Claudio Gregori - Greg, l'ultimo aedo


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

«Non immaginiamoci i corridori come degli angeli intatti. 
Sono uomini, e da uomini vivono»
- Claudio Gregori

Locanda della Contea
Torre d’Isola (Pavia), mercoledì 28 febbraio 2018

- Claudio Gregori: tu sei l’ultimo aedo di un certo ciclismo, pieno di campioni e di personaggi.

«Io sono un aedo fortunato, perché ho avuto la grande fortuna che Candido Cannavò, direttore della Gazzetta, ha visto in me un giornalista di colore. E facendo il colore, mi sono occupato di tutti gli sport e in particolare del Giro d’Italia. Ne ho fatti ventotto. E quindi attraverso questa lunga esperienza ho conosciuto campioni straordinari e mi sono calato dentro l’epos del ciclismo. Il Giro d’Italia è un po’ un’Iliade. C’è Achille, c’è Ulisse, il furbo, e c’è anche Tersite. Ci sono molti Tersiti, soprattutto in questo periodo che ho fatto io. Basta pensare ai maestri del doping. Però ci sono anche paladini valorosi e, nella storia del Giro ci sono dei paladini assoluti. Per esempio, uno come Bottecchia ha fatto solo un Giro d’Italia, è arrivato soltanto quinto, però è un grande. È un eroe del Giro e poi del Tour. Per capire: Bottecchia ha portato 34 giorni la maglia gialla, Bartali 23, Coppi 19. Questo dà già la misura del personaggio, che oggi è abbastanza dimenticato».

- Hai detto c’è anche il furbo. Se ti dico "Sappada": cosa ti viene in mente? E c’è stato, un furbo?

«Lì c’è stato il golpe. Il titolo della Gazzetta è stato: “Il 'golpe' di Roche”. Visentini aveva stracciato tutti nella cronometro di San Marino. Aveva inflitto a Roche 2’47” cui poi si aggiungevano i 20” di abbuono, quindi oltre tre minuti. E Roche era proprio fuori gioco, distaccato di oltre due minuti e Visentini aveva la maglia rosa. Sembrava ormai una maglia rosa in cassaforte. Poi c’è stata la tappa di Sappada. E in questa tappa, nella discesa dalla Forcella di Monte Rest, Roche è andato all’attacco. Ha seguìto Bagot, il francese, assieme a Salvador, poi Bagot ha forato e Roche ha continuato l’attacco. Noi eravamo esterrefatti perché davanti c’era Roche, della Carrera, che attaccava e dietro c’erano gli altri compagni della Carrera che inseguivano con la maglia rosa Visentini. Era una guerra fratricida. Dopo un’ora il tentativo è finito, però poi Roche ha riprovato. È andato di nuovo all’attacco e stavolta anche con avversari della maglia rosa. C’erano via dodici uomini, anche lì grande inseguimento e anche questo tentativo è fallito. Si è visto a quel punto Visentini che si lasciava andare indietro e parlava concitato con Boifava, il suo direttore sportivo. Roche era davanti con questi dodici, prima e comunque rimaneva sempre davanti. Visentini, adirato, in un impeto d’ira, andava indietro a parlare con Boifava e parlava concitato. Risultato: a dieci chilometri dal traguardo, Visentini è rifluito indietro e Roche invece, davanti. C’era davanti van der Velde primo, che poi è arrivato da solo al traguardo. E con Roche era andato via il suo scudiero, sempre della Carrera, Schepers. E quindi c’era questo attacco alla maglia rosa fatto da due uomini della squadra della maglia rosa: Roche e Schepers. In quei dieci chilometri Visentini è affondato. È arrivato con sei minuti e mezzo al traguardo, fuori della grazia di dio.
Subito all’arrivo ha incominciato a dire: “Ci sarà qualcuno che stasera andrà a casa”. E poi c’è stato un confronto in albergo, sempre a porte chiuse, in cui certamente Visentini ha chiesto la testa di Roche, che aveva conquistato la maglia rosa, di Schepers e anche del meccanico-massaggiatore Valcke. E quindi c’è stata questa frattura all’interno della squadra e c’è stato sicuramente un golpe da parte di Roche. Poi il golpe di Roche è andato a buon fine, Roche ha vinto il Giro e lo ha vinto anche per la Carrera. Visentini si è ritirato. C’è stata questa frattura e per Roche è stato un anno magico. Se analizziamo la carriera di Roche, c’è questo picco in corrispondenza di questo 1987, che è anche un picco sospetto, se la vogliamo dire tutta. Perché il ciclismo era ormai, insieme con altri sport, sotto la regia di Francesco Conconi e dei conconiani.
Nell’80 Franco Carraro, presidente del CONI, aveva fatto una convenzione con Conconi e con l’Università di Ferrara per mettere la ricerca scientifica – così hanno detto – al servizio delle Federazioni, e quindi parecchie federazioni si servivano della scienza di Conconi e dei suoi collaboratori. In realtà si è scoperto presto che questa ricerca scientifica era mirata sul doping e sul migliorare in qualunque modo le prestazioni. Allora: Conconi faceva l’emotrasfusione e poi l’epo. L’emotrasfusione non era vietata, dal punto di vista sportivo, fino agli inizi dell’85. E lui l’aveva fatta prima, a parecchi atleti. Era stata proposta perfino agli atleti dello sci alpino, ai canoisti, sei nuotatori hanno fatto l’emotrasfusione per i Giochi olimpici di Los Angeles 1984. E poi comunque Alberto Cova ha vinto un titolo del mondo e una medaglia d’oro grazie anche, oltre al suo talento, all’emotrasfusione, e l’ha ammesso. Però, da un punto di vista sportivo, l’emotrasfusione, fino ai Giochi di Los Angeles, non era una violazione delle norme sportive. Poiché la squadra statunitense ha avuto dei casi gravi di atleti che sono dovuti finire in ospedale, c’è stato un allarme intorno all’uso di questa emotrasfusione. Otto atleti hanno fatto l’emotrasfusione, tra cui una donna, Rebecca Twigg, e tre di questi sono stati in condizioni gravi. Allora c’è stata una polemica, una messa a fuoco, e il Cio ha deciso di bandire l’emotrasfusione, quindi dall’inizio dell’85 l’emotrasfusione era vietata. Chi la faceva violava le regole sportive».

- Prima intendevi atleti azzurri o comunque azzurrabili?

«Azzurri. Anzi, atleti di primo livello. Ho fatto il nome di Cova che è stato l’atleta milgiore di quel periodo lì. I primi son stati i fondisti, da De Zolt a Fauner, a Manuela Di Centa ad altri. Quindi, in questi anni qua, le super prestazioni vanno viste in quest’ottica. Ci son stati dei corridori che hanno cambiato scala. Se noi guardiamo il 1991, il Giro d’Italia vinto da Chioccioli non era alla sua misura, è stata una prestazione eccezionale. E questo si è visto anche per tanti altri corridori, anche stranieri. E poi, i Nas, cercando hanno anche prodotto delle prove. Ci sono dei valori di ematocrito che sono rivelatori. In un file di Conconi, ci sono per esempio i valori di Marco Pantani: Pantani ha vinto le sue prime tappe nel Giro del ’94 e in quel Giro aveva tre valori di ematocrito fuori norma. Il mese dopo il Giro è salito sul podio al tour e il giorno dopo aveva un ematocrito di 58 mentre il suo ematocrito a gennaio era 41, 42, 43, non era sopra. Quindi c’era stata una manipolazione che aveva a che fare anche con le leggi sportive. Abbiam parlato di Tersite. I Tersite c’erano e sono stati, in quegli anni là, molto importanti nella storia del Giro».

