Beppe Conti, la Ciclopedia flautata


di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA PER RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Lo incontro nella sua casa fuori Torino, dopo un lungo inseguimento e almeno un paio di appuntamenti saltati. L'ultimo, per via della neve. Ha mille impegni e tra questi la stesura di due libri, ormai quasi completata. Beppe Conti non ha bisogno di presentazioni. È la penna e la voce (flautata) del ciclismo, una ciclopedia umana. Una vita fra Tuttosport, Rai e Bicisport, 42 Giri d'Italia seguiti dal vivo (compreso quello del 2018). Conosce tutto e tutti. 
Amatissimo dalla gente, un po' meno da qualche collega che magari ne invidiava gli scoop, o anche solo l'arte di essere al posto giusto nel momento giusto. Era, quello dei suoi tempi giovanili, un ciclismo diverso, nel quale corridori e giornalisti potevano ancora concedersi il lusso di un rapporto umano. A volte, perché no, fatto anche di scazzi.
Naturalmente alle spalle, per i suiveur più maligni era "Novella2000" per il gossip spinto, la sparata grossa, l'anticipazione magari forzata, i titoloni a effetto, la parola data ondivaga. Ma in quanto a fiuto giornalistico, agganci, conoscenza degli addetti ai lavori e della storia ciclismo, Beppe Conti ha scritto - e a volte fatto - la storia di questo sport.

Cambiano (Torino), martedì 6 marzo 2018

- Beppe Conti, se ti dico Sappada, trentun anni dopo, qual è il tuo primo pensiero? 

«Una delle avventure di questo sport, del ciclismo. Due corridori della stessa squadra che si disputano la maglia rosa. Litigano. C’è questo passaggio di potere. Ci sono i retroscena che, a distanza di tempo, vengono fuori. Quello più divertente me lo ha raccontato Roche ed è diventato un po’ quello che fa testo. Il Giro partiva da Sanremo: cronodiscesa, grande invenzione di Bruno Raschi, come seconda semitappa. Però un po’ fasulla. Era un'idea geniale - oggi non puoi più farlo, perché si ammazzano - che finalmente, dopo un po’ di anni, Torriani sposa. Però han fatto la partenza sul falsopiano del Poggio, un primo tratto in falsopiano che era importante; non era solo discesa ma è stata una cosa molto spettacolare, molto bella. In questa prima fase del Giro viene fuori Roche. Però poi, nella crono di San Marino, Visentini diventa Merckx, o Hinault: strapazza tutti. Roche, distrutto, perde la maglia rosa, va in albergo e stanco, sfinito, convinto d’aver perso il Giro, a un certo punto accende la tv e sente Giorgio Martino [l'inviato RAI, nda] che dice a Visentini: "Allora, adesso i patti son chiari, i ruoli son chiari: tu sei in maglia rosa, punti a vincere il Giro e poi andrai al Tour a dare una mano a Roche?". Visentini si fa una risata e dice: "No, io a luglio vado al mare, non vado al Tour". Lì, Roche perde la trebisonda e dice: "Ah, sì? Ah, te lo faccio vedere io, il Giro". Si allea con, come allora dicevamo noi, “les compagnons du Tour de France”, gli stranieri che era abituato a frequentare al Tour...».

- Quindi, in stanza con Eddy Schepers, architetta un piano per la tappa di due giorni dopo? 

«Esatto, ma soprattutto trova gli stranieri delle altre squadre. E vien fuori la tappa di Sappada, l’attacco in discesa, Visentini che perde la testa. Vuol andare a fermare Roche. Vanno per fermarlo ma Roche non si ferma. Vanno per discutere, per sentire. Ma lui non si ferma. E viene fuori “Sappada”». 

- Al tema hai dedicato uno dei tuoi libri, Inganni e tradimenti. Come mai questo episodio non l'hai inserito? 

«Forse me ne sono semplicemente dimenticato... [ride]». 

- Non c’entra la tua storica vicinanza con Davide Boifava? Anzi, avresti avuto più elementi per raccontarne i retroscena.

«Esatto. Sì». 

- Per i giornalisti anglosassoni si parla di business, di scelta di corsa. Per te invece fu tradimento? 

«C’è questo retroscena di Roche, certo. Attorno a Visentini c’era questo timore che saltasse di testa, che avesse problemi nervosi. Partiamo dal fatto che era un grandissimo. Oggi sarebbe un Vincenzo Nibali più forte a cronometro, se mi passi l’esempio». 

- Però fermo in volata, se vogliamo completare il parallelo. Su tre arrivava… quarto. 

«Certo, fermissimo. Pensa che l’anno prima aveva vinto il Giro col polso rotto. A Potenza vince la tappa col polso ingessato».

- Il destro, lo stesso picchiato al Giro ’87, cadendo in salita a Pila nella penultima tappa. 

«Sì, ma lì poi aveva già perso la testa». 

- C'è qualcuno, nella Carrera dell’epoca, che off record sostiene che Visentini addirittura cadde apposta per ritirarsi e così non dover finire sul podio. È fantaciclismo?

«A me sembra fantaciclismo. Al limite, poteva essere per andare a casa, non per non salire sul podio; ma lì era partito di testa». 

- Come al Giro dell’84? 

«Eh, sì. Come al Giro dell’85, anche: con Cannavò ha litigato. Aveva visto Moser attaccato all’antenna di una moto, sul Tonale. Era uno così. Era uno che, purtroppo, sul piano nervoso, pativa tanto la competizione. E per lui esisteva solo il Giro». 

- Forse anche la Tirreno - la vinse nell'83 e fu terzo nell'84 - ma come preparazione al Giro. 

«Sì. E Roche diceva una cosa divertente, allora, sempre per questa loro rivalità. Diceva: "Vedi, lui è fortissimo ma quando viaggia e vede la scritta 'Chiasso', comincia ad andare in crisi, perché è all’estero..."». 

- Mi hai tratteggiato Visentini dal punto di vista sia tecnico sia caratteriale. Roche, invece? 

