci», secondo Bobby Joe Hill, uno dei leader della squadra e timoroso che il gruppo potesse sedersi sugli allori.

TW era considerata l’outsider per vari motivi, non ultimi lo scarsa notorietà del suo programma cestistico, tecnicamente e geograficamente (200 miglia dalla più vicina città con 10 mila abitanti) lontano dai grandi centri del basket di college, e la morbidezza del calendario (Eastern New Mexico, Pan American e South Dakota non erano proprio degli spauracchi).

Inoltre a curriculum non aveva ottime referenze – i suoi unici due viaggi al Torneo NCAA, chiusi alle finali dei Regional, risalivano alla notte dei tempi (1943 e 1947), – né titoli di conference, dato che correva da indipendente.

Nomi come David “Big Daddy D” Lattin, “Slop” Hill, Willie “Iron Head” Worsley, Nevil “The Shadow” Shed, Willie “Scoops” Cager, Orsten “Little O” Artis e Harry “The Cricket” Flournoy Jr. a livello nazionale erano sconosciuti.

Come non bastasse, coach Don Haskins allenava giocatori formatisi sui playground delle inner-cities (i ghetti) di New York (Shed, Worsley), Detroit (Hill), Houston (Lattin), Gary (Flournoy), che è nell’Indiana ma è un tutt’uno con Chicago, e quindi, secondo stereotipo, poco inclini alla disciplina, tattica e no.

Persino Wooden si sbilanciò asserendo che «mettere insieme una banda apparentemente così indisciplinata e riuscire ad allenarli come ha fatto Haskins, è stata una delle più grandi imprese che io abbia mai visto».

In realtà, se mai c’è stata una squadra il cui gioco contraddiceva i luoghi comuni usati per descriverla, quella era la TW del 1966.

Come i Wildcats neanche i Miners avevano stelle; ma sapevano segnare, andare a rimbalzo (meglio di tutti), saltare e difendere. Haskins aveva giocato per il leggendario Henry Iba a Oklahoma A&M (oggi Oklahoma State) e si era portato in panchina quegli anni di preziosi insegnamenti su duro lavoro e ferrea applicazione in difesa e gioco controllato in attacco come unica ricetta per sfondare. E si narra che i suoi sistemi di preparazione fossero a dir poco intensi. «Ogni giorno, a fine allenamento gli avrei sparato» ricordava Hill, deceduto l’8 dicembre 2002.

Per arrivare in semifinale, dopo un morbido primo turno con Oklahoma City (89-74), i Miners avevano sudato almeno due delle proverbiali sette camicie: c’era voluto un supplementare per battere 78-76 Cincinnati e addirittura due per spuntarla 81-80 contro la favorita Kansas, che schierava la star JoJo White e il 2.09 Walt Wesley e non a caso era la numero quattro del ranking. Kansas pareggiò la gara su un gioco da tre punti alla fine dei tempi regolamentari, e quasi allo scadere dell’overtime White infilò senza toccare il ferro la tripla della disperazione da oltre nove metri, annullata perché un arbitro aveva visto White mettere un piede fuori dal campo prima di rilasciare la palla. Spinta dallo stellone, nel secondo supplementare TW si ritagliò un vantaggio di sei punti, cui risposero i 7 filati di Al Lopes. A pochi istanti dalla sirena l’ala di riserva Cager salvò i suoi correggendo in tap-in un tiro sbagliato.

Quella partita si rivelò importante anche sotto l’aspetto tattico. Perfino l’armadio a quattro ante Lattin (1.97 per 110 kg) faticava a difendere su Wesley e allora il “duro” Hill, guardia di 1.77 che non aveva paura neanche del diavolo, disse che del big man se ne sarebbe preso cura lui. «Ogni volta che Wesley metteva la palla per terra», ricorda Lattin, «Bobby Joe gliela portava via». Tenetelo a mente.

Alla Cole Field House, l’impianto dei Terrapins di University of Maryland, gli incroci accoppiano nella semifinale “est” quelle che in molti ritenevano le autentiche finaliste e nell’altra le presunte vittime sacrificali della manifestazione.

Contro i ragazzi di coach Jack Gardner, Texas Western disputò una partita tosta, condotta per quasi tutto il tempo e vinta 85-78, nonostante i 38 punti di Chambers, capocannoniere e miglior giocatore del torneo.