- «Il “golpe” di Roche»: così avete titolato in Gazzetta. La parola golpe però mi fa pensare che ci sia stata una premeditazione. Tu come la interpreti, trentun anni dopo?

«In maniera dubitativa: non ho una verità ma vorrei sottolineare che la sera prima c’era stato un incontro tra Tacchella, il direttore sportivo Boifava e il team manager Belleri per il rinnovo del contratto di Roche, quindi io non leverei dai motivi possibili di questo golpe anche questa parte qua».

- Ma i Tacchella non arrivarono a Sappada la sera stessa?

«La sera prima c’era stata, adesso non ricordo dove, ma non vicino, c’era stato un viaggio in macchina e un meeting per parlare di questo che era un tema che stava a cuore. Poi c’è stato anche questo: Roche da solo con Schepers sarebbe stato vulnerabile, perché c’erano ancora delle tappe di montagna, delle tappe complicate, solo che stranamente ha goduto dell’alleanza di due squadre importanti: la Fagor e la Panasonic. Quindi il discorso è molto complicato».

- Guarda caso, di Millar – che aveva corso con Roche alla Peugeot e sarebbe tornato con lui alla Fagor l’anno dopo – il suo uomo di classifica Breukink si chiede: ma Millar per chi corre?

«Robert Millar era un ottimo scalatore però non era un campione. Era anche uno con problemi, visto che qualche anno dopo un giornalista inglese l’ha scoperto e aveva cambiato nome e sesso. Ma queste son cose che appartengono alla vita, non vogliamo entrarci, però non immaginiamoci i corridori come degli angeli intatti. Sono uomini, e vivono da uomini. Tramano, si battono, si odiano, amano. Non si comportano in maniera prevedibile. Visentini era un cavallo pazzo. Era nettamente più forte di Roche a cronometro, era più forte di Roche anche in montagna, però era più vulnerabile psicologicamente. Nella storia di Visentini ci son degli episodi incredibili. Nel Giro del 1984, sulla salita di Selva di val Gardena, ha fatto un numero incredibile. La situazione era questa. Ormai a pochissimo dalla fine c’era Moser in testa con solo un minuto da Visentini, e Visentini era in lotta per la vittoria. Sulla salita qualche tifoso trentino era lì e spingeva Moser. Visentini invece che scattare e lasciarsi Moser dietro, e avrebbe potuto farlo perché in salita era più forte di Moser, cosa fa? Protesta, si arrabbia, inveisce poi si ferma. E perde dodici minuti. E perde il Giro. Sono comportamenti dove si vede la fragilità di testa. E anche a Sappada c’è stato un cedimento nervoso. Visentini era un campione potenziale, però vulnerabile».

- Tu eri in carovana. E dove ti trovavi quando ci furono quegli attacchi?

«Con la storia dei pezzi di colore, io ero sempre in corsa. Molti giornalisti andavano alla partenza, parlavano con i corridori e poi andavano all’arrivo e lì si preparavano, guardavano la gara alla televisione, sentivano radiocorsa. Io ero proprio dentro. E anzi a quei tempi riuscivamo anche a superare il gruppo e a stare tra i fuggitivi e il gruppo. Quindi l’abbiamo visto Ghirotto che tirava quelli della Carrera per prendere Roche, che era in fuga».

- Come valuti l’atteggiamento di Boifava, preso tra due fuochi: doveva portare a casa la maglia rosa e aveva Quintarelli, il suo vice, davanti, nella prima ammiraglia, su Roche; e lui era dietro, su Visentini in rosa.

«Anche qua devo esprimere un giudizio cauto, nel senso che Boifava certamente non era un duce, un uomo duro. Il problema grosso, e ritorno all’incontro che c’è stato il giorno prima, che input ha avuto dai Tacchella? È questa la domanda. Che cosa gli hanno detto? È chiaro che quel giorno lì Boifava non voleva l’attacco di Roche, infatti si è schierato per Visentini, anche lui l’ha considerato un tradimento, però che autorità poteva avere? Quali erano le decisioni venute fuori da quell’incontro? Non conoscendo questo, non mi sento di dire che Boifava quel giorno è stato un incapace».

- Quanto può aver contato la brescianità? Perché c’era uno zoccolo duro di bresciani in quella Carrera (Boifava, Visentini, Leali, Bontempi) e poi se è vera la storia dell’elicottero dei Tacchella, cui fu impedito di atterrare per la no-fly zone dovuta alla visita di Reagan a Venezia per il G7. Che ricordi hai di quella giornata?

«Non ho seguito io quella giornata, c’era Angelo Zomegnan. Però fu una serata convulsa  una serata piena di segreti. Con dei faccia a faccia violenti e con la ricerca di una soluzione che neanche Tacchella e neanche Boifava possedevano. Quindi una ricerca affannosa in cui c’è statta la presa di posizione di Visentini, e la sua presa di posizione era “Via, a casa!”: Roche e Schepers, ma come poteva il patron della Carrera mandare a casa la maglia rosa? Questo è stato il tema di quella notte agitata e convulsa».

- E i giorni dopo, in carovana?

«I giorni dopo vedevi dalle facce che erano facce provate. Nello stesso Roche non c’era la felicità della maglia rosa, e poi anche la sua prima tappa è stata una tappa cruenta per Roche perché ha ricevuto insulti ma anche sputi, anche – lui ha detto – pugni. Io i pugni non li ho visti».

- E invece hai visto i brandelli di carne che gli tiravano come per dirgli ti facciamo a pezzi? O che gli sputavano vino rosso e riso?

«Io ho visto gli sputi e le palle di giornale. Il disprezzo l’ho visto».

- Mi confermi che correva tenendosi ai fianchi Schepers e Millar e poi una volta giunto all’arrivo subito era scortato dai carabinieri?

«C’era una protezione speciale. Era un ciclismo anche ruspante se la vogliamo dir tutta. Ache il titolo della Gazzetta, Il golpe di Roche, è un titolo che colpevolizza Roche e quindi lo espne alla reazione dei tifosi, che non erano solo i tifosi bresciani di Visentini ma erano anche quei tifosi che sognavano una vittoria italiana. Ricordiamoci che poi alla fine questo Giro è stato una débâcle competa per l’Italia perché nei primi dodici ci sono dieci stranieri. È stato uno dei Giri più scadenti fatti dagli italiani, forse il più scadente».

- C’è stata una colpevole campagna di stampa. Non parliamo soltanto del tuo giornale, però era facile identificare in Roche il traditore e in Visentini il tradito: una visione un po’ semplicistica, no?

«Però è la visione vera. Io non mi sento di dire che il titolo della Gazzetta è sbagliato. È proprio quello che è successo. È un titolo crudo ma che esprime quello che è successo. Io sono stato tra i due gruppi e vedevo Ghirotto in testa che tirava come un treno, con dietro Visentini e gli altri: Cassani, Leali. E davanti c’era Roche, che invece cercava di andare via. Era una situazione surreale».

