FOOTBALL PORTRAITS - Neeskens, l'altro Johan (2014)



di CHRISTIAN GIORDANO
Federico Buffa Racconta - Storie Mondiali (Sky Sport, 2014)

El Segundo. Non siamo nella Contea di Los Angeles, California, anche se in questa storia negli States ci torneremo eccome, ma sulla costa est.

Johan Segundo, Johan secondo, come lo chiamavano ai tempi del Barcellona, al secolo è Johannes Jacobus Neeskens. Per tutti Johan, per sempre l’altro Johan.

Il compagno di merende, più in campo che fuori, meno prediletto dagli dei.

Se l’Olanda del 1974 era una rockband, allora Johan Cruijff era il quinto Beatle, Willem (Wim) van Hanegem era Van (non Jim) Morrison, Robbie Rensenbrink era Jimi Hendrix e Ruud Krol, be’, lui era Mr. Sinatra in persona.

E Johan Neeskens, o Johan II, come inevitabilmente sarà per tutta la vita? Be’, lui, era Marc Bolan. O magari Jeff Buckley. Passionale, angelicamente bello, un fuorilclasse totale (è il caso di dirlo), quasi vergognandosi di esserlo.

Il calcio olandese, storicamente, è da sempre zeppo di talenti. In cima all’Olimpo, Cruijff, “Einstein in campo” o “Pitagora in scarpette” a seconda degli aedi. Un gradino sotto di lui, se dio Marco van Basten ci perdona, c’è stato Der Kromme (il Gobbo) van Hanegem, forse il secondo migliore di sempre a vestirsi di oranje (in olandese, non “orange” all’inglese). Ma la lista dei semidei olandesi fermatisi un gradino giù dall’Olimpo è come il sorriso ciottiano di Maria Teresa Ruta, non conosce confini: Piet Keizer, Coen Moulijn, Ruud Gullit, Frank Rijkaard, Dennis Bergkamp, Frank de Boer.

L’elenco dei più popolari, invece, ha tutt’altre gerarchie. Fra i più amati, indiscutibilmente, c’è Neeskens. Le ragazze adoravano lui, Johnny “il Bello” Rep e Krol per il look, i capelli lunghi da star e quegli occhi languidi da sciupafemmine del Nord; gli uomini per la grinta in campo. Non mollava mai. Sempre lì a lottare e a buttarsi (in ogni senso), duro nei tackle e instancabile nel correre a tutto campo. Mentalità vincente, polmoni e gambe. Ma soprattutto cuore. Tanto, qualche volta troppo. Un attimo prima negava un gol nella sua area, pochi istanti dopo andava a segnare al volo o in tuffo di testa in quella avversaria.

E poi aveva l’aria, le stimmate del martire. Spesso il sangue sulla maglia, sempre pronto a rischiare qualche arto, se non la vita, e mai restando a terra più del necessario. E certo non era tipo da star lì a chieder cartellini. Semmai, si faceva giustizia da sé.

Come nel 2-0 al Brasile a Germania Ovest 1974 (suo il meraviglioso vantaggio al volo, su di lui l’espulsione del frustratissimo Luis Pereira), forse il match (alla lettera) mondiale più duro di sempre assieme a Brasile-Ungheria 4-2 di Svizzera 1954, quella della bottigliata di Puskás in testa a Pinheiro. O contro Daniel Passarella, nella finale a Baires 1978: pronti via e – bum – sverniciata col gomito da finisseur fiammingo alle Classiche del Nord, e bye bye a quattro denti. «Un giorno mi vendicherò». Progetto, sin qui, rimasto tale.

Sempre stato uno che sapeva prenderle, Johan II. Ma soprattutto darle. Per referenze chiedere alla stella belga Paul Van Himst, che oltre al cameo in “Fuga per la vittoria” una discreta carriera l’ha fatta, e non da attore. In Belgio-Olanda 0-0 del 19 novembre 1972, match delle qualificazioni mondiali, il feroce trattamento che Neeskens gli riservò sollevò un polverone. E tra vicini si sfiorò l’incidente diplomatico.

Calcio? Ma quale calcio, a lui e a Johan piacevano la ginnastica e il baseball, e specie nel secondo riusciva pure. Come Cruijff: pitcher Johan I, battitore Johan II, che a 17 anni fu il miglior batsman agli Europei giovanili di Roma. Il tutto tra i ritagli di tempo fra un lavoretto e l’altro come calzolaio o commesso da un fioraio.