Nella finale del 19 marzo, di fronte ai 14.235 della Cole Field House, la potenza dei Miners sfidava la velocità di Kentucky.

Soprattutto con quella i Runts del Barone avevano avuto la meglio, seppure a fatica (83-79), sui Blue Devils in un confronto condizionato dal mancato contributo del miglior tiratore di Duke, Verga, debilitato come il rivale Conley dall’influenza e presente più in spirito che in corpo.

Determinate le finaliste, tutti si accorsero di com’erano fatte. Kentucky era la classica squadra bianca, intesa come colore della pelle dei giocatori e dell’allenatore e come stereotipi sullo stile di gioco, ritenuto intelligente, altruistico e poco atletico.

I Miners di Haskins, bianco lui pure, non erano i primi a schierare un quintetto nero, ma erano i primi a farlo nella finale NCAA. Coach Phil Woolpert ne aveva sei (tra cui i titolari Bill Russell, K.C. Jones e Hal Perry) nel roster della University of San Francisco campione nel 1956, Edwin Jucker di Cincinnati e George Ireland di Loyola ne schierarono quattro nelle square che vinsero il titolo nel 1962 e nel 1963, ma il pioniere Haskins esplorava un territorio vergine e in un’epoca di tensioni sociali fortissime. La cosa però lo scomponeva il giusto. «Le squadre che affrontavamo – come Arizona, Arizona State, New Mexico, New Mexico State – avevano tutte giocatori neri», disse Haskins. «Non ci facevo neanche caso. Facevo solo giocare i migliori, tutto qua. Non è quel che ci si aspetta da un allenatore? Non deve mettere la propria squadra nelle condizioni migliori per vincere?».

Domande retoriche, ma non per tutti. Per qualcuno la finale fra la bianca Kentucky e la nera Texas Western (che di bianco, oltre all’allenatore, aveva anche cinque giocatori tra cui lo specialista difensivo Jerry Armstrong, fondamentale nel contenere Chambers in semifinale) divenne il simbolo dell’evoluzione razziale del gioco – l’ultimo bastione del gioco bianco contro quello nero dei ghetti metropolitani – e, in generale, della questione razziale della società americana, mai come allora in grande fermento.

Naturalmente i coach finirono per essere avviluppati, per non dire stritolati, nel vortice. Rupp divenne il vessillifero della “supremazia bianca”. E secondo la leggenda, a sostenere le sue squadre provvedevano legioni di tifosi pronti a sventolare bandiere Confederate e ad intonare “Dixie”.

Loro malgrado, il Barone e i Wildcats erano diventati simboli di un modo di vivere e di pensare che non avevano creato né sostenuto. E poco importava che nel 1926-27 il Rupp allenatore della Freeport Illinois high school avesse reclutato il nero W. Moseley o che lo stesso Rupp selezionatore per Londra 1948 fosse stato «la persona più vicina» a Don Barksdale, scelto dalla commissione tecnica presieduta da Lou Wilke come primo atleta nero nella storia della nazionale olimpica americana.

Il Barone non era certo un attivista dei diritti civili, e in tutta probabilità molto di quello che si disse e scrisse, in merito ai suoi pregiudizi razziali, è più che fondato.

Risponde a verità, per esempio, che avesse telefonato a un quotidiano newyorkese per chiedere lumi su «questo Connie Hawkins, 11 canestri, cinque tiri liberi, 27 punti: ma è bianco o di colore?» e che udita la risposta B avesse replicato con un «ma non potete mettere un asterisco vicino ai nomi?» prima di mettere giù la cornetta.

Come è vero che Rupp era, né più né meno, un figlio del Kansas d’inizio Novecento (era nato a Halstead il 2 settembre 1901) e con solo un’ossessione, la vittoria. Forse è soprattutto per acciuffarla che – si dice – caricò l’ambiente con dichiarazioni evitabili.

Poche ore prima del tip-off Haskins, visibilmente contrariato, disse ai suoi giocatori di avere appena sentito Rupp giurare che «mai cinque neri avrebbero battuto Kentucky». «Da quel momento», dirà poi Flournoy, «Kentucky aveva tante chance di vincere quella partita quante una palla di neve di sopravvivere all’inferno». E anche Hill, ma a festa finita, era straconvinto che «non c’era modo che perdessimo la partita».