- Nell’autobiografia Inside The Peloton il figlio di Roche, Nicolas, a sua volta corridore professionista, cita una battuta che in quel Giro circolava in gruppo: Roche cosa ha mangiato? Frittelle, l’unica cosa che passa sotto la porta. Hai avuto sentore di questa sua paura che gli sabotassero il cibo o la bici?

«No, non ho acuto alcun sentore, però al Giro il sabotaggio era praticato».

- Altro esempio: Valcke che diceva di aver trovato una forcella sabotata, che si spezzava a mano…

«La Gazzetta ha scritto questo, e senz’altro è vero. Però io non ho visto questo, quindi non posso dire, però il sabotaggio c’era. Se la vogliamo dir tutta, c’era anche da parte della Inoxpran che poi è diventata la Carrera. Nella tappa finale del Giro dell’83, la tappa che ha deciso il Giro. Con Saronni in maglia rosa, Arrigoni che forniva i cerchi alla Inoxpran ha offerto, mi sembra di ricordare, due milioni di lire a due camerieri dell’hotel dove alloggiava Saronni, perché gli mettessero il lassativo Guttalax nella minestra, con l’obiettivo di fargli perdere il Giro».

- Che idea folle ebbe questo Arrigoni, che poi doveva salvare la maglia rosa per ottenere così una campagna pubblicitaria in cui lo stesso patron della Fir sarebbe apparso come il salvatore della maglia rosa?

«Ma no, quella è la versione che poi gli han dato. Lì c’è stato un chiaro tentativo di far vincere il Giro al secondo, che era Visentini. Però non è stato un episodio così eccezionale nella storia delle grandi corse. Il Tour del 1923, il primo Tour di Bottecchia, in cui è arrivato secondo dietro il suo capitano Henri Pélissier, gli è stato fatto perdere dalla sua squadra, la Automoto, con una borraccia “intelligente”. E infatti nel tappone alpino in cui Bottecchia era, sulla carta, più forte, di Henri Pélissier, Bottecchia ha preso 41’. Al via aveva 29’ di vantaggio sul suo capitano, ma la domanda era questa: i francesi non vincevano il Tour da dodici anni, lo avevano vinto sempre i belgi a parte la pausa per la Grande Guerra, sarebbe stato molto più vantaggioso e molto più bello se quel Tour fosse stato vinto da un francese piuttosto che da un gregario senza nome. Bottecchia era uno sconosciuto. E allora è stata un’operazione fatta proprio dalla sua squadra e in quello stesso Tour Bottecchia è stato buono per un motivo semplice: perché ha avuto un rinnovo del contratto. Lui era andato al tour per i soldi, lo aveva dichiarato, perché voleva cancellare lo spettro della fame per sé e per la sua famiglia, aveva raggiunto l’obiettivo quindi ha taciuto ed è rimasto lì. Ma per esempio, sui Pirenei erano stati fatti fuori due belgi vincitori del Tour, Firmin Lambot nella Bayonne-Luchon, si partiva nel cuore della notte, dopo sei chilometri gli si è rotta la pedivella, l’ha guardata ed era stata segata; Lambot è tornato a piedi a Bayonne poi tu cerca u  meccanico alle tre di notte… E comunque sia ha finito la tappa con tre ore di ritardo, quindi fatto fuori un uomo che aveva vinto due Tour [1919 e 1922, nda] e aveva vinto due volte quella tappa lì [nel 1914 e nel 1920, nda], quindi un uomo molto adatto a vincere quella tappa lì; e l’altro era Léon Scieur, che ha ricevuto una borraccia malandrina ed è arrivato anche lui con due, tre ore di ritardo e poi ha dovuto essere ricoverato all’ospedale di Lourdes dove è rimasto in cura per una settimana. Ecco, questo è il contesto. Eravamo nel 1923. Se risaliamo ancora più indietro, c’era un corridore, François Lafourcade, che era famoso per le bottiglie, lui ti dava la bomba per vincere ma anche la bomba per perdere ed era considerato un avvelenatore. Ha avvelenato Paul Duboc che era lì lì per vincere un Tour [fu secondo nel 1911, nda], è chiaro che da allor i tempi si sono evoluti ma probabilmente si sono evolute anche le tecniche di frode sportiva e di sabotaggio».

- E andando avanti, quali sono altri piccoli o grandi tradimenti che ti vengono in mente? Da Van Looy e Beheyt, ammesso che lì sia stato un tradimento, a Cunego e Simoni.

«Benoni Beheyt era un gregario, era stato selezionato come gregario, e poi Van Looy si sentiva sicuro di lui. Ma il tradimento più grosso è stato fatto da Maertens nei confronti di Merckx nel famoso campionato del mondo che poi vinse Gimondi. Perché lì Merckx se n’era proprio andato via e sarebbe arrivato da solo al traguardo a Barcellona, sulla salita del Montjuïc. Sarebbe arrivato solo. Invece Maertens si è portato sotto, l’ha raggiunto e Merckx si è voltato e gli ha detto: ma perché l’hai fatto? E intanto che litigavano, Ocaña e Gimondi si son portati sotto, poi nella volata Gimondi sulla carta era nettamente più debole sia di Merckx sia di Maertens. Maertens, che in quel colloquio con Merckx ha capito di averla fatta grossa, gli ha detto: ti tiro la volata, come per scusarsi, e ri-assumere il suo rango gerarchico, che era secondo dopo Merckx. Maertens era più veloce di Gimondi. E invece lì, Gimondi, la sua caratteristica era che non mollava mai. Quel rettilineo era in lieve salita, quindi adatto alle caratteristiche di Gimondi che con la volata lunga è riuscito a metter sotto sia Maertens sia Merckx. È stato una manna dal ciel. È stata una grandissima vittoria di Gimondi, ma c’è stato il tradimento di Maertens a Merckx».

- Sono questi i tradimenti che ancora oggi più ti colpiscono?

«Sì. Di tradimenti poi ce ne sono stati tanti. Anche di recente, ai campionati del mondo, abbiam visto dei corridori che lavoravano per compagni di squadra che appartenevano ad altre nazionali. Il caso di Paolo Lanfranchi [a Lisbona 2001] è uno dei casi».

- Quali sono i personaggi che più ti hanno solleticato la fantasia, o ti sono rimasti nel cuore? Quelli per cui il pezzo ti sgorgava con maggior facilità?

«Io ho apprezzato Moser, perché era un attaccante indomito. Ha vinto un Giro e si è parlato delle pale dell’elicottero, ma andiamo a vedere il tappone delle Dolomiti con Fignon che era andato via sul primo colle e lui che arrivava su con un minuto e recuperava dieci o venti secondi in discesa. Poi c’era un altro colle e perdeva altri bventi secondi e poi ne recuperava quindici in discesa e poi c’era un altro colle: cioè Visentini si sarebbe arreso al secondo colle. È sicuro. Invece lui li ha fatti tutti, ha lottato. Poi c’era la tappetta con l’abbuono e ha fatto la volata terribile per raggranellare l’abbuono. Ha messo pressione addosso a Fignon. E poi nella crono finale ha goduto dei grandi vantaggi che Fignon non aveva. Non parliamo di altre cose, ma parliamo delle ruote lenticolari, del caso aerodinamico, di una preparazione minuziosa. Ha vinto [l’ultima tappa] con 2’24” su Fignon, che non era forte a cronometro. Quindi se vai a ben vedere Fignon poteva perdere, da un cronoman del livello di Moser, quel distacco lì, però a prescindere da quell’episodio, quello che mi piaceva era il suo essere indomito. Non si è mai arreso. Io ho esordito al Giro, è stata la prima impressione, Moser contro Hinault. Hinault è stato uno che è venuto tre volte al Giro e li ha vinti tutti e tre. È quello che ha lo score percentuale migliore di tutti: tre su tre. Eppure, Moser ha lottato fino all’ultima tappa, poi ha perso ma comunque è uscito a testa alta. E poi, altra cosa bella di Moser, e anche di Saronni, era che per ni giornalisti erano una manna: se avevano qualcosa, una qualche freccia avvelenata da tirarsi, se la tiravano. Ed era bellissimo questo scambio. C’era sempre materia per scrivere ma era anche bello perché non c’era la trama sottopelle, c’era proprio la sciabolata a viso aperto che tutti vedevano. E questo ha anche avvicinato la gente al ciclismo. Perché finita la tappa, non era finito lo spettacolo: con Moser e Saronni c’era anche il secondo tempo. Ecco, non sottovalutiamo questo».

- Sei stato un privilegiato perché appartieni a forse l’ultima schiera di giornalisti che avevano un rapporto diretto, senza troppi filtri, con i corridori. Ricordo di averti visto in mixed zone mentre ti avvicinavi ai corridori con il tuo approccio, cioè saltando il cordone di addetti stampa, staff dell’organizzazione eccetera – e per un attimo ti ho visto come se questo ciclismo non ti appartenesse più. Io magari non mi stupisco perché sono figlio di questa generazione. Tu invece sei andato lì, forse figlio dei tuoi tempi, penna e taccuino in mano, e con un candore... Tutto questo mi ha lasciato un po’ di amarezza perché ho pensato alla fortuna che hai avuto tu nella tua epoca e che io non potrò mai avere nella mia, e magari le difficoltà che tu hai adesso a rapportarti con questo tipo di ambiente.

«Questo imbarazzo c’è. Tre o quattro anni fa la Gazzetta m’ha chiamato e m’ha detto: senti, Claudio, vai su al Sestriere e fai un’intervista con Aru. Io non ho chiamato l’addetto stampa di Aru perché non è nel mio stile, nella mia tradizione. Sono andato su e poi ho faticato a trovare il posto. Non avevo il numero di Aru, non avevo niente. Però sapevo che stava al Sestriere, sono andato nel primo bar e ho detto: “Avete visto Aru?”. “Sì, è uscito”, subito. “Sapete in che zona?”. È laggiù, di sotto. Ho chiesto a una donnetta e quella m’ha detto: sì, stanno lì, i corridori stanno lì. E poi è arrivato Aru che tornava da un allenamento, ciao allora come va? Guarda, devo fare un’intervista e lui s’è messo lì, era un po’ imbarazzato, ma abbiamo fatto l’intervista».

- Volevo sapere se ci ho visto giusto o se ho preso una cantonata.

«No, non hai preso una cantonata. Però ancora oggi il ciclismo non ha eguali. Mi è capitato anche di recente. Sul colle di montagna, con il corridore che arriva e batte i denti: scusa, ti dovrei fare una domanda. Quello si ferma e risponde alla domanda. Non capita nel calcio, questo. Ti dirò di più. Un paio di Giri fa, mi è venuta curiosità per Ilnur Zakarin. Ho cercato il bus della sua squadra ed era nel punto più lontano. Ho tenuto duro e sono andato. Naturalmente non c’erano giornalisti, non c’erano telecamere. Poi lì ho trovato Konychev, che parla anche italiano e che avevo conosciuto da corridore, ci siamo messi a parlare: no, perché Zakarin eccetera. Ma non si può parlar con Zakarin? Sì, te lo chiamo subito. È arrivato giù Zakarin e abbiamo parlato. È venuto fuori che lui è musulmano. E ho fatto ’sto pezzo. Mi ricordo che quelli di cyclingnews.com, Barry Ryan e Stephen Farrand, sono venuti a complimentarsi: guarda, Claudio, era da cinque anni che noi cercavamo di avere un’intervista con Zakarin. E l’abbiamo letta oggi sulla Gazzetta dello Sport. Io non avevo alcuna sensazione di fare uno scoop però mi è venuta curiosità di parlare con quello e ci sono riuscito. È solo il ciclismo che ti dà la possibilità…».

- Ci vogliono anche i Gregori, però. Già il fatto stesso che il pullman fosse il più lontano avrebbe scoraggiato una bella fetta di colleghi.

«Zakarin si allena a Creta, e abbiamo cominciato a parlare: ma perché, per motivi climatici? Chi c’è? La tua famiglia? La tua città? E quello si è un po’ sciolto: ma sarai un ortodosso? No, sono musulmano. E allora è venuta fuori tutta la storia. Abbiam scoperto che al Giro già c’erano i giapponesi shintoisti, c’erano i protestanti, i cattolici, gli animisti, c’erano gli atei e abbiamo trovato anche il musulmano. Se hai curiosità, al Giro viene appagata».

- Tornando a quell’epoca, che idea ti sei fatto di direttori sportivi, team manager? Ti butto lì dei nomi: Reverberi, Stanga, lo stesso Boifava.

«I direttori sportivi di oggi sanno molto di più rispetto ai direttori sportivi di un tempo: Pavesi, Guerra, Binda. I direttori sportivi di oggi non hanno la qualità e il physique du rôle, inteso anche morale e intellettuale, di questi personaggi. Noi cantiamo le imprese di Binda e Bartali al Tour ma dovremmo anche tener conto di chi avevano sull’ammiraglia. Perché solo uno come Binda poteva far andar d’accordo Bartali e Coppi. E lui ci riusciva. Binda sarebbe riuscito a far andar d’accordo Roche e Visentini. Ma questo senza svilire Boifava. Binda era un fuoriclasse. Non a caso Brera, che ha esordito al Tour del ’49, gli ha tirato fuori la parola che ormai viene usata da tutti – ammiraglia – ma “ammiraglia” era la macchina su cui stava l’ammiraglio, Binda, che dirigeva Coppi e Bartali.
Facciamo un esempio concreto. Moscon. Moscon viene usato alla Sky come gregario per otto mesi su dieci e poi adesso ha avuto questa chance alla Roubaix, eccetera. Però nella storia le ciclismo gli assi veri nascono subito,. Coppi ha vinto il Giro a ventun anni. Non è che uno sta lì e aspetta. Anche Saronni, ma i talenti si vedono. Fignon ha vinto il Tour a ventidue. LeMond e avanti. Merckx ha vinto la Sanremo che aveva vent’anni, era il più giovane dei corridori al via».

- Roche vinse la Parigi-Nizza a 21 anni, il più giovane di sempre, tre settimane dopo essere passato professionista. In quel ciclismo là, però.

«Io, se fossi il papà di Moscon, meglio mettere Moscon in una squadra meno potente ma con il ruolo di capitano, con un direttore sportivo intelligente che cerca di sviluppare i tuoi talenti. E cercare le corse in cui esprimere il tuo talento, che può essere la Tre Valli Varesine, la Coppa Bernocchi, anche non la Parigi-Roubaix. E poi, visto che abbiam visto che va, alla Parigi-Roubaix, è uno che può vincerla, anche la Parigi-Roubaix. E poi magari una corsa a tappe breve ma non con compiti da gregario, con compiti da leader. Questo ciclismo molto razionalizzato molte volte uccide anche i talenti».

- Ma non faceva così anche la Carrera? Andava a prendersi i migliori corridori, anche stranieri, perché i Tacchella ne volevano uno o due per nazione per vendere i loro jeans nel mercato internazionale. Ma è sempre stato così. Le “Guardie rosse” di Van Looy: non si prendevano i migliori per metterli a tirare per lui? Eppure avrebbero potuto fare i capitani ovunque, o quasi, come succede oggi nel Team Sky. Quindi, qual è la differenza, i tempi?

«No, io dico: io sono favorevole a una filosofia del ciclismo come avventura. Il ciclismo deve essere avventura. Cioè lo scalatore che accetta il contratto della Sky per andare lì a fare lo schiavetto, il domestique, dicono i francesi, ed è proprio così, il servo di Froome, non va bene. Rosa non è quello. Rosa è un corridore che poteva giocarsi le sue carte…».

- È uno che ha nelle gambe il Lombardia: nel 2016 lo perse in volata contro Esteban Chaves.

«È uno che ha delle corse importanti, nelle gambe. È uno svilimento ridurlo al ruolo di… Abbiam fatto un nome, prima ne ho fatto un altro, Moscon, e ce ne sono tanti altri. Io dico che l’interpretazione corretta è quella di Bottecchia, 1923: viene assunto come ultimo dei gregari di Pélissier, arriva lì con la valigia di cartone, un manubrio in mano, la faccia da scalzacane, e il patron, si chiamava Monsieur Montet, si rivolge al direttore sportivo Pierrard e gli dice: “Faremo tardi la sera ad aspettarlo”. Prima tappa, che arrivava a Le Havre, 381 km, Bottecchia secondo, e primo di tutti gli assi della Automoto. Seconda tappa, Bottecchia primo in maglia gialla. Quindi l’ultimo dei gregari ha giocato le sue chance. Ed è quello che ha fatto Merckx perché Merckx non ha accettato di restare con Van Looy che lo soffocava. Ed è quello che dovrebbe fare Moscon. Ed è quello che il talento, il talento che si sente la forza e si sente l’audacia, deve giocare le proprie chance».

- Però lo stesso Bottecchia il Tour come l’ha perso? E purtroppo ti dico la realtà dei fatti: cioè Rosa, o Moscon, se ti chiama il Team Sky e ti mette sul piatto qui soldi lì, tutti gli altri discorsi sull’avventura, sai… Dobbiamo guardarci in faccia, è questo il punto.

«Prima abbiamo parlato di chanson de geste, io sono rimasto lì, ho una visione ancora poietica e tra la possibilità di vincere e la ricchezza sicura scelgo la possibilità di vincere».

- Come hai preso l’annata nera di Gianni Moscon, e non mi riferisco certo ai risultati sportivi, tutt’altro, visto che nel 2017 ha fatto quinto alla Roubaix e terzo al Lombardia: insulti razzisti, il presunto tentativo di far cadere lo svizzero Reichenbach che lo aveva accusato.

«Ecco, io l’interpreto così. È chiaro che Moscon ha bisogno di un “educatore”, che forse non trova nella Sky, dove trova i soldi, il successo».

- Hai mai trovato dei direttori sportivi che fossero anche “educatori”?

“Ci sono stati, anche se [ride] qualche volta i mezzi di educazione erano un po’ bruschi. M’è venuto in mente, mentre parlavo di questo, del vecchio Pavesi che quando i suoi ragazzi della Legnano battevano la fiacca, si è fermato, ha preso le ortiche, si è avvicinato e li ha frustati con le ortiche».

- Non so se oggi funzionerebbe, ma hai reso l’idea. [sorrido]

«Però ci vuole anche educazione. L’educazione al fair-play, ad esempio, a non usare i prodotti dopanti, che è fondamentale. Ma è anche un’educazione al rispetto, un’educazione anche, vogflio dire, ma perché se vedi una bottiglia d’acqua, devo buttare la plastica? No. Anche se sei un corridore, te la tieni dietro o la dai in ammiraglia».

- A proposito di ammiraglia e di educazione: la furbata al mondiale di Bergen col Ct Cassani, che poi si è assunto ogni responsabilità. Anche lì…

«Cassani l’ha fatto perché lo fanno un po’ tutti, ma la giuria dovrebbe stare attenta e subito fare degli interventi per fare finire questa prassi che non è una prassi corretta».

- Visentini si infuriava quando vedeva le spinte, corridori al traino eccetera. In quell’epoca ha pagato un po’ questo suo essere contro gli sceriffi del gruppo?, Anche se in realtà di Saronni era amico, a differenza che con Moser. O anche questo suo mettersi contro Torriani, che nell’84 aveva annullato lo Stelvio –  Tutto questo il Visenta l’ha pagato?

«L’ha auto-pagato. Cioè lui aveva questa testa per cui a un certo punto vedeva un mondo di nemici e si incartava. Visentini ha perso delle ottime occasioni».

- Quei Giri li ha persi lui, non gliel’hanno fatti perdere?

«Non glieli hanno fatti perdere, certo. I trentini tifosi di Moser che son venuti dalla Val di Cembra in Val Gardena per tifare Moser in maglia rosa, non ti puoi aspettare che restino passivi, no? Già lo devi sapere prima che vai. Poi, siccome tu sei lo sfidante di Moser, puoi anche protestare con la giuria, puoi anche fare un reclamo ma non ti puoi incartare e scendere di bicicletta. È uno sbaglio tuo».

- Abbiamo trascurato Roche. Oltre che essere un signor corridore era anche un abile politico. Bravo a tessere alleanze in gruppo. Quando parli con lui ti fa sentire la persona più importante al mondo in quel momento, pacca sulla spalla, cerca di parlare la tua lingua, ti guarda dritto negli occhi. L’altro invece era più un animale selvatico?

«Roche sapeva trattare con la stampa, sapeva leggere le corse, sapeva sfruttare anche le cose minime, basta vedere la vittoria che ha fatto in volata: c’era questa discesa di otto chilometri, eppure l’ha colta al balzo. S’è preso i dieci secondi d’abbuono, cioè tutte cose minime ma son cose minime per cui dopo ha preso la maglia rosa già prima di Visentini. Visentini aveva vinto il prologo ma Roche ha fatto vacillare un po’ la sicurezza di Visentini, che poi di prepotenza ha dominato la cronometro di San Marino, ma già prima ha creato il dualismo. Perché Roche è partito da secondo. La Carrera non aveva due punte, aveva una punta che era Visentini, che aveva vinto il Giro l’anno prima, poi Visentini ha subito vinto il prologo, confermando il [proprio] ruolo di punta, però Roche con le sue arti e la sua intelligenza ha subito fatto in modo di mettere in discussione questo ruolo di capitano assoluto. E si è proposto come alternativa.  Ha portato in giro per mezza iTalia la maglia rosa poi ha preso questa scopppola tremenda a San Marino…».

- Anche se lì pagò la caduta sul Terminillo, aveva picchiato un ginocchio.

«Sì, comunque è stata una scoppola. Ed è stato capace di rientrare, ha dimostrato anche di essere intelligente e anche moralmente forte. Moralmente più forte di Visentini».

- Nella famosa tappa “dell’ossigeno” di La Plagne al Tour ’87, lì fece uno sforzo immane perché non sapeva quanto avesse di distacco da Delgado, che era andato in fuga. Roche aveva come paracadute solo la crono dell’ultimo giorno per vincere la maglia gialla. Nel ciclismo di oggi, dell’srm, delle radioline, dei marginal gains, potrebbe succedere e una Sappada come tradimento o una La Plagne dove uno sforzo così immane nemmeno sarebbe servito perché con le radioline oggi gli direbbero: vai su tranquillo, ché hai il margine sufficiente per…

«Adesso il corridore sa minuto per minuto la situazione di corsa. Quindi anche il direttore sportivo la sa. Il direttore sportivo di Sky ha in pugno la corsa. Poi magari non prevede che ci sia il momento di crisi di Froome».

- Però, quando c’era Armstrong con Pantani che andava via, Ferrari al telefono con l’ammmiraglia diceva all’auricolare di Armstrong: vai tranquillo, ché tanto Pantani scoppia al tot chilometro. E Pantani è scoppiato al chilometro tot. È un ciclismo condizionato.

«Sì, però abbiamo citato un mago perverso del ciclismo. Il più tersite di tutti i Tersite. La cosa aberrante, se leggi la storia di Armstrong, è he l’ordine di arrivo lo faceva Ferrari, perché Ferrari dopava non solo Armstrong ma anche Hincapie e gli altri: però Armstrong, che lo pagava un milione di dollari l’anno, aveva il doping di prima scelta e gli altri il doping di seconda scelta. Conconi, quando ha fatto l’emotrasfusione ai nuotatori gli diceva quanto guadagnavano ogni cento metri, stile per stile: tu guadagni 1.2” ogni cento, tu 1.4”, tu 1.7”, a seconda degli stili. Mi ricordo che il calcolo che avevo fatto – avevamo un delfinista molto forte, da primi otto del mondo, che era Paolo Revelli, uno da 1’59”02 nei 200mt delfino – col vantaggio avrebbe fatto il record del mondo. Voleva dire la vittoria olimpica. Quindi Conconi andava da questi e gli faceva baluginare la medaglia d’oro co questi numeri. E non è che fossero numeri campati per aria. Ecco quindi la battaglia al doping va fatta anche per dare proprio credibilità agli ordini di arrivo, perché non è possibile che uno stregone che manipoli le corse e determini gli ordini d’arrivo. E non è possibile poi che l’ambiente – ho letto con raccapriccio – tipo che gli organizzatori del Giro delle Fiandre vorrebbero invitare Armstrong. Ma no! Armstrong ha già fatto i suoi danni, gravi, e va lasciato nel suo brodo».

- Ti diverti ancora a guardare il ciclismo? Questo ciclismo?

«Mi diverto, perché – devo dire la verità – la cosa positiva nel ciclismo degli ultimi dieci anni è che nelle tappe con cinque colli, cioè per esempio la tappa appenninica del Giro, vedi corridori staccarsi alla prima salita. Ì una cosa che non succedeva, negli anni Novanta. E li vedi in difficoltà. Poi, per esempio, vedi Aru che scatta, parte e fa un po’ di vuoto, poi viene raggiunto, poi prova la seconda volta ma va meno forte della prima. E vedi che si spegne. Dico Aru, per dire, ma potrei parlare anche di Nibali o di altri. E questo, secondo me, è positivo. È naturale, fisiologico. Nvee quando vedi Froome ti preoccupi, io mi preoccupo».

- Quali sono i nomi di oggi – campioni o gregari – che ti solleticano?

«I corridori che vengono dal nulla e poi si trovano lì, e la cosa che mi può entusiasmare è la loro interpretazione. Per dire, Kruijswijk, l’olandese, si è battuto al di sopra del suo standard ma si è battuto con valore. E anche Dumoulin si è battuto con grande valore. E ti dico anche un episodio proprio bello. Si partiva da Castellania per arrivare a Oropa. Io ero lì e c’era a trenta metri la tomba di Coppi, e c’eran però le barriere di metallo che impedivano di andare lì e allora passa Dumoulin e dico al mio collega della Gazzetta che lo doveva intervistare  per il sito internet: “Di’ a Dumoulin che a trenta metri lì c’è la tomba di Coppi, perché non viene?”. Ho guardato, avevo visto che potevo staccare dal muro la barriera e farlo passare. E lui era l’ultimo lì alla punzonatura, alla firma prima della partenza. E lui ha detto sì, ed è venuto e lo abbiamo scortato alla tomba di Coppi e s’è interessato anche delle cose scritte. E poi, magicamente, ha staccato tutti sulla salita di Oropa. E allora ho scritto un attacco che non mi sarei mai immaginato di fare: ho citato Foscolo, che non è il mio poeta preferito: «A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti», perché lui si è ispirato. Mi sono immaginato che si sia ispirato, faccio il colorista quindi lavoro di fantasia, ha trovato l’ispirazione davanti alla tomba di Coppi. E poi si è esibito da campione su quella salita».

- Hai citato en passant Brera. Quali sono stati i tuoi maestri nel mestiere?

«Bruno Raschi è stato un scrittore di alta qualità e di grande continuità. Un altro maestro è stato Orio Vergani. Di Orio Vergani non c’è un pezzo debole. E poi ci sono i poeti, che son quelli che amo. C’è Alfonso Gatto. Alfonso Gatto è nelle singole frasi la punta di diamante che brilla di più. Poi c’è Vasco Pratolini. Ma poi c’è per esempio Achille Campanile. Ve lo immaginate voi uno che viene mandato nel 1932 a fare il Giro d’Italia e fa un Giro “suo” con i sempre in coda, quelli che arrivano ultimi. E dentro, sempre in coda, c’è finito anche il “Diavolo Rosso” Gerbi, che insisteva ancora, a 47 anni, a fare il Giro. E scriveva dei pezzi eccezionali. [Al Giro del ’32 Hermann] Buse vince a Udine, in Friuli e indossa la maglia rosa: primo straniero a indossare la maglia rosa. L’attacco del pezzo è questo: “Il tedesco Buse è scappato. Da dove?”. Così, pezzi surreali ma bellissimi. E infatti La Gazzetta del Popolo di Torino sul Giro aveva due pezzi: il pezzo “vero” sulla corsa e le fantasie di Achille Campanile, che era già un giornalista di grande successo». Ma poi puoi imparare da tutti. Non so, Gian Paolo Ormezzano: non è soltanto un torinista sfegatato, ma è un uomo geniale. E ce ne sono tanti altri. Al Giro d’Italia trovi delle penne nobili».

- E il “generale” Fossati che Brera impiegava da… Dimmi tu come.

«Una delle “colpe” che attribuisco a Brera [sorride] è che non ha valorizzato Fossati. Se lo portava dietro e lo chiamava anche “il Generale”…

- In riferimento alla Campagna di Russia, da cui Fossati fu l’unico della sua compagnia a rientrare?

«Sarà stato anche quello, però Fossati è stato un numero uno che Brera ha tenuto a lungo come numero due. Brera è stato un grande, però faceva ombra agli altri. Quanfo mandavano Giorgio Bocca a fare alle olimpiadi i pezzi di colore, lì però comandava Brera, è andato subito in rottura con Brera, perché non c’era la possibilità di avere due punte. Brera era l’unica punta. Era lui».

- Perché oltre a non avere squadre italiane nel World Tour non abbiamo più cantori di quel calibro?

«No. Il motivo principale è stato il doping, che ha scoraggiato la presenza. Perché tu hai la Mapei, e il patron della Mapei [Giorgio Squinzi, nda] era uno che stravedeva per il ciclismo. Poi però ti trovi di fronte a casi di doping e scopri che le triplette favolose, che le vittorie erano vittorie col trucco».

- Però le triplette le decideva lui, al telefono…

«Ecco. E scopri che è anche pericoloso, questo. Perché poi magari fai il presidente della confindustria, hai un ruolo e allora ti defili».

- Ti defili anche perché forse il Sassuolo Calcio ti dà più vetrina?

«No, quello è stato un ripiego. E comunque anche lì la Mapei ha dimostrato la sua qualità, la sua intelligenza, la sua capacità di fare delle cose che funzionano. E poi sono tanti altri che si sono ritirati. È diventato un prodotto poco appetito. E lo è diventato per la storia del doping. Come fai a fare un investimento su un corridore quando poi sai che basta una provetta per far minare tutto il tuo investimento. Preferisci investire in un’altra maniera».

- Questo per quanto riguarda i gruppi sportivi. Ma non c’è anche un aspetto legato al modello di business sportivo che forse non è più – e da tanto – al passo coi tempi? Oggi se vai da un imprenditore e gli chiedi 15 milioni di euro per fare una squadra media – e non di più, perché al top la Sky viaggia sui 35 milioni annui – cosa gli offri? Non hai la proprietà dei cartellini, né la garanzia che parteciperai ai grandi Giri – perché se non sei nel World Tour non hai il diritto/dovere di iscrizione – quindi se metti su, per dire, una Bardiani puoi sperare nelle wild card. Ma lo sponsor vuol sapere se la sua sarà al Giro oppure no.

«Ci sono dei potenziali investitori, in Italia. Bisogna convincerli offrendo loro un prodotto pulito, certo, credibile. Fai fatica a vendere un prodotto quando, nel 2002 – io ero a quel Tour quindi l’ho seguita molto bene – finisce il Tour: Rumsas, primo lituano sul podio del Tour, trionfo, eroe nazionale, e la moglie Edita viene trovata con la macchina con trenta prodotti dopanti tra cui epo, ormone della crescita, corticosteroidi e altre cose. Poi, i francesi, che hanno la Legge – che prevede anche una condanna per traffico di sostanze dopanti, puoi anche prendere sette anni di carcere – l’hanno messa in guardina [a Boneville, nda]. E c’è rimasta per 74 giorni. Ma io ricordo servizi in televisione e sui giornali ispirati a questa cosa: com’è possibile tenere in carcere la mamma di tre bambini che la invocano eccetera. Sembrava che Edita Rumsas fosse una vittima. Ma allora, tra i tre bambini che la signora Edita Rumsas aveva, c’era il bimbo di sette anni che è stato trovato morto l’anno scorso. Aveva otto anni, quel Raimondas Jr che poi è stato trovato positivo ed è stato squalificato. Adesso è esploso il bubbone che a Lucca si dopavano anche i bimbi. Vuol dire che le lezioni del passato tante volte non vengono recepite. Bisogna fare in modo che siano recepite. Bisogna mettere fuori i bari. Bisogna tagliarli. Io credo che la morte… Non so come vivono il padre e la madre di questo ragazzo che è morto. Non lo so».

- Il padre continua a twittare in maniera molto dura su Froome, su Brailsford e il Team Sky. Non mi hai risposto invece sui cantori che in questo sport non abbiamo più, cantori all’altezza di quelli del passato.

«I cantori vengono, con l’epica, se hai i protagonisti. Se rinasce un Coppi, perché non è vero che un Coppi non può rinascere. Può rinascere. Ma ci sono degli exploit che suscitano il canto. Dumoulin che ha vinto il Giro 2017 suscita il canto. Anche alcune imprese di Nibali suscitano il canto. Però devono essere continuate nel tempo».

- Peccato non ci siano più i Gregori, però.

«No, no: ci sono, ci sono».

- Per chiudere: a Sappada fu tradimento? E tu da che parte stai?

«Io sto dalla parte di Visentini. Ma a fatica, perché io sono per l’attacco. Prima ho espresso la mia filosofia, però lì è stata proprio una roba clamorosa. Il termine “golpe” è esatto perché s’era creata una situazione con Roche a tre minuti, la maglia rosa e tu l’attacchi subito, sulla Forcella di Monte Rest, e vai via, vien ripreso, con tutta la squadra che ha fatto fatica a riprenderti, e rivai via. Vieni ripreso e vai via di nuovo…

- Ricordo i tuoi affreschi per la Treccani su tre corridori-simbolo di quell’epoca: Battaglin, Baronchelli e Visentini. Oggi come li vedi?

«Baronchelli è più intelligente di quanto non si pensi. È stata data un’immagine di Baronchelli un po’ come un caprone che andava forte in montagna, e invece non è così. Perché poi ha fatto delle cose… Ha vinto sei Giri dell’Appennino consecutivi. Comunque sia, ha fatto vacillare Merckx. È stato l’ultimo a cedere nel mondiale di Hinault [a Sallanches ’80, nda]. E che mondiale. Se si guarda l’ordine di arrivo e anche il percorso. E quanti ne sono arrivati. Baronchelli è stato un po’ sfortunato anche nella scelta delle squadre. Perché a un certo momento si è trovato con Moser, e Moser era un capitano scomodo. Perché era un altro “alla Brera”: possessivo, che invade il tuo territorio. Non era da far quella scelta; per uno come Baronchelli. Ha fatto degli errori strategici nella carriera.
Battaglin ha vinto la Vuelta, ha vinto il Giro, si è presentato come la grande speranza poi però si è spento. Non è stato all’altezza delle speranze. Era il periodo in cui era tramontato Merckx; era tramontato Gimondi, era passato Bitossi, c’era stato un cambio generazionale. E il potere era nelle mani di Saronni e Moser, però Battaglin era un uomo da corse a tappe. E anche se Saronni ha vinto due Giri e Moser ne ha vinto uno, non erano corridori da corse a tappe. Erano da cmapionati del mondo, da classiche, che poi sapevano difendersi nelle corse a tappe».

- Di Torriani abbiamo parlato poco. Di lui che idea ti sei fatto?

«Era un grande carovaniere. E come tutti i bravi carovanieri, doveva raggiungere l’oasi. E lui sapeva raggiungerla in tutte le maniere. Anche brutali. La cosa bella di Torriani era la fertilità della mente. Per cui Torrriani si inventava sempre delle cose. La Sanremo, si arrivava sempre in volata: ci piazzo il Poggio. La cronodiscesa, ma anche delle cose che poi sono abortite, tipo: Merckx ha esordito al Giro con la cronosquadre di Milano che era a mezzanotte. E poi per sfortuna di Torriani c’erano quelli che manifestavano per il Vietnam e non s’è fatta. Ma pensate che bella una cronosquadre a mezzanotte che battevano i rintocchi del Duomo e prendeva il via la cronosquadre. Che bella, come idea. E avanti così. Il ponte di barche a Venezia. Lo Stelvio, il Gavia, che tutti tremavano. Io ho fatto il Gavia con la neve ed è stata un’esperienza incredibile. Ma vista a posteriori, un’esperienza incredibilmente bella».

- Visto che cade il trentennale di quella tappa, è vero che avevi solo i jeans e una giacchetta?

«La mattina eravamo sicuri che non si sarebbe fatta, e io ero uscito dall’albergo coi jeans, senza metter sotto la calzamaglia che in genere mettevo, in montagna. Quindi ero leggero. Però c’è questa riunione dei direttori sportivi alla partenza, quelli dell’ANAS dicono tre spartineve hanno fatto i due versanti, la strada è perfettamente… Si può fare. E incredibilmente i direttori sportivi accettano di farla. E allora Cannavò, che era il mio direttore, mi dice: Guarda, Claudio, tu vai in cima al Gavia, vedi passare tutti, dal primo all’ultimo, e poi scendi al traguardo. Ed è stata un’esperienza dura, perché ho patito freddo ma bellissima. E abbiam fatto fatica con la macchina arrivare su perché c’era la neve. La macchina scivolava e io che son nato a Trento e sulla neve ero più esperto della mia auriga [il mitico Gigi Belcredi, nda], gli dicevo: "metti la prima, vai su in prima ma non mollare mai, non frenare assolutamente", per continuare e avere aderenza. Arriviamo su. E su, ho visto l’inferno. Ho cominciato il pezzo, l’attacco del mio pezzo era: “Gavia, l’inferno è qui”. E andavo avanti. Vedo arrivare van der Velde con la magliettina dalle maniche corte e la neve su capelli. E si butta giù. In realtà “giù” è una parola grossa, perché c’è una specie di chilometro che è un po’ di falsopiano. Poi, van de Velde arriva al traguardo con 47 minuti. Appena inizia la discesa viene fulminato dal gelo e si ferma a ripararsi. Vedo arrivare Piasecki, che aveva le stalattiti di ghiaccio che pendevano dai baffi. Ero con Pietro Algeri, vicino all’ammiraglia, lo prende: “Vieni, vieni!”, e lo porta nell’ammiraglia, apre la capotte dietro, il posto del cane, lo butta dentro, proprio lo scaglia dentro e con una coperta lo massaggia. E lì ho sentito un suono che non ho più sentito nella mia vita. Era il suono dei denti di Piasecki che battevano. Un suono fortissimo. E macabro: è la parola. E avanti così. Poi, passa l’ultimo, passa la vettura-scopa, e io col mio autista dietro. Mancavan trenta chilometri al traguardo, solo la discesa e arrivavi a Bormio, dici: sei a posto. A posto?! Faccio un chiloemtro e trovo un corridore  posto come un cristo in croce, con le braccia larghe e con quattro samaritani di strada che gli massaggiavano chi un braccio, chi l’altro, chi una gamba, chi l’altra. Ho preso il numero dalla bicicletta, lo spagnolo [Jesus Ignacio] Ibanez Loyo. Mai conosciuto, ma l’ho visto lì: era un cristo nella neve. Vado più giù, vedo un gigante che scende a piedi tenendo con la mano per la sella la bicicletta: era Mächler, lo svizzero che [quell’anno] aveva vinto la Sanremo. Ho provato a rivolgergli la parola, m’ha risposto con un mugolio. Vado più giù, trovo una macchina ferma, ci siamo fermati e dentro c’era Cipollini, ma non il velocista ma Cesare Cipollini, che piangeva. Il massaggiatore, che era arrivato in macchina, che cercava di convincerlo a finire: “Dai, Cesare, ormai sei nel bosco, il traguardo è subito lì”. E questo: “No, non voglio, ho patito…”. E via, ho colto queste lacrime. Dopo un po’ ho trovato Shelley Verses, che era una massaggiatrice e fisioterapista statunitense, che mi fa segno di fermarmi. Scendo e mi chiede: “Claudio, hai visto [Dominique] Gaigne?”. “No, non l’ho visto. E guarda che dietro di me non c’è nessuno”, ho detto. Quindi, Gaigne deve essere passato, credo, a bordo di un’auto. È stata una Beresina  in cui qualcuno per sopravvivere ha sicuramente barato. Poi sono arrivato in sala stampa dove ho trovato tutti i miei colleghi belli caldi ma non avevano l’ispirazione che potevo avere io dpo esser stato in quell’inferno di gelo».

- Non mi hai detto però perché sei dalla parte di Visentini.

«Sono dalla parte di Visentini perché lì c’è stato un agguato. È stato un agguato. Io credo che salvando la libertà intellettuale, e la libertà anche di movimento, di avventura, dei corridori, non era da attaccare lì. E non da attaccare in quel modo. Tu la sera concordi e magari c’erano tre tappe di montagna, una in fila all’altra, il giorno dopo decidi che conviene, per togliere di mezzo qualche avversario molesto, mandare avanti Roche sulla prima salita. E fai l’attacco. E cerchi di esprimere… Lì il Giro era già vinto. C’era Visentini con quasi tre minuti di vantaggio sul secondo».

- Quella Carrera era una squadra così grande, non ti dico una Sky di oggi, in un’epoca in cui la forbice tra le grandi e le medio-piccole non era così allargata come invece è oggi?

«No, certo. Perché nella Carrera, per esempio, quell’anno lì c’era Chiappucci, che era esordiente al Giro [e chiuse 48°, nda]. Era proprio un portaborracce. Era un apprendista, in corsa. Quindi non era questa grande armata che uccideva il Giro».

- Era anche all’avanguardia in tanti aspetti: nella ricerca dei materiali, nei trasferimenti, per esempio fu tra le prime con le squadre di Stanga ad avere il pullman per i corridori.

«Sì, però era anche all’avanguardia in altre cose...».

- C’è un altro titolo della Gazzetta, di cui ti volevo chiedere: “Bontempi ne stende cinquanta”. È vero che Guidone, per quel titolo, prese per il collo l'allora direttore Candido Cannavò?

«No. È stato un titolo che è stato fatto dal vicedirettore Milazzo, uno che faceva titoli un pochino aggressivi. Anche quello del “golpe” è un titolo che fatto da Milazzo, ma è un bel titolo. Un titolo giornalistico. E anche Bontempi ne stende cinquanta”, o quaranta, quanti erano, è un titolo aggressivo ma che invoglia alla lettura. Poi, logicamente, non è che Bontempi li ha stesi. Però dalla sua manovra è venuta fuori la caduta. Quindi, qualcosa c’è. Bontempi poi s’è alterato e ha reagito. Però i titoli in genere vengono fatti in redazione, fare i titoli è un’arte, cercare di fare il titolo bello – a volte – comporta delle forzature, cioè non fai il titolo perfettamente aderente alla realtà. È una sintesi…».

Brutale. Come Guidone Bontempi in volata, e a volte serve stenderne cinquanta.

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