Mario Beccia, l'uomo che amava andar sempre in fuga
Tuttobici Numero: 3 Anno: 2003
di Gino Sala
Quando uno dei miei nipoti era bambino, il gioco preferito stava nella carovana ciclistica in miniatura che occupava buona parte della sua stanzetta. Davanti a tutti metteva l'ammiraglia di Vincenzo Torriani. Seguivano i corridori sulle loro bici, le vetture delle varie squadre e la macchina con tanto di targa del nonno giornalista. Erano i tempi di Moser e Saronni, ma il ciclista più citato nelle fantasiose telecronache portava il nome di Mario Beccia. Ricordo di aver chiesto il motivo di questa preferenza e di aver ricevuto una risposta abbastanza convincente: «Beccia perché è bravo in salita e perché attacca sempre...».
Già, il Beccia nato a Troia (Foggia) il 16 agosto del 1955 e professionista dal'77 all'88, piuttosto basso di statura e di peso, aveva numerosi ammiratori per il suo comportamento di corridore battagliero. Un tipetto effervescente, per così dire, sovente in avanscoperta quando tutte le gare erano notevolmente più lunghe di quelle di oggi, cosa da preferirsi agli attuali ordinamenti che creano situazioni per niente condivise dagli addetti ai lavori.
Purtroppo chi comanda va contro tendenza con un calendario massacrante per il numero delle corse. Non importa se da più parti c'è la richiesta di un minor numero di appuntamenti la cui validità verrebbe costituita da tracciati interessanti e sufficientemente impegnativi per valorizzare i concorrenti. Insomma, si abbia il buonsenso di ridare al ciclismo ciò che si è voluto togliere per la mania di cambiare. Abbiamo un movimento in cui la quantità soffoca la qualità, abbiamo nell'olandese Verbruggen un presidente della UCI che ha stravolto le principali caratteristiche del nostro sport. A tanto si è giunti per l'inerzia dei molti che pur avendo pensieri diversi non combattono a sufficienza. Sarò ripetitivo, ma continuo a sperare in una bella scopa per una bella rivoluzione.
Chiedo scusa per aver divagato e tornando a Beccia lo vedo vincitore già nella stagione dell'esordio, quando ebbe modo di aggiudicarsi a Spoleto una tappa del Giro d'Italia e il Giro dell'Emilia. Nella competizione per la maglia rosa Mariolino vanta altri otto successi parziali e vari piazzamenti finali il migliore dei quali è il quarto posto ottenuto nel 1983 alle spalle di Saronni, Visentini e Fernandez. Dietro a lui Thurau, Lejarreta e Van Impe.
Buon scalatore, ma anche buon passista se esaminiamo le sue quattordici affermazioni tra le quali figurano il Giro della Svizzera, la Freccia Vallone e il Giro dell'Appennino. Tante le prove concluse in seconda e terza posizione, una Milano-Sanremo terminata nella scia di Kelly e LeMond, proprio un Beccia che ha onorato la bandiera, un garibaldino, a mio parere, che avrebbe meritato di più. Molte volte ho visto Mariolino con lo sguardo di un cane bastonato, pardon di un atleta preso di mira dagli avversari. Capita di vincere anche perché il gruppo qualcosa ti concede, perché non c'è un particolare accanimento negli inseguitori e così chi ha osato ha modo di gioire. Purtroppo nessun "regalo" di questo genere ha ricevuto Beccia, a mio parere giudicato dai campioni un rompiscatole, un molestatore e quindi un tipo da mettere a tacere.
Il mio pensiero trova una conferma nelle parole di Dino Zandegù che lo ha guidato per diversi anni. Sentite: «Beccia è stato un pedalatore onesto, meraviglioso, un esempio per tutti. Non accettava compromessi di alcun genere, possedeva il carattere del vero combattente. Sono tante le corse in cui le sue fughe sono terminate a cento metri, anche meno, dall'arrivo. Ancora oggi, quando lo incontro, mi viene spontaneo un abbraccio...».
L'abbraccio è anche mio, caro Beccia. Caro e simpatico guerriero in un'epoca che richiedeva gambe e coraggio per ribellarsi ai voleri dei comandanti.
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