Negli anni Sessanta il Movimento per i diritti civili aveva trasformato il panorama americano, sport compreso. Né va dimenticato che si giocava un anno dopo l’assassinio di Malcolm X, la rivolta losangelena di Watts e la Marcia di Selma; a tre dall’assassinio del presidente John Kennedy e da quando lo studente nero James Meredith aveva scritto la storia frequentando la University of Mississippi scortato dalla Guardia Nazionale; nel 1962, Mississippi State, campione della SouthEastern Conference, aveva declinato l’invito al Torneo NCAA perché riteneva non fosse il caso di affrontare le cosiddette squadre “integrate”, quelle che schieravano giocatori neri. Tempo un anno e il recidivo coach dei Bulldogs Babe McCarthy, in esplicita violazione di un atto legislativo dello Stato del Mississippi, ritirò la squadra dalla semifinale del Mideast, in casa a Starkville, contro Loyola of Chicago.

Infine, erano passati solo una dozzina di anni dalla sentenza della Corte Suprema nella causa “Brown v. Board of Education” di Topeka che dichiarava incostituzionale la segregazione razziale nelle istituzioni accademiche pubbliche. La finale NCAA 1966 diventò, secondo la definizione scritta dal giornalista David Israel vent’anni dopo, «la Brown v. Board of Education» del college basketball.

Allo stesso tempo però, sempre più studenti-atleti neri avevano cominciato a ottenere borse di studio nelle università sopra la Mason-Dixon Line e a destra del fiume Mississippi. Alla faccia del vento nuovo che spirava da nord-est però, in molte delle conference maggiori – tra cui ACC, SEC e SWC – per i colored le porte del college basketball restavano chiuse, e a doppia mandata.

Non è questa la sede per dissertazioni sociologiche, ma è evidente che l’intera vicenda deve essere inserita nella realtà degli epocali cambiamenti che erano in divenire. Il bello è che il bailamme scoppiò parecchio tempo dopo la fine di quella storica partita. «Commentai io la gara», ricorda Cawood Ledford, leggendaria voce radiofonica del basket di UK (quindi non al di sopra di ogni sospetto, nda), «e in tutte le conferenze stampa e interviste, mai ho sentito una parola sulla questione razziale. Neanche un sussurro. Solo anni dopo, qualcuno tirò fuori che quella era stata una partita densa di significati».

La finale fu bella, ma non bellissima. Texas Western era troppo alta e fisicamente prestante per Kentucky, e in più Haskins fu bravo a battere i Wildcats sul loro stesso terreno: la velocità. Per limitare la rapidità e il ballhandling dei Rupp’s Runts, Haskins decise di abbassare il quintetto: in panca Shed, centro di 2.02, e semaforo verde alle tre guardie Hill (1.77), Artis (1.84) e Worsley (1.67), con l’ala Flournoy (1.94) e il centro Lattin a tenere a bada nel mezzo, nonostante i problemi di falli, Jaracz, il big man (si fa per dire) dei Wildcats.

Altro che Runts, a fare la differenza furono i tre piccoli dei Miners. L’inserimento di Worsley su Conley dava a Kentucky un mismatch di 22 centimetri, e Rupp cadde nella trappola.

Più il Barone ordinava ai suoi di recapitare la palla a Conley sui blocchi, per permettergli di tirare “sopra” Worsley, e meno quei tiri entravano: 4/9 per lui e 27/70 (38.6% contro il 44.9% di TW) per i Wildcats, poco precisi dal campo per via dell’asfissiante difesa guidata da un instancabile furetto come Worsley, in campo per 40’ come le altre due guardie dei Miners. Ma la partita, al solito, fu decisa dalla lunetta: e lì il 28/34 (82.4%) dei Miners pesava più dell’11/13 (84.6%) di UK, fatalmente costretta a spendere falli per impedire agli avversari di “mangiare” minuti sul cronometro.

Dall’altra parte ai 20 punti di Hill, molti dei quali scaturiti dal mortifero “cut-and-go” con cui aggirava o tagliava la difesa avversaria, si aggiungevano i 16 di Lattin (più 9 rimbalzi) e i 15 di Artis. Nel primo tempo, con i Miners avanti 10-9, Hill rubò palla a metà campo a Kron e filò tutto solo in contropiede per segnare il più comodo dei layup. La giocata successiva, idem: Hill rubò ancora palla, stavolta a Dampier che a metà campo aveva provato a girargli intorno, e segnò in fotocopia. «Vorrei tanto poter dimenticare quelle due palle perse», dirà trent’anni più tardi Dampier. «Sulla mia, mi piacerebbe dire che [Hill] mi ha fatto fallo, ma non l’ha fatto. Stavo per cambiare direzione mentre palleggiavo con la sinistra… e all’improvviso [la palla] non c’era più. Non potrò mai dimenticarlo, anche perché a casa nostra, mia moglie ne ha appesa sulla parete una riproduzione di 20 cm per 25».