Nato a Heemstede (vicino Haarlem) Johan col batti e corri flirta sin da piccolino. A nove anni. Un giorno, però, un rabdomante di campioncini nota in palestra una Pietà di Michelangelo a due, massimo tre scalpellate di grezzo in eccesso dal capolavoro compiuto. Agli attrezzi, evoluiva una struttura atletica sin troppo sviluppata per un 14enne. Il rabdomante lo avvicinò e gli chiede se per caso gli sarebbe piaciuto far parte della squadra Allievi dell’RCH (Racing Club Heemstede) Heemstede, club dilettantistico locale che all’epoca era nella seconda divisione olandese. Di calcio.

Nel 1968, a 17 anni ancora da compiere, è in prima squadra. Due anni dopo, Rinus Michels lo chiama all’Ajax. La dritta, al generale, era arrivata da un altro ex giocatore (e poi allenatore) dell’Ajax, Arie van Eijden, che all’Heemstede era andato a chiudere la carriera. E al suo vecchio club aveva subito segnalato quel ragazzone timido e introverso che, a suo dire, avrebbe fatto strada.

Quel 17enne dal fisicone e con falcata da quattrocentista, nell’RCH giocavaterzino sinistro o difensore centrale. Rinus Michels invece lo vede prima terzino destro, poi mediano a tutto campo. Un sogno, per uno cresciuto nel mito di Nobby Stiles, feroce mastino sdentato che guardava le spalle a Bobby Charlton nell’Inghilterra campione del mondo nel 1966 e nel Manchester United campione d’Europa due anni dopo.

Nel ruolo, solo il miglior Marco Tardelli poteva rivaleggiare a quei livelli, ma l’olandese aveva addirittura più classe. Con Cruijff, invece, non sempre la vedeva allo stesso modo, ma in campo il sodalizio sgorgava automatico, spontaneo, naturale come i soffioni di Larderello.

All’Ajax arriva nell’estate 1970, l’anno dopo la prima finale di Coppa dei Campioni del club, persa 4-1 a Madrid contro un Milan pieno di volponi. Neeskens firma un biennale, e il primo anno lo passa nella squadra riserve. Arrivato in prima squadra, per lui erano tutti “meneer”, signore: meneerCruijff, meneer Swart (il veterano), meneer Keizer (cronologicamente, il primo professionista del calcio olandese, subito dopo verrà Cruijff).

La svolta arriva in un normale allenamento al Drentse Hooghalen. Michels ordina una partitella quattro contro quattro: sette titolari più l’ultimo arrivato. Sul 2-2, il libero e capitano, lo slavo Velibor Vasović, viene piallato dal pivellino con un tackle durtissimo. “Vasco” devono tenerlo in tre, ma capiscono tutti che Nees non solo è già nel gruppo, ma che sarà titolare.

L’11 novembre 1970 debutta in nazionale: Germania Est-Olanda 1-0. Il 2 giugno, 2-0 al Panathinaikos a Wembley, alza la prima Coppa dei Campioni degli ajacidi. Please, non chiamateli “lancieri”: ad Amsterdam non vi capirebbero e suscitereste ironici sorrisini.

In pochi mesi la vita di Johan II cambia. «Vivevo con tutta la famiglia in una casa molto piccola, otto persone in tre camere. Io dormivo col mio fratellino, con me c’erano mio fratello maggiore, la moglie e il loro figlio piccolo. Sjaak Swart (l’ex capitano e storica ala destra, nda) si offrì di ospitarmi a casa sua nella vigilia delle partite. Finalmente la notte potevo dormire».

Partito Cruijff alla volta di Barcellona, nell’estate 1973, George Knobel, il successore di Stefan Kovacs, lo reinventa trequartista-attaccante: 15 gol in 31 partite. Numeri impressionanti persino per un attaccante di ruolo, e invece ripagati col mobbing dopo che lui, con la consueta schiettezza, aveva comunicato al club la propria volontà di andarsene alla scadenza del contratto (1976).

Come succede spesso ad altre latitudini, cercano di farlo passare per traditore. Con lui però il vecchio trucco non funziona. Capocannoniere dell’Olanda al Mondiale, raggiunge Cruijff al Barcellona nella stessa estate del 1974, con due anni di anticipo sulla scadenza del contratto con l’Ajax.

“Nees” era un raro esempio di centrocampista completo, dinamico come un mediano che sapeva annullare la mezzapunta avversaria (i suoi scontri con Wim van Hanegem nei De Klassieker fra Ajax e Feyenoord erano epici), rubare palla e istantaneamente trasformarsi in attaccante aggiunto in appoggio al tridente. Quello che gli inglesi chiamano shadow striker, il centravanti-ombra. Come non bastasse, è glaciale dal dischetto. E lo dimostrerà, al secondo minuto, anche in quel maledetto (o, forse, benedetto) 7 luglio a Monaco.