«Roche invece era molto astuto, molto intelligente. Molto, molto furbo, anche. E sapeva correre, sapeva gestirsi, aveva amicizie importanti, in gruppo. Ha vinto Giro, Tour e Mondiale quell’anno, anche un po’ per caso e grazie alla Carrera. Quell’anno è andato più forte di tutti, ci mancherebbe. Il Tour l’ha vinto grazie anche alla squadra della Carrera. Al Mondiale fu una cosa tecnica, così, però Argentin stava rientrando, e involontariamente, all’ultimo chilometro, da questo gruppetto dove c’era Roche, è partito Sørensen. Per andare dietro a Sørensen, Roche ha vinto il mondiale. Se non parte Sørensen, rientra Argentin e il mondiale lo vince Argentin. Quindi, per carità, Roche non ha rubato nulla, ma per dire che tutto si gioca sul filo dei secondi». 

- Nel suo anno magico, a ruoli invertiti, Roche buttò la Liegi per marcarsi con Criquielion. 

«Sì, sempre nell’87. Un anno straordinario. C’è ancora una casa divertente su Roche che non sai. Io me lo ricordo quando era in Francia con Géminiani [suo diesse alla La Redoute 1984-85, nda]. E Géminiani disse: vincerà sull’Aubisque. E ha vinto sull’Aubisque la semitappa del Tour '85. A me piaceva molto Roche. C’è anche chi diceva che ci assomigliavamo un po’, di faccia». 

- Per le guance un po' pienotte? 

«Sì [ride]. Pensa, altra parentesi: ho chiamato mio figlio come lui ma non per il tifo, perché mio figlio stava nascendo, è nato, durante il Tour: Stefano». 

- E infatti per Tuttosport non non andasti tu a quel Tour, andò Paolo Viberti. 

«Bravissimo, sei preparatissimo. E sentivo, al Giro, “Stefano”, “Stefano”. Così chiamavamo Roche, no? Senti che bel nome: Stefano Conti, come suona bene. E ho chiamato mio figlio Stefano. Non è che fossi suo tifoso. Mio figlio poi ha corso in bici, è stato campione d’Italia di keirin, campione piemontese di velocità. Però la cosa divertente su Roche è quando sembrava che andasse a prenderlo Boifava - con Boifava c’è un’amicizia storica - io gli dicevo: prendilo, prendilo. Guarda che questo è il futuro, prendi Roche. Spendi dei soldi, una volta per tutte. Prendilo, guarda che… Moser l’ha saputo che io lo caldeggiavo. Boifava prende Roche, e all’inizio Roche non va. Non andava, aveva dei problemi a un ginocchio e non andava. Ci ritroviamo Moser, Boifava e io a cazzeggiare, così, e Moser gli fa: hai visto a sentire i consigli di Beppe Conti, che corridore hai preso? [ridacchia]». 

- Gliel’hai ricordato poi a Francesco? Così impara… 

«Eeeehhh. Certo. Divertente, come cosa. Io credevo in questo corridore». 

- Che effetto ti ha fatto andare alla festa della Carrera a Caldiero, il 30 settembre 2018, trent’anni dopo quella magica annata? 

«Avevamo già fatto una cosa analoga due o tre anni fa, mi pare, con i Carrera. È stato un bel momento perché era una grande squadra. Roche si sentiva il festeggiato, a casa, aveva voglia di parlare, di raccontare. E poi senza dimenticare che c’erano Bontempi, Leali. È stata una squadra molto, molto forte». 

- C’è stata anche qualche defezione… 

«Visentini! Sai che li facevo arrabbiare? Ti racconto un’altra cosa giornalistica divertente. Io ho fatto una cosa che mi ha massacrato e che non farò mai più. Nel 1986 ho seguito il Tour de France per Tuttosport, ovviamente, il Corriere della Sera, Il Giorno e Il Messaggero». 

- Quattro giornali?! 

«Sì. Perché non era un Tour con grandi italiani, allora il Corriere della Sera, il Giorno e il Messaggero han deciso di non mandare l’inviato. E io a volte facevo delle collaborazioni. Tutti e tre i responsabili, il povero [Angelo] “Lillo” Pietropaoli [deceduto nel 2016, nda] per il Messaggero, Paolo Ziliani per Il Giorno e Gianfranco Josti per il Corriere della Sera: "Ti prego, faccelo tu, perché così noi andiamo in vacanza". E io non ho osato dire di no. È stata dura. Mandavo pezzi a braccio. È stata dura. Su Il Giorno, per cui a volte, quando non c’era l’inviato, già collaboravo, ovviamente non potevo firmarmi Beppe Conti. Mi firmavo Gigi Raggi perché, la cosa divertente de Il Giorno di allora, chi seguiva uno sport gli davano un nome di quello sport: allora c'erano Stefano Biella che faceva il motociclismo, Remo Canotto faceva il canottaggio e Gigi Raggi era quello del ciclismo». 

- Meraviglioso. Questa proprio non la sapevo.

«Allora io che ero uno vivace, se c'era da fare polemiche, io andavo sul traguardo a sentire i corridori, non avevi interviste in sala stampa». 

- Questa è una cosa che noi come generazione ti invidiamo molto.

«Sì, era divertente. E allora sparavano anche le dichiarazioni. Io, pronti, subito, raccoglievo. Perché ero giovane, correvo dietro a loro. E allora su Il Giorno ho fatto un po' di casino, e Bontempi e Leali cercavano questo Gigi Raggi. Allora si andava al raduno di partenza, alle ammiraglie, per parlare coi corridori, e venivano lì: "Dov'è Gigi Raggi? Dov'è?". E io dicevo: "Mah, era qui adesso... È andato via. Gigiiii! Gigiii, io lo chiamavo. Dopo tre o quattro tappe han capito che ero io».

- Bontempi ne voleva poche. Mi racconti di quel titolo della Gazzetta, «Bontempi ne stende cinquanta»? È vero che lui prese Cannavò per il collo? Bontempi ancora lo racconta.

«No, io questo non l'ho visto». 

- E poi quel titolo non era di Cannavò, bensì di Milazzo.

«Certo. Però no, non si arrivava a quello. Si litigava, così... Era lo sport in cui più di ogni altro c'era il rapporto vis-à-vis col protagonista. Ma con Moser, poi, non parliamone...». 

- E tu eri un moseriano doc? Perlomeno prima della professione.

