Francesco Moser, un asso in bicicletta

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Nato a Palù di Giovo (Trento) il 19 giugno 1951. Passista. Professionista dal 1973 al 1988, con 272 vittorie. 

Il primo dato che balza agli occhi parlando di Francesco Moser, ci viene dalla corposità del suo palmares: è infatti il corridore italiano più vittorioso della storia del ciclismo. Un altro aspetto, ci giunge dalla sua longevità ai vertici, lunga almeno il 90% di una carriera che presenta sedici anni di permanenza fra i professionisti. Un terzo quadrante, ci mostra un personaggio divenuto così popolare, da far passare quasi per il contrario la sua mancanza maggiore: la tenuta in salita e la conseguente vulnerabilità nelle grandi corse a tappe. Una vasta schiera di tifosi, dunque, che continuava a vederlo come un predestinato per quelle gare, quando al massimo poteva vincerle, come in effetti s’è verificato, per la congiunzione di determinati straordinari fattori. 

Dal punto di vista tecnico, un passista formidabile, che diventava veloce per l’eccelsa potenza che possedeva, ed una musicalità nel ritmo che sgorgava a fiotti dai suoi centri nervosi. Certo, pericoloso in volata, per le sue poderose progressioni, in grado di annichilire chiunque. In salita era solo discreto, ma recuperava una gran parte di questa sua lacuna, con una bravura in discesa che, relativamente alla sua epoca, non conosceva rivali similari. Sul piano mentale aggiungeva una qualità alle consorelle fisiche: una generosa ed infinita combattività. Grazie a tutto questo, s’è eletto icona del nostro ciclismo negli ultimi otto lustri e chi batteva Francesco Moser se l’era comunque guadagnata. Nel suo palmares, ci sono quasi tutte le più grandi classiche del calendario nazionale e internazionale (alcune vinte più volte) e, parzialmente o totalmente le maglie più prestigiose del grande romanzo ciclistico, anche se, ripeto, considerare Francesco un corridore da corse a tappe, significa avere qualche appannamento alla vista. 

Nato in una famiglia di ciclisti (tre dei suoi undici fratelli, Aldo, Enzo e Diego, sono stati professionisti), lasciò la scuola a tredici anni, per lavorare nei campi. Incredibilmente, si dedicò al ciclismo quando altri già smettono, a 18 anni! Da dilettante fu bravo, ma non eccelso, sprecone e spesso protagonista di azioni fuori tempo, ma l’aver iniziato tardi, lo aiutò a capire se stesso, quando realmente il ciclismo conta. Ciononostante, fu un “puro” di peso, che per correre a certi livelli, non esitò a trasferirsi in Toscana, nella Bottegone, di fatto la sua vera ed unica società culla. Azzurro e olimpico a Monaco ’72, decise di fare il salto fra i prof, nella stagione successiva. Il suo debutto non fu quello che fa girare le orbite: solo due successi nel ’73, ma uno dei due era la tappa di Firenze al Giro d’Italia (chiuso al 15° posto). L’anno successivo però, era già una stella del ciclismo azzurro, grazie ad una serie notevole di successi in classiche nazionali, ed una chicca internazionale come la Parigi.-Tours. Nel 1975, la dimensione mondiale di “Checco”, come veniva solitamente chiamato, pur continuando a mietere successi di spessore in Italia, arricchiti dalla conquista della maglia tricolore a Pescara, assunse altri caratteri, grazie alla partecipazione al Tour (la sua unica Grande Boucle, una pecca del suo curriculum). Vinse il prologo di Charleroi, nonché la tappa di Angoulem, indossando quella maglia gialla che seppe tenere per sette giorni. 