In cinque anni al Barcellona, 53 gol in 219 partite. Vince meno del previsto, ma mette in bacheca la Copa del Rey 1978 e, senza Cruijff (sbarcato, come Fievel, in America), la Coppa delle Coppe 1979.

Quando – complice l’acquisto del danese Allan Simonsen, pallone d’oro 1977, dal Borussia Mönchengladbach – il presidente Josep Lluís Núñez, nemico storico del Cruijff giocatore e allenatore, cede Neeskens ai New York Cosmos della NASL, la prima lega professionistica nordamericana, i tifosi culé sono in rivolta. Con i bianchi di Chinaglia, Pelé e Beckenbauer resta sei stagioni e vince l’undicesimo e ultimo titolo della sua carriera.

Già alla frutta in Spagna, tra improvvisi cali di forma e tanti problemi fuori del campo. Su tutti il lancinante divorzio dalla prima moglie Marianne Schiphof, sposata nella sua Heemstede il 16 luglio 1974. Nove giorni dopo la finale mondiale di Monaco.

Rientrato in Olanda nel febbraio 1985, quasi undici anni dopo la sua ultima gara con l’Ajax, gioca sette partite nel Groningen poi torna subito negli States per gli ultimi scampoli con il Fort Lauderdale Sun, il calcetto (il calcetto! Uno con quel passo…) con i Kansas City Comets.

In Svizzera, tra le montagne e il lago di Lucerna, si rifà una vita. Sposa in seconde nozze Marlies, che gli dà due femmine (Tamara e Bianca) e un maschio (Armand) e fino a metà anni 90 si teneva in forma nella vicina Francia, giocando nel Club Variete con Michel Platini, Jean Tigana e Alain Giresse più qualche ex compagno di nazionale.

Nel 1987, a 36 anni, abbandona l’America per la Svizzera, dove si regala un tramonto dorato da giocatore con i dilettanti del Löwenbräu, poi tre anni da player-manager al Baar e, nell’estate 1990, allo Zug. Lì comincia la seconda vita di allenatore vero, e in pieno stile Neeskens: rifiutando il “grande salto” al Grasshopper. Due anni allo Stäfa, poi nel 1996 i dilettanti del Singen. L’accordo viene interrotto dalla chiamata della Federazione olandese che lo vuole vice del Ct della nazionale maggiore Frank Rijkaard prima e Guus Hiddink poi.

Nel 2000, la prima esperienza da capoallenatore in Olanda, e porta il NEC Nijmegen – per la prima volta in vent’anni – in Coppa UEFA. In linea col personaggio, rifiuta – si dice – le panchine di Barcellona e Schalke 04 “per portare a termine il lavoro iniziato con la qualificazione UEFA”. L’anno dopo, lo esonerano. Ancora una stagione ed è Guus Hiddink a richiamarlo, come assistente della Nazionale australiana per i Mondiali del 2006. Un altro mondiale tedesco, 32 anni dopo Monaco.

Sulla panchina del Barcellona poi ci si siede davvero, ancora come vice di Rijkaard. Poi, come vice Dennis Bergkamp, allena l’Olanda B. Tra i convocati c’è l’attaccante Ricky van Wolfswinkel, futuro fidanzato della figlia Bianca, avuta dalla seconda moglie. Neeskens sarà decisivo nel convincerlo a lasciare lo Sporting Lisbona per andare a giocare in Premier League, al Norwich City. Il bello della storia però è che prima di mettersi con Bianca, e di avere il suocero come vice in nazionale, non sapeva niente della carriera di Johan giocatore e tantomeno che Bianca fosse la figlia. Oggi, “The Wolf” è testimonial della Johan Neeskens Foundation. Tipica Neeskens story, se ne esiste una.
Dal 1º luglio 2009 al 20 ottobre 2010 è per la terza volta vice di Rijkaard, al Galatasaray. Ultimo domicilio conosciuto, i Mamelodi Sundowns di Pretoria, Sudafrica. Dove è stato esonerato a fine 2012, dopo una violenta contestazione. Nelle immagini, umilianti più per la forma che per la sostanza della contestazione, lo si vede difendersi coprendosi con le mani la testa, protetto dalla security. In pieno stile-Nees, i tifosi lo avevano aggredito a colpi di vuvuzelas. E non stiamo scherzando. Come non scherzavano, purtroppo, due futuri papà suoi grandi ammiratori che chiameranno così gli eredi: Neeskens Kebano del Paris Saint-Germain e John Neeskens Ramirez del Villarreal. Ah, non sono parenti.
CHRISTIAN GIORDANO
Federico Buffa Racconta - Storie Mondiali (Sky Sport, 2014)



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