«Sì, ma anche durante la professione. Perché? Perché vedevo in lui quello che non ero stato io da giovane ciclista. Cioè questo attaccante coraggioso. E io sempre a ruota, da quando correvo da allievo, no? E lui invece... Io mi ricordo un Moser che va piano e che pur andando piano decide lui la corsa, la Parigi-Tours, per dirti, no? Tu con Moser andavi all'estero e scrivevi pagine. Pagine! Da vincere a perdere. Perché poi, quando perdeva, Moser, non era mai colpa sua. Era colpa: dell'organizzatore, del gregario, dell'avversario. E quindi avevi... Era un fiume in piena, no? Io lo seguivo. Con lui ho sempre avuto un rapporto bellissimo perché: io lo seguivo, lui si sfogava, io scrivevo, lui si incazzava, dopo due giorni eravamo di nuovo amici». 

- Non era quindi uno che portava rancore?

«No. In questo, nessuno come lui. Ti garantisco. Io ho seguito il calcio, lo scudetto del Toro. Quel periodo là seguivo il calcio, quando il Toro fa 0-0 a Verona e vince lo scudetto, la Gazzetta dello Sport schiera Gianni Brera e Beppe Conti. Sì, io ho vissuto quel momento con Brera, che nel '76 era tornato in Gazzetta. Quindi ho vissuto quel calcio, grande, di allora, Juve e Toro che dominavano in campionato».

Poi, l'anno dopo, la cavalcata dei 51 punti la Juventus, 50 il Torino.

«Lì ero già a Tuttosport, a fare il Giro. Però quel calcio. Poi lo sci di Tomba. Io con Tomba proprio... ci si vede, ci si abbraccia. Perché ho seguìto tutto Tomba. Però con nessuno ho avuto il rapporto che ho avuto con Moser. Ci son degli episodi che sono splendidi. Una volta, se non mi abbasso mi dà una manata che mi ammazza [ride...] Ma perché? Tu pensa, questo è un episodio divertente, cos'era il giornalismo di allora. Lui vince, mi pare, la Coppa Agostoni, e si arrabbiava di fisso con Mario Beccia, suo gregario. E io scrivo tutto: lui che si incazza con Beccia, tutto. Ormezzano o Baretti, non mi ricordo più - c'era ancora Ormezzano, forse - fa il titolo in prima pagina: Moser "schiaffeggia" Beccia". Schiaffeggia fra virgolette, come a dire che lo redarguisce. Allora Tuttosport vendeva parecchio nel ciclismo. Il giorno dopo c'era la Coppa Bernocchi e i tifosi vedono: guarda, picchia i gregari! Guarda, ha dato uno schiaffo a Beccia! Su una salita: "Bastardooo! Picchi i gregariiii!" La gente così, no? Lui arriva al traguardo: "Ma perché la gente mi diceva che picchio i gregari?". Guarda che l'ha scritto Beppe Conti? "Cooosaaa?". Io intanto, ignaro, arrivo da lui: "Com'è andata?". "Va' viaaa!" [ride]. Mi son abbassato. La sera ci siam già spiegati tutto, il giorno dopo eravamo là a ridere e scherzare». 

- A proposito di Beccia, Moser deve avergli fatto un pezzaccio tale che Mario non ne ha mai parlato con nessuno, nemmeno con la moglie.

«Ha perso la Sanremo. Ha perso la Sanremo perché Moser è andato a prenderlo, sennò vinceva la Sanremo. E come l'ha persa. Quella Sanremo la vinceva. L'han preso a cinquanta metri dall'arrivo perché Moser è andato a prenderlo. Sennò tutti che si guardavano. E lui vinceva. Pensa un po'. Moser è andato a prenderlo perché Beccia era andato via da solo». 

- Pensa che quella è l'unica bici che Beccia ha tenuto, per dirti. Me lo ha raccontato lui. Non so se ci sia stato anche un altro episodio in corsa o in allenamento. Questo non lo sai?

«No». 

- È vero che Moser arrivava a prenderlo per la maglia, per i pantaloncini, per tenerselo vicino in salita e impedirgli di scattare?

«Ma no, è perché Beccia ha contribuito a fargli perdere un Giro. Nel '77 si arriva a Col Drisciè, sopra Cortina, tutti calmi, tranquilli. Moser conserva la maglia rosa, ormai l'arrivo era a due chilometri. E chi scatta? Beccia in maglia bianca». 

- Perché voleva vincere la tappa, che poi andò invece a Perletto, proprio davanti a Beccia?

«Sì. Pollentier l'ha seguìto e Moser ha perso la maglia». 

- Moser mi ha detto, testuale: "Beccia era ingestibile". Bisogna sempre sentire le due campane.

«Eh! Eh, certo. E quella di Beccia alla Sanremo con Kelly, la sai? L'ho scritta, nel libro. Beccia va via sul Poggio, Sanremo '86. Va via sul Poggio. E va, proprio va forte. E c'era un casino di moto. Un sacco di moto che un po' in qualche curva l'hanno frenato. Moser dice: "Sì, le moto, e quando mai ti frenano?". Vabbè. E va. Lo riprendono, Kelly e LeMond. Scendono. Beccia era con la Malvor di Zandegù e del povero Marino Cal, quello del San Raffaele. Beccia va da Kelly e gli fa: Ci son 30 milioni di lire se mi aiuti a vincere la Sanremo. Trenta milioni di allora». 

- Kelly è sempre stato molto sensibile all'argomento.

«Sì. Beccia m'ha detto: Kelly m'ha guardato e io mi son vergognato della proposta. E Kelly a Beccia gli fa: "Guarda che la Sanremo ce la stiam giocando io e LeMond. Tu non conti un cazzo, sei qui per caso. Anzi: do a te un milione se mi tiri la volata. E Beccia gli risponde: OK, Sean, ça va. E ha preso il milione. Me l'ha raccontata perché io sulle pagelle gli avevo dato 5, dicendo: Arrivano tre, lui è il più scarso, cerca di soprenderli e partire al chilometro, o ai cinquecento metri, non condurre tu la volata. E mi dice: guarda che ho condotto io la volata perché...