Gli attacchi di Moser nella prima fase del Tour, finirono per far perdere la Grande Boucle a Eddy Merckx. Il belga infatti, preso dall’ingordigia, provò ad essere quello degli anni precedenti e finì per sprecare energie basilari, inseguendo e duellando col non pronosticabile trentino, pagandone poi le conseguenze, al cospetto di Thevenet, in montagna. Francesco, chiuse quel Tour al settimo posto e diventò popolare in una terra che ama come nessuna la propria corsa per eccellenza. Ma la sete di successo di Checco, non si affievolì con la “campagna francese”. In Italia fece sua la classica delle “foglie morte”: il Giro di Lombardia. Nel 1976, fra l’ormai costante di una miriade di corse vinte, Moser s’inchinò al solo Maertens ai mondiali di Ostuni, ma l’iride sfumato su strada, lo conquistò su pista, nell’inseguimento, superando gli specialisti, ed in particolare il favorito Schuiten. 

Anche nel 1977, il suo ruolino fu di valore e fra le numerose vittorie, aggiunse un paio di classiche alla sua collezione: la Freccia Vallone e il Campionato di Zurigo. Il secondo posto ad un Giro d’Italia, già troppo piatto per essere appunto un Giro – in quel periodo alla Gazzetta facevano di tutto per favorirlo sui percorsi – iniziò a confondere il pubblico sulle sue valenze nelle grandi corse a tappe, ed illuse pure lui. Ma le sue gare non erano quelle, ed infatti, dopo le due classiche di primavera, conquistò in estate il titolo mondiale, superando nello sprint a due, il tedesco Dietrich Thurau.

Con la maglia iridata addosso, iniziò nel 1978 il suo personale innamoramento con la Parigi Rioubaix, vinta alla grande e con fare da autentico fuoriclasse. Ai mondiali di Adenau però, sul difficile Nurburgring, Francesco visse una cocente delusione, perdendo la volata a due, col non irresistibile occhialuto olandese Gerrie Knetemann. 

Per tre anni di seguito dunque, il trentino si era presentato sul traguardo con la concreta possibilità di giocarsi l’iride, ma solo in un’occasione riuscì a vincere. Di certo, avrebbe lasciato almeno l’80% delle sue 39 vittorie di quell’anno, pur di vincere una seconda maglia iridata. In autunno si consolò alla grande, rivincendo il Giro di Lombardia. 

Col 1979 esplose la rivalità con Giuseppe Saronni, l’enfant prodige lombardo che, nel solito Giro d’Italia piatto come il “Tavoliere della Puglia”, lo relegò al secondo posto. Ma il ’79 di Francesco, fu ugualmente stellare. Fra le solite innumerevoli vittorie, rivinse la Parigi Roubaix e vi aggiunse come damigella un’altra grande classica, la Gand Wevelgem. 

La nuova decade si aprì per Francesco nei modi più eccellenti: vinse infatti la sua terza Parigi Roubaix consecutiva, conquistando un record riuscito solo al francese Octave Lapize negli anni trenta. 

Intanto, nelle corse a tappe, cominciò ad imperversare un francese che le vinceva con costanza e silenzio: Bernard Hinault. La sua presenza, rese impossibile per Francesco una concreta speranza di vestire la maglia rosa fino alla fine. Intanto, la rivalità con Saronni, ed un palmares che si stava facendo straordinariamente corposo, posero Moser nelle condizioni di reggere, come realistico, il nomignolo che il gruppo gli diede: lo “Sceriffo”. I maligni, cominciarono a sostenere che in Italia il trentino governava le corse, magari in accordo col “nemico” lombardo, portando scompiglio al normale corso dei valori in campo. Vere o non vere queste considerazioni, quel dualismo così pompato dai media, alcune vittime le fece: gli altri più forti del ciclismo nazionale, che commisero l’errore di stare in Italia a fare i paggetti di corte, senza cercare all’estero, soprattutto al Tour, quella notorietà che magari meritavano. Due nomi su tutti: Gian Battista Baronchelli e Roberto Visentini. 

Con l’arrivo del 1981, coincidente coi trenta anni, Moser iniziò una “lenta flessione vincente”, eufemismo per dire che iniziò a vincere ….un poco di meno. 