Anche secondo Rupp quei fatali dieci secondi con i due recuperi di Hill trasformati in quattro comodi punti da sotto «furono la svolta della partita», che TW cominciò a comandare a 9’40” dall’intervallo con un libero di Shed, per poi non farsi riprendere più.

Quando Lattin infilò un paio di liberi a quattro minuti dalla prima sirena, i Miners erano avanti di otto e all’intervallo conducevano 34-31. Il massimo vantaggio, 68-57, arrivò su due liberi di Cagers. Kentucky si riportò fino al -1 dopo tre minuti e mezzo del secondo tempo, poi i Miners si ripresero. Artis e Hill segnarono 6 punti consecutivi. Il margine era cresciuto a 9 punti e rimase saldo abbastanza per permettere ai fantasiosi palleggiatori di Haskins di rallentare il gioco negli ultimi tre minuti.

Per tutta la stagione UK era riuscita a venire a capo di squadre ben più alte e più grosse, ma i texani, che già avevano superato squadroni pieni di rednecks (i colli rossi, perché bruciati dal sole, nda) come Cincinnati e Kansas, non si erano fatti prendere dal panico e così, proprio nella gara più importante, i Wildcats non riuscirono a ripetersi. Pur avendo segnato solo due punti in sei minuti, prima che il suo apporto venisse limitato da una distorsione al ginocchio sinistro, Flournoy finì in copertina su Sports Illustrated nell’atto di arpionare uno dei suoi due rimbalzi, strappato all’All-America Pat Riley. Una foto-simbolo, per tanti motivi.

Prima della gara, nello spogliatoio Rupp chiese ai suoi: «Chi è il capitano stasera?» Conley rispose che l’onorre sarebbe toccato a Riley, che il giorno dopo avrebbe festeggiato il 22° compleanno. Pronta la replica del Barone: «Bene, allora facciamogli un regalo». Dall’altra parte però, avevano idee diverse e stimoli maggiori.

«Kentucky giocava al più per un orologio commemorativo e per il titolo di campioni nazionali», ricorda Flournoy, 8.3 punti e 10.7 rimbalzi di media in stagione e uno dei più “motivati”. «Noi scendevamo in campo per dimostrare che non contava di che colore fosse la pelle di una persona». Flournoy aveva già sperimentato sul campo il razzismo ai tempi della Emerson High, liceo a prevalenza bianca che aveva frequentato a Gary, non proprio un paradiso. «I migliori giocatori della squadra erano neri, ma c’era la norma non scritta di non schierare più di tre neri per volta. Non era una bella situazione, ma è così che allora andavano le cose».

Che quella sera sarebbero andate diversamente lo si capì dal secondo possesso dei Miners, quando proprio Riley si vide schiacciare in faccia da Lattin, che accompagnò l’esuberante gesto atletico con un perentorio «Take that, you honky ...», liberamente traducibile dallo slang afroamericano (derivante da “hunky” o “hunk”, ungherese e, per estensione, bianco di origine slava o dell’Europa centrale – ndr) con il più edulcorato “beccati questo, brutto bianco di…” con quel che di poco simpatico segue.

Ma nel 1989, a precisa domanda se alla Cole Field House si fosse giocato qualcosa di più di una semplice finale NCAA, Lattin negava: «Naaa. È successo e basta che noi avessimo cinque titolari neri e Kentucky cinque titolari bianchi. Non ci furono insulti razziali tra noi, in campo. Non abbiamo mai sentito Riley, Dampier, quei grandi giocatori di Kentucky, dire una parola. Siamo scesi in campo solo per affrontare una grande squadra».

Anche Hill la pensava così, ma con un particolare in più: «Per noi, era solo una partita. Eravamo là per giocare. Per molti altri, si trattava di neri contro bianchi. Quella partita cambiò un sacco di cose: cinque neri contro cinque bianchi, in diretta tv nazionale, per soldi. Ed era negli anni Sessanta». E il timore dei media sportivi nel trattare la delicata questione razziale può spiegare, almeno in parte, il silenzio tenuto all’epoca.

L’ultima volta che KU si riportò sotto fu a 12’ e 26” dalla fine, quando sul 46-45 Texas i Wildcats ebbero per tre volte il tiro del sorpasso ma fallirono. Nell’ultimo minuto, con i texani ormai sicuri della vittoria, i tifosi dei Miners si scatenarono nei cori di «We’re No. 1». E lasciavano l’arena intonando «We won this one for L.B.J», con chiaro riferimento era per l’allora presidente degli Stati Uniti, Lyndon Baines Johnson, texano doc (di Stonewall), primo uomo del Sud a capo della Casa Bianca dopo la guerra di secessione. Quello della Grande società, della legge sui diritti civili (Civil Rights Act, luglio 1964) e dell’Economic Opportunity Act, meglio noto come legge contro la povertà (agosto 1964). Quello secondo cui «il problema dei neri è un problema di tutti gli Stati Uniti. Un problema da risolvere insieme». E per farlo ci avrebbe messo del suo.



La marcia di Selma
L’anno prima, poco dopo aver ricevuto il premio Nobel per la pace, Martin Luther King aveva dato il via, in Alabama, alla celebre Marcia di protesta che da Selma doveva terminare a Montgomery. La piccola cittadina della Black Belt (la cintura nera del paese) era stata scelta per via del numero di neri iscritti nelle liste elettorali esageratamente basso rispetto quello dei residenti di colore in età di voto.

Durante la marcia, ci furono molti feriti e l’11 marzo il reverendo James Reeb fu assassinato. King era tormentato dal dubbio se proseguire o no la protesta e fu il discorso pronunciato il 15 da Johnson a sbloccare la situazione. Egli condannò i fatti di Selma e annunciò al Congresso la proposta di legge che avrebbe dovuto abbattere le barriere all’esercizio del diritto di voto.

Il Voting Act fu approvato il 6 agosto: abolì le tasse elettorali, i test di alfabetizzazione e gli altri stratagemmi escogitati dai segregazionisti. E fu autorizzata la richiesta dell’intervento diretto del governo federale qualora la registrazione al voto fosse stata ingiustamente ostacolata.

Problemi che certo non si poneva il 36enne Haskins a un passo dalla gara della vita. «Non ci ho mai pensato – ha ripetuto fino alla noia – ma dopo che vincemmo il titolo con cinque ragazzi neri, tutti ne fecero un caso nazionale. Ma la verità è che giochi coi cinque più forti che hai». Era vero, come lo era che di lì a poco anche le maggiori università del Sud, Kentucky e Rupp compresi (dal 1969, con Tom Payne), avrebbero iniziato a reclutare giocatori afroamericani. Lì per lì però il successo dei Miners non andò giù a parecchi.

Al ritorno in Texas, Haskins trovò la cassetta della posta insolitamente piena. In poco tempo l’avrebbero invasa da circa 40 mila “hate mail” (altre fonti, propagate anche via-etere, parlano di una cifra dieci volte superiore ma sembra esagerata, nda), lettere di odio, naturalmente in massima parte anonime e piene di insulti, minacce (almeno una dozzina quelle di morte) e affini. Sorpresa delle sorprese, molte provenienti non solo dal Sud né solo da bianchi: tante erano di afroamericani che accusavano “the Bear”, l’Orso (per via del suo corpaccione e del carattere scorbutico), di black exploitation, cioè di sfruttare i grandi atleti neri prima che l’emarginazione socio-razziale li rispedisse là dove erano stati reclutati. Nel ghetto.

Nel 1968, in uno dei più famosi articoli mai apparsi su Sports Illustrated, Jack Olsen scrisse un infuocato pezzo che conteneva clamorose rivelazioni su come funzionava, nei college di tutta l’America, il reclutamento degli atleti neri. Guarda caso uno dei primi a essere travolti dallo scandalo fu il programma di Texas Western, che, detto per inciso, proseguirà nella poco edificante tradizione fino a tutti gli anni Novanta.

«C’è stato un momento – dirà più volte l’amareggiato coach, stufo delle speculazioni quanto delle domande su quella partita – in cui quasi ho desiderato che non avessimo vinto, che fossimo arrivati secondi». Nel 1997, quando fu eletto nella Hall of Fame, Haskins fu intervistato da Frank Fitzpatrick, giornalista che all’impresa di TW del 1966 ha dedicato un libro, And the Walls Came Tumbling Down. «Sarò sincero con lei», gli disse un po’ spazientito Hawkins, «Sono stufo di parlare di quella maledetta cosa. A volte vorrei tanto che avessimo chiuso secondi».

Il primo a non credere alle proprie parole è probabilmente il vecchio Orso, anche perché quella vittoria, secondo il suo ex giocatore Hill, «aprì [ai neri] le porte della ACC, della SEC… Tutti iniziarono a reclutarli». E Lattin è convinto che anche grazie ad essa «molti ragazzi neri poterono frequentare college a maggioranza bianca e avere un’istruzione migliore. Fu un punto di svolta per la questione razziale, e tanti di quei ragazzi ottennero borse di studio non solo nel basket, ma anche nel football e nel baseball».

Sulla scia di quella storica partita e del cambio di rotta dei Wildcats del Barone, in tutto il Sud i maggiori programmi cestistici contravvennero alle loro assurde norme non scritte, reclutando atleti neri.

Un altro muro era caduto, grazie anche a un manipolo di misconosciuti ragazzi delle metropoli del nord-est che giocavano per un esigente coach di una piccola università del Texas dell’ovest. Per quanto importante possa essere stata la gara del 1966 però, c’è un’altra data che non va dimenticata.

Nel 1974 anche coach Charles Martin Newton di University of Alabama impiegò cinque titolari neri, solo che lo fece nel maggiore ateneo di uno Stato il cui governatore una volta disse: «Segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre». Quella sì fu una rivoluzione.

Il 2 febbraio 2005 Shed ha ricevuto a New York il 19° Black History Maker’s Award, onorificenza riservata a chi «ha lasciato una duratura impronta in vari aspetti della vita locale o nazionale, e la cui attività sia meritevole di emulazione» titoli evidentemente acquisiti per aver partecipato alla partita che, secondo le Associated Black Charities, «ha cambiato lo sport americano».

Shed, oggi student program coordinator per University of Texas at San Antonio, durante la cerimonia ha detto che «il bello di quella partita è che fu giocata con carattere. La stampa e la gente l’hanno trasformata in neri contro bianchi, ma noi eravamo solo dieci atleti che calcavano lo stesso parquet per giocare uno sport che amavamo molto».

Shed e gli ex compagni Cager, Flournoy, Hill e Worsley sono stati eletti nella National Black Sports and Entertainment Hall of Fame, onorificenza già toccata in passato al musicista Ray Charles e all’attore Sydney Poitier e che però lascia l’amaro in bocca: se ancora esiste una Hall of Fame non integrata, significa che per la lunga marcia cominciata nel 1966 – celebrata da discussi speciali di CBS e ESPN e da due film, Skin Game e Glory Road (declinato da Ben Affleck e con uno strepitoso Josh Lucas nei panni di Don Haskins) – il traguardo è ancora lontano. Save The Last Chance
CHRISTIAN GIORDANO



IL ROSTER DEI MINERS 1965-66

N.
Giocatore
Ruolo
Statura
Classe
Città
21/52
Jerry Armstrong
F
1.92
Sr.
Eagleville, MO
20/23
Orsten Artis
G
1.84
Sr.
Gary, IN
22/54
Louis Baudoin
F
1.99
Jr.
Albuquerque, NM
10/11
Willie Cager
F
1.94
So.
New York City, NY
44
Harry Flournoy
F
1.94
Sr.
Gary, IN
14
Bobby Joe Hill
G
1.77
Jr.
Detroit, MI
42/43
David Lattin
C
1.97
So.
Houston, TX
31/40
Dick Myers
F
1.92
Jr.
Peabody, KS
15
Dave Palacio
G
1.87
So.
El Paso, TX
25/30
Togo Railey
G
1.82
Jr.
El Paso, TX
32/33
Nevil Shed
C
2.02
Jr.
New York City, NY
24
Willie Worsley
G
1.66
So.
New York City, NY

In grassetto i giocatori più impiegati.

STAFF TECNICO:
Head coach:             Don Haskins
Assistant coach:      Moe Iba

LEGENDA:
G = guardia; F = forward (ala); C = centro;
So. = sophomore; Jr. = junior; Sr. = senior


 

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