Invece la cosa bella è che lui, terzo, dopo va da De Zan e gli dice: Sì, ma io l'ho persa perché le moto mi han danneggiato su. Mi han fatto frenare nelle curve, c'eran troppe moto dei fotografi, per questo ho perso la Sanremo. De Zan, svelto, vede Torriani lì sul palco, gli porge il microfono e gli dice: "Ha sentito cosa ha detto Beccia? E Torriani, mani in tasca, gli fa: "Raglio d'asino non sale in cielo". Piero Dardanello voleva far causa alla Gazzetta, poi hanno smesso perché non li avrebbero invitati al Giro d'Italia. Dardanello, mio direttore, mi disse: "Fai tutto il pezzo su quello, frega cazzi della corsa!".

Un'altra divertente sulla Sanremo, e l'ho messa nel libro su Chiappucci, è questa. Quando ha vinto Chiappucci è stata l'unica volta che ho fatto il tifo come un matto, ché stavo facendo la figura più barbina della mia carriera. Sanremo '91. Dardanello, che poi disegnava 'ste pagine belle, fa l'ultima pagina e dice: la Sanremo è una roulette. Facciamo, a colori, il tappeto verde della roulette, i trentasei numeri e tu, per ogni numero, mi metti la testina di un corridore favorito. Trentasei favoriti. Che bello!»

- Non mi dirai che Chiappucci era fuori dai 36?

«No, quello fuori era Sørensen. Perché aveva fatto una brutta primavera, non andava, poi chi lo sa... Ho dimenticato Sørensen. Io ne metto trentasei e non c'è Sørensen. Sul Poggio restano Chiappucci e Sørensen. Ma se arrivano in volata vince Sørensen. Ma sai che figura faccio?! Trentasei favoriti, e non metto Sørensen! Quando l'altro s'era staccato, vai Claudiooo! [ride]». 

- A Claudio l'hai raccontata così?

«Sì, sì. Ha goduto molto». 

- Volevo chiederti invece di Visentini: non è vero che era inviso agli Sceriffi, perché con Saronni era amico. Era con Moser che non si prendeva, vero?

«Sì. Per questa sua vis polemica, ché faceva casino». 

- Visentini ha pagato questo suo mettersi contro Moser, contro Torriani? O quei Giri li ha buttati via lui? Per esempio quello dell'83, che su strada, per tempi e senza abbuoni, avrebbe vinto?

«E vabbè, lì c'eran gli abbuoni... Bisogna sempre partire da questo fatto. Allora, innanzi tutto dici: facevano i Giri per Moser e Saronni. Ma facevan bene! I francesi stan facendo il Tour per Bardet, perché non lo vincono dall'85. E nell'81 fecero cinque coronometro per favorire Hinault. Cinque cronometro c'erano in quel Tour. Due cronosquadre. Due cronosquadre! [ride] Anquetil veniva favorito con le crono. Hinault veniva favorito con le crono. Adesso non le fan più perché c'è Bardet. L'han sempre fatto anche i francesi. Torriani, e questo è il punto: fece così due Giri, '77 e '78, e vinsero Pollentier e De Muynck, due anti-personaggi. Doveva vendere il prodotto. L'organizzatore è anche un regista, allora ha cercato di adeguarsi. Però, quando veniva Hinault, guarda caso, è tornato a vincere lui. Quindi, per dirti: eh, c'era l'abbuono; Visentini lo sapeva già prima. Contro Hinault non c'era niente da fare. Non è poi che abbia...».

- Forse in quello dell'83, il famigerato Giro "del Guttalax"?

«È ancora un po' misterioso, non si è mai capito bene». 

- Ora, posto che uno deve andar via di testa anche solo per concepire una "trovata" pubblicitaria del genere, ma in più Arrigoni non aveva bisogno di arrivare a tanto, la FIR andava bene. O no?

«Pare ci fosse qualcuno dietro. E sembrava fosse Visentini, non Saronni, quello a cui mettere il Guttalax». 

- Il piano qual era? Salvare la maglia rosa e avere un ritorno pubblicitario positivo?

«No, dare il Guttalax alla maglia rosa per farle perdere il Giro. C'è un po' di mistero in quella storia lì». 

- Tra l'altro la FIR era l'azienda che forniva le ruote alle bici Battaglin. E s'inventarono la bici Piranha con le ruote bombate che poi non fu omologata per la crono al Giro '85. Te la ricordi?

«Sì, ma non so che vantaggio potesse avere». 

- Nella cronodiscesa del Poggio al Giro '87, Roche fu uno dei pochi a non montare le ruote lenticolari, forse anche per quel tratto di falsopiano di cui parlavi. Poi, di cronodiscese, al Giro non se ne sono più fatte: secondo Torriani l'azzardo non valeva la resa.

«Sì, guai: se poi un corridore va a spiaccicarsi contro una parete, vai in galera... Però era bella l'idea. Era di Bruno Raschi, di questo son sicuro». 

- A proposito di maestri, quali sono stati i tuoi? E i contemporanei che hai apprezzato?

«Come giornalisti, dici? Io ero emozionato a seguire... io ero a Torino con Brera. Allora il direttore della Gazzetta era Remo Grigliè [resto in carica dal maggio 1975 al 5 novembre 1976, nda], uomo FIAT, perché la Gazzetta allora era della FIAT. Siamo andati a pranzo al "Dodici apostoli", che era il posto mitico di Gianni Brera. C'eravamo Grigliè, Brera e io, che seguivo gli spogliatoi del Toro. E  pranzare con Gianni Brera, già questo... Non so se ce l'ho fatta a mangiare, tale era l'emzoione. Avevo 24 anni e mezzo, ero già professionista, io davo del lei. Pensa che per tre mesi sulla Gazzetta dello Sport, pezzi sul Toro, sulla Juve, in prima pagina, venivano solo siglati: G.C. (Giuseppe Conti). In prima pagina, per tre mesi non potevi firmare. Pensa che giornalismo era. E di Gianni Brera la cosa che più mi colpì era questo pozzo di cultura. Ma di cultura non solo sportiva, di cultura di tutto. Poi ho seguito la partita vicino a lui. E ho conservato, e pubblicato sul libro sul Toro, ti faccio vedere, un reperto clamoroso, le pagelle di Gianni Brera. Lui dettò le pagelle di questo Verona-Torino 0-0 che in pratica fu scudetto [9 maggio 1976, 29-esima e penultima giornata, nda]. E io mi portai via il foglietto».