Ciononostante, le solite classiche nazionali continuarono a finire nel suo palmarès. Idem l’anno successivo. Nel 1983, il calo apparve però più evidente, ma in soccorso al trentino, arrivò un uomo con la barba, docente dell’Università di Ferrara, scienziato e sportivo, col medesimo nome: il professor Francesco Conconi. Per Moser fu un rilanciò che poté dipanarsi, da subito, su un vecchio obiettivo rimasto in canna: il record dell’Ora. 

Nel gennaio del 1984, Checco partì per il Messico con l'idea di tentare in altura il primato del mondo che apparteneva, ormai da dodici anni, ad Eddy Merckx. Per mesi si era preparato con Conconi e con un’equipe che s’allargava anche allo studio della morfologia del mezzo bicicletta. Sul velodromo messicano, si presentò in forma inaspettata e con uno strumento rivoluzionario per contenuti biomeccanici e con ruote lenticolari. Guardare il trentino girare sull’anello, diede per la prima volta l’impressione che un uomo in bicicletta, potesse accostarsi alla proiezione fantasiosa di un alieno. La risposta: Francesco stabilì il nuovo limite mondiale, portandolo a 50,080 km! 

Quattro giorni dopo, ripeté l'impresa, superandosi di oltre un chilometro: 51,151km!

La settimana messicana aveva stravolto le concezioni del ciclismo, apportando una rivoluzione scientifica e tecnica a questa disciplina. Concentrate su quel record, si muovevano innovazioni nell'alimentazione del ciclista, nelle sue pratiche di allenamento, nell'abbigliamento (con una speciale tuta e il casco aerodinamico), nelle tecniche di costruzione delle biciclette, perlomeno di quelle più proiettate alla velocità, ideate in galleria del vento e dotate, appunto, di ruote lenticolari. 
Tornato in Italia, Francesco si schierò, dando spettacolo, alla Sei Giorni di Milano e senza un allenamento specifico con tanto di gare su strada, partì nella “Sanremo”. Risultato: una incredibile e formidabile vittoria. Anche l’altra grande classica italiana, era dunque finita nel suo palmares. Al Giro d’Italia, non si presentò Hinault, ma colui che aveva vinto l’ultimo Tour, il parigino col portamento e gli occhialini di uno stereotipo di intellettuale: Laurent Fignon. 

Il solito ridicolo percorso sfavorì il francesino, ma non era certo per lui che era stato disegnato quel Giro. Moser diede vita ad una lotta accanita col transalpino, il quale approfittò dell’unico cucuzzolo della manifestazione, per sfilare la maglia rosa all’italiano, proprio a due giorni dalla fine. Restava l’ultima tappa a cronometro, da Soave a Verona, e qui, la nuova strumentazione tecnica, giocò un ruolo decisivo in favore di Francesco. A 33 anni vinse così, finalmente, il Giro d’Italia. 

Il grande successo raggiunto, non frenò il trentino, che continuò a vincere in lungo ed in largo come negli anni migliori. Anche nel 1985 si vide un Moser incredibile ed inaspettato, al punto di impegnare Bernard Hinault fino all’ultima tappa della corsa rosa e di rivincere corse di grande spessore. Idem nel 1986. Solo nel 1987 si rivide quella flessione che Checco aveva già provato oltre un lustro prima. Il tempo scorreva anche per lui e nel 1988, come nelle sue intenzioni, chiuse con l’agonismo, ma non con la bicicletta ed i suoi indotti, sia come produttore, sia come amatore. Divenne commentatore televisivo e cominciò ad assumere incarichi persino in politica. 

Dieci anni dopo il suo primo tentativo sull’Ora, alla veneranda età di 43 anni, Moser ritornò in Messico per sfidare nuovamente il record, nel frattempo conquistato dal britannico Chris Boardman. Realizzò sui 60 minuti, 51,840 km, circa settecento metri in più del suo primato! Il tentativo rimase isolato e quel ritorno fu solo occasionale. Francesco riprese la sua vita extra-sport, aggiungendo al tutto, compiti nuovi all’interno dell’UCI e dell’Associazione corridori. 

Insomma, Francesco Moser, “un uomo chiamato bicicletta”.

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