Va a prendere il foglietto originale e me lo mostra.

- Ci sono i cognomi ma per Sala scrive "Claudio" anziché il cognome. È vero che Brera rispettava Fossati, che lui chiamava il il Generale, anche per via della campagna di Russia, ma anche un po' lo limitava?

«Io questo non l'ho vissuto». 

- Ma tu con Fossati hai lavorato, sì?

«Eh, mamma mia! Io Fossati l'ho portato in Belgio, guidavo io la macchina. Andavamo a far le classiche assieme. Con Fossati, di tutto: ma scherzi?! Però i due, insieme, non li ho visti in azione, anche perché Brera ormai faceva più il calcio. Guarda com'era il calcio di allora: andavo a sedermi in spogliatoio con Graziani e facevo l'intervista per la Gazzetta. Seduto sulla panchina dello spogliatoio. Brera però io non l'ho frequentato molto perché lui era tornato in Gazzetta. Ed è anche per colpa sua che sono andato via dalla Gazzetta». 

- Perché?

«Io sono entrato nel '73 in Gazzetta, fino a fine agosto '76. E quando c'erano la Milano-Torino, il Giro del Piemonte, essendo io in Gazzetta qua a Torino, davo una mano a Torriani a trovare i percorsi per il finale. Io seguivo Toro e Juve ma da ex corridore il mio sogno era andare al Giro d'Italia. E Torriani mi disse: ci penso io, ma uno come te... Una volta mi disse una cosa bellissima: ma perché lei vuol fare a tutti i costi il giornalista? Ma venga a lavorare da me. Venga con me che si guadagna di più... [ride]. E io: no, il sacro fuoco... Fossi andato con lui magari sarei diventato il direttore del Giro...  Lui: ci penso io, ci penso io, ma tu devi fare il Giro. Io, figurati, non ci dormivo la notte, per fare il Giro. Tieni conto che quando questo accadeva avevo ventitré anni. Arriva il Giro d'Italia '75, decisione della Gazzetta: lasci Torino, vieni in redazione a Milano a passare i pezzi degli inviati al Giro. E io dico: be', però, se questo è il dazio da pagare per farlo l'anno dopo... L'anno dopo lo farai. E io vengo. Ho trovato una pensioncina dietro Corso Buenos Aires, ho fatto tutto il Giro d'Italia in redazione con Maurizio Mosca, che dirigeva lo staff del Giro d'Italia, passando pezzi, facendo titoli. Fra gli inviati c'erano Franco Melli, Sergio Meda». 

- Facevi la cucina, insomma.

«Sì, e a Torino non ero abituato a farla perché ero dell'ufficio di corrispondenza. Una bella esperienza, piacevole e tutto. Torno a Torino e Torriani mi ribadisce: guarda che l'anno prossimo tocca a te, eh. E io non vedevo l'ora, lo sognavo la notte. Sono a Como, per Como-Torino 0-1, gol di Graziani, altro passo per lo scudetto, primi di aprile, con me invece di Brera c'era Giorgio Mottana, che era sttao direttore della Gazzetta. Andiamo a pranzo. Mi dice: ah, hai saputo, eh? Niente Giro anche quest'anno, eh. Eh, c'è Brera. Scalano di uno e stai di nuovo a casa tu. Al che io non ho finito il pranzo. Mottana si preoccupò perché non sapeva: non mangi più? M'era passato l'appetito [ride]. Lì avevo venticinque anni, neanche compiuti. Mi era passato l'appetito e non ho più pranzato. Perché l'ho saputo così, no? E ci son rimasto malissimo. Ormezzano, direttore di Tuttosport, venuto a sapere il tutto, non so come, mi chiama e mi dice: ma cosa fai lì, che sei chiuso da tutti questi vecchi? Ma vieni da me. Vieni da me che d'inverno fai un po' di calcio e d'estate fai il tuo Giro, il ciclismo. C'è Cesare Pacetti che ha cinquantasei anni e a sessanta va in pensione, tu stai quattro anni al suo fianco e poi sei padrone tu di tutto il ciclismo e di tutto quello che vuoi. Lascia stare 'sta Gazzetta. E m'ha convinto». 

- Ed è stata la tua fortuna?

«Mah, fortuna... Io stavo in Gazzetta. Tieni conto che ero davanti a Zomegnan, perché Zomegnan è venuto dopo. E difatti Rino Negri poi per dieci anni m'ha detto: hai fatto un errorone, perché non hai avuto pazienza, dovevi stare lì. Hai avuto troppa fretta. Perché, stando in Gazzetta, ero davanti a Zomegnan». 

- Ti sei pentito o pensi che alla fine ti sia andata bene così?

«Bene così. Son contento così perché ho seguito tutto Tomba. Ho potuto far televisione già con TeleCapodistria e con Mediaset quegli anni là, e stando in Gazzetta non avrei potuto. Non m'avrebbero lasciato. No, era destino così. Son stato a casa, che avevo mia mamma qui da sola». 

- Poi hai messo su famiglia a qui a Torino?

«Qui. Pensa che in quel luglio, nel '76, avevo dato le dimissioni dalla Gazzetta ed è mancato mio papà. In tre mesi, tumore allo stomaco, a 63 anni. E quindi anche questo mi ha sconvolto un po'. Io son figlio unico, mia mamma era figlia unica e quindi sono stato contento di essere rimasto qui. E stando a Torino a Tuttosport, nell'85 il grande Dardanello - io avevo 34 anni - m'ha fatto il contratto da inviato speciale, per tenermi lì. Perché mi volevano, non sono balle, il Corriere della Sera, Il Giorno e un po' anche La Stampa ma non aveva... Ma comunque il Corriere della Sera e Il Giorno di sicuro. Mi volevano come redattore ordinario, ci mancherebbe. Allora lui, facendomi il contratto da inviato, beccavo molto di più e non andavo via». 

- E non dovevi più smazzarti la cucina...

«Mai più fatta una notte. Era il 1985». 

- Bella annata anche per il ciclismo. Tu hai sempre avuto questo rapporto privilegiato con i corridori: per la tua correttezza, perché sennò i corridori ti fiutano subito. Ma anche per l'aspetto umano, di empatia, che sei sempre riuscito a trasmettere loro.

«Di onestà mia, intellettuale. Loro tante volte con me si sono incazzzati ma io non ho mai inventato nulla. Io dov'è che facevo lo scoop? Facevo lo scoop perché arrivavo, piombavo subito là. E Moser diceva [ne imita il vocione]: "Sììì, perché io son stufo di fare il lavoro per Saronni. Se lui è un campione, che se le faccia lui le corse". E io lo scrivevo. Ma lui l'aveva detto. Magari lui pensava che io non lo scrivessi. Però, dopo un po' ci pensava e diceva: "Eh, ma io l'ho detto...". Io arrivavo là sul traguardo, avevo trenta secondi per parlargli e scegliere: questo lo metto, questo no. Capisci? Quindi io non ne ho mai tradito [la fiducia]. Se uno mi diceva: questo non lo scrivere...

Io la cosa di Saronni l'ho scritta nel libro a distanza di trent'anni. Il mio libro MoserSaronni - Duello infinito è un bel libro perché ero l'unico testimone oculare. Questo episodio è molto bello e non ho mai avuto il coraggio di scriverlo per Tuttosport perché Beppe mi ha pregato di non scriverlo. Fanno questa grandissima riunone al palasport di San Siro, che allora era una roba molto, molto bella. Fanno una riunione che era la rivincita del mondiale dell'inseguimento che in estate Moser aveva perso ad Amsterdam contro Bert Oosterbosch. Fanno la rivincita e su quella rivincita costruiscono una riunione. Con Saronni nelle gare di contorno, e già a questo gli giravan le balle. Fanno questa riunione, pieno così: saran stati diecimila spettatori, una roba che non ti dico, a San Siro. Moser batte Oosterbosch sui 4 anziché 5 km - allora l'inseguimento era di 5 km - Lo batte nella rivincita del mondiale, l'altro in maglia iridata, lui lo batte. Festa, tutto, eh. Di lì si va a Bergamo perché, da un'idea di Mario Fossati, al Trofeo Baracchi, siccome non c'eran più le coppie giuste, han messo Moser-Saronni contro il Resto del mondo. L'ha fatto Baracchi su idea di Fossati. Andiamo a Bergamo. Destino vuole che io sia nello stesso albergo di Saronni. Non siamo ancora ai frigo-bar. Ci troviamo al bar a prendere una bottiglia di minerale prima di andare a dormire. Saronni mi vede, sorride e mi fa: "Oh, il tuo amico è andato forte stasera, eh?". Eh, è andato forte sì, dico, non solo ha battuto Oosterbosch ma ha anche fatto il record della pista sui 4 km. È andato forte sì. Lui sogghigna e mi fa: "Allora, se vuoi la verità, il tuo amico non solo ha comprato Oosterbosch ma anche la Longines, perché io nel mio cronometro a mano c'ha messo due secondi in più..."». [ride]

- Andò davvero così? Passi per Oosterbosch, ma pure la Longines: mi pare un po' grossa...

«Ma no, ma va... Cazzo gliene fregava del record della pista! E Saronni mi fa: oh, mi raccomando, mica le scrivi, 'ste cose. E io: "Beppe, no, ci mancherebbe. Figurati". Buonanotte. Buonanotte. Dopo trent'anni l'ho scritto nel libro». 

Saronni ti ha poi chiamato?

«No, ride. Ride. Me ne ha anche comprati cento. È un signore, e a volte abbiamo anche litigato selvaggiamente. M'ha fatto una dedica bellissima, che ti faccio vedere. Questo me lo son fatto dedicare da tutti e due. Saronni mi ha scritto: "Caro Beppe, è da tempo che lo penso, se la nostra storia sportiva dovesse per incanto ricominciare, ne sono certo, tu questa volta saresti saronniano. Con tanta stima e grazie per quello che fai"». 

- Non male. Credo valga una carriera una roba del genere.

«Sì, sì. È una gioia. È bella, molto bella. E abbiamo recuperato un rapporto splendido». 

- Con tutti e due?

«Con Moser facciamo Capodanno assieme nella villa di Persegona a Ponte di Legno con le famiglie. È un rapporto che è sempre andato avanti nel tempo». 

- Di Baronchelli invece che ricordo hai?

«Non aveva la testa. Con due assatanati come Moser e Saronni, li ha patiti tutti e due». 

- Al Giro dell'86, è in squadra con Moser. Una mattina Baronchelli si ritira, se ne resta a letto in hotel e non riparte. Cos'era successo?

«Si arrabbiò, s'indignò perché la sera prima aveva sentito in corridoio Stanga, il team manager, dire: "Se non lo conoscessi direi che 'sta corsa l'ha venduta", talmente era stato coglione nel finale. E quindi s'è offeso a morte. A morte. E la cosa divertente è che poi al mondiale in Colorado quell'anno lì - e lì fu un capolavoro di Martini - c'eran cinque leader: Moser, Saronni Argentin, Baronchelli e Visentini. Pensa a metter d'accordo cinque teste così: come fai?». 

- Solo Alfredo Martini poteva riuscirci...

«Sì. E grazie anche ad Argentin, che volava. Andava il doppio di tutti. Visto io in allenamento. Avevo seguìto l'allenamento con Martini». 

- Quelli che andavano forte, come Argentin e Saronni che fece terzo, erano stati lì quaranta giorni in ritiro, Baronchelli una ventina.

«C'ero anch'io. Baronchelli ha fatto la Coors Classic». 

- A differenza degli altri arrivati dall'Italia che invece erano bolliti?

«No, ma neanche tanto. Era proprio che Argentin andava. Aveva vinto la sua terza Liegi. Moreno, mamma mia... Allora: conferenza stampa in albergo, noi poi avevam del tempo libero, cazzeggiavamo, io andavo in bici con Moser...». 

È vero che non c'erano le strade per allenarvi, e che la polizia fece agli azzurri una multa perché andavano in bici su una highway?

«No, è una balla». 

- E quel servizio su Bicisport con la foto a doppia pagina che ritrae i poliziotti e la nazionale?

«Guarda cosa facevo al pomeriggio: prendevo la bici da uno della nazionale dilettanti e andavamo in pista, perché alle quattro del pomeriggio - col fuso orario - noi avevamo finito di lavorare. Fanno questa conferenza stampa di tutti gli italiani, tutti i leader. Fate le domande, mezzora, poi non si parla più, basta. Poi, finite le domande, bon, Moser fa: "Adesso posso fare io una domanda a Baronchelli?" Baronchelli già tutto rosso... E tutti: dai, dai, fai la domanda. E gli fa: "Ma perché ti sei ritirato dal Giro, cosa ti è girato?" Boato [ride]». 

- Perché in quella foto, sempre su Bicisport, tu hai la bici Moser e gli altri no?

«Me l'aveva data un meccanico della nazionale dilettanti. Moser faceva quaranta chilometri, e dopo venti mi fa: "Sulla prima salitella eri più brillante". E io: "Ma porca puttana, è già la terza salitella, cosa vuoi che stia alla ruota tua, che stai facendo il mondiale? Ecchecazzo..." [ride] Avevamo questo rapporto...». 

- Baronchelli avrebbe potuto vincerlo il Giro del '78, invece lo vinse De Muynck. Il Tista forse commise l'errore di restare in una Bianchi a tre punte: lui, Contini e Prim.

«No, lì la differenza l'ha fatta De Muyinck sul monte Serra alla terza tappa (183 km da La Spezia a Càscina, nda), per colpa di Moser-Saronni. Moser non tirava perché, se lo riprendevano, Saronni vinceva e metteva la maglia rosa. Saronni non tirava, con la squadra, perché il giorno dopo c'era la cronometro e la maglia rosa l'avrebbe messa Moser. E così...». 

- De Muynck vinse il Giro per 59" e quel giorno lì, alla terza tappa, guadagnò un minuto e sfilò la maglia rosa a Rik Van Linden.

«Certo. Baronchelli era ancora alla Scic. Saronni temeva che il giorno dopo, nella crono, Moser prendesse la maglia e non voleva che Moser mettesse la maglia». 

- Gibì è sempre stato un po' il terzo incomodo. Alla Bianchi con Prim e Contini pativa anche il rapporto scherzoso che c'era, per esempio, tra il diesse Ferretti e lo stesso Contini. L'ho chiesto per conferma a Ferron: Contini era uno che dava confidenza, gli faceva gli scherzi, lo buttava in piscina negli hotel; col Tista, guai anche solo a pensarlo. 

«Guarda ai mondiali di Sallanches '80. I giorni di vigilia avevo visto che Baronchelli andava forte. Faccio l'intervista, tirata: "No, voglio fare un mondiale da protagonista". Mi fanno il titolo: "Voglio vincere il mondiale". E lui s'incazzò: "Io non t'ho detto che voglio vincere il mondiale". E cosa vuoi, arrivar secondo?! Si è arrabbiato perché avevo scritto "Baronchelli: 'Voglio vincere il mondiale'".

Allora, mi pativa anche un po' perché mi vedeva legato a Moser-Saronni. Tu pensa a Saronni giovane, pensa che testa... Settantasette: per fortuna il primo maggio cade in Romagna e si rompe la clavicola sennò lo bruciavano già lì. Nel '77 aveva 19 anni e mezzo, erano indecisi se fargli fare il Giro o no. Cade il primo maggio e non fa il Giro. Va a trovare la squadra, la Scic, in una delle ultime tappe del Giro. Allora il capitano si sedeva a capotavola. Arrivano Saronni e Baronchelli, Saronni non correva, tutti e due vanno per sedersi a capotavola. Si siede prima Baronchelli. E Saronni gli fa: "Siediti pure tu, tanto son le ultime volte...". Diciannove anni e mezzo, pensa! Saronni, diciannove anni e mezzo. E Baronchelli ha patito da matti questa personalità. Questo è un episodio banalissimo, ma in corsa succedevan delle cose... Baronchelli, con la testa che aveva allora, si smontava...».

- Perché i tifosi di Moser ce l'avevano tanto con lui, al punto da prenderlo a ombrellate?

«Perché anche lui... Anche lì: arriva in Trentino, lui davanti, va su da De Zan in televisione a dire che Moser ha fatto il San Pellegrino a spinte. Innanzi tutto, tu non eri davanti, come facevi a... Gliel'avran detto. E certo, avrà preso delle spinte ma tu vieni in Trentino, vai in diretta tv a dire "Moser è salito a spinte sul San Pellegrino" e dopo c'è il Bondone: cosa vuoi che ti dicano, bravo? [ride e applaude]». 

- Un'altra pagina brutta avvenne nei giorni dopo Sappada. Roche in corsa si teneva Schepers da un fianco e Millar dall'altro, a mo' di gendarmi, per proteggersi. Certi pseudo-tifosi gli tiravano di tutto, gli sputavano riso e vino rosso, brandelli di carne come per dirgli: ti facciamo a pezzi. Tu quelle cose lì le hai viste?

«No. Noi facevamo la tappa, ma passi un chilometro prima. Non ho visto niente, e temo siano anche state un po' ingigantite. Anche da Roche, per non dico darsi un alibi ma...».

- Quella foto sul palco con lui in maglia rosa accanto a Millar in maglia verde e Roche che fa il segno di tutti zitti al pubblico che lo insulta, però, parla da sola.

«Ma certamente. È venuto fuori che lui si è alleato con gli stranieri per far fuori un italiano, in maglia rosa, quindi è normale». 

- C'è un'altra battuta, tipo quella del cartello di Chiasso, e a scriverla nell'autobiografia è stato il figlio di Stephen Roche, Nicolas. Il padre gli raccontava di quel Giro e in gruppo all'epoca giravano voci del tipo: "Che cosa ha mangiato Roche oggi?". "Pancakes, frittelle, gliele passano sotto la porta...". Roche aveva paura che gli sabotassero il cibo, o la bici, che il suo meccanico Valcke si portava tutte le sere in camera.

«Più di mezza Carrera era dalla parte di Roche. Boifava cercava di fare il pesce in barile, ma temeva che Visentini in Val d'Aosta saltasse. Quindi hai Roche lì, va bene così. Magari pensava che avrebbe potuto far primo e secondo. Ma boicottare Roche no, gli andava bene che vincesse il Giro». 

- Intendo non dall'interno, magari i tifosi di Visentini...

«In cucina negli alberghi? Nooo». 

- E Valcke che a mani nude ruppe una forcella per far vedere che l'avevano scavata dentro affinché si spezzasse in corsa? Tutte balle?

«Questo non lo so».

- Di Boifava sei amico. Invece dello stato nello stato alla Carrera, il cosiddetto Team Roche ("il ribelle" Schepers, il "diavolo" Valcke e "Giuda" Roche) che cosa ricordi?

«Loro facevano una cellula a parte. Questo esisteva, certo. Però la Carrera lasciava fare perché intanto era pubblicità, ed eran vittorie. Capisci? Perché se loro si schieran dalla parte di Visentini, e Visentini in tutto questo bailamme poi salta a Pila [la penultima tappa, in cui cadendo in salita si fratturò lo scafoide destro e il giorno dopo non ripartì, nda]... Secondo me loro avevano questa paura». 

- E chi meglio di Boifava conosceva Visentini: ci aveva corso assieme.

«Esatto». 

- E dei Tacchella che cosa mi racconti?

«Persone di un'onestà cristallina. Lasciavano fare tutto a Boifava. I soldi li gestivano loro, però se Boifava diceva: "Bisogna comprare Roche", compravano Roche. Non interferivano. Tifosi appassionati, grandi persone. Io ricordo questo». 

È vero che quella sera a Sappada arrvarono in elicottero? Perché c'è qualcuno, per esempio Zomegnan, che sostiene di no.

«Sì».

- A Venezia c'era il G7 e per motivi di sicurezza l'elicottero dei Tacchella non lo fecero atterrare a Sappada, così dovettero noleggiare un'auto e arrivarono all'hotel Corona Ferrea verso le 21.

«Questa non la sapevo».

- Quella sera mezza squadra aveva paura di essere mandata a casa.

«I Tacchella sono arrivati e han detto: "Ragazzi, coraggio. Non è successo niente. Facciamo primo e secondo. Non abbattettevi, va bene così". Loro cercavan di metter pace. Si rendevano conto che era un colpo pubblicitario clamoroso. E anche per loro Visentini veniva sempre visto come oddio, speriamo, speriamo... che regga. Intanto abbiamo Roche primo. Capisci?»

- Per cinque secondi su Rominger, sennò avremmo fatto altri discorsi. E invece perché Boifava in gruppo lo chiamavano il Cardinale?

«Per questo suo fare... Era grosso, era così, un po'... Cercava di metter pace. Questa figura un po' di cardinale». 

- Un po' ecumenico, cercava di metter d'accordo tutti?

«Esatto, ecumenico, sì. Lui ha avuto tutti, eh. Pantani voleva andar da lui a tutti i costi. Sai che Pantani voleva andare a correre alla Carrera? Era affascinato da quella Carrera, già l'anno prima di vincere il Giro dilettanti. Vince il Giro dilettanti, gli volano addosso la Bianchi di Ferretti e Gimondi. Pantani chiama Boifava e gli dice: "Io ho una parola sola. Ho detto che vengo con te, e vengo con te. Quindi per dire il fascino che questa squadra aveva. E questa persona, Boifava, anche con i giovani, no?». 

- E il Boifava uomo, che tu conosci bene: refrattario ai media, non vuole rilasciare interviste.

«È invecchiato molto, in quel senso». 

- Nel senso che si è un po' chiuso in se stesso, è più diffidente?

«Sì, ma non diffidente. Si è chiuso». 

- Tu gli sei amico da una vita.

«Eh! Diventiam quasi parenti: mia figlia è fidanzata con suo figlio. Mia figlia è medico a Brescia. Non so perché ma è un po' invecchiato in quel senso, di testa. E forse teme scandali, che si possa far casino». 

È una forzatura giornalistica considerare quella Carrera, così avanti alle altre squadre, un Team Sky con trent'anni di anticipo? O viceversa, il Team Sky una Carrera di oggi?

«È cambiato tutto». 

- Vedi delle analogie? Non dico tra Brailsford e Boifava...

«No, quello per carità...»

- Intendevo nell'essere all'avanguardia nei materiali, nel marketing, persino nel look, nell'andare a prendere i migliori corridori stranieri (anche per espandere il marchio Carrera).

«Sì, era una squadra leader. L'unica italiana che andava al Tour».

- E ai tempi bisognava metterci del cash, no?

«Certo».

È vero che Del Tongo diceva a Saronni: per me il Giro di Puglia è più importante del Tour?

«Sì, anche Scibilia della Gis diceva: io vendo gelati in Italia. E non si rendevano conto che... Era una miopia. Però, attenzione: al Tour andavi a perdere da Hinault. E allora c'era una politica autarchica della federazione, che in Italia contava, per cui, in contemporanea al Tour, mettevano sotto un calendario... Organizzavamo tre o quattro classiche - Trofeo Matteotti, Coppa Placci, dico a caso, Giro delle Marche - allora tu avevi tre o quattro classiche, sei kermesse a ingaggio - organizzate dal grande Nino Recalcati, persona splendida - per cui tu andavi al Tour, perdevi, ti facevi un mazzo così e perdevi soldi, ma tanti soldi. Ecco perché non andavano al Tour». 

- Questo in un ciclismo italiano in cui gli sponsor erano mobilifici, industriali del gelato. La Carrera invece produceva jeans, quindi era interessata a un mercato più internazionale.

«Più internazionale, sì. Ed erano anche più aperti perché gli altri non capivano che vincere una tappa al Tour, anche in Italia, ti dà una risonanza... E gli altri a questo non pensavano. O erano anche condizionati dai corridori, che non volevano andarci; perché Moser e Saronni non volevano andare al Tour. Ci rimettevano, come fosse rimetterci adesso cinquecentomila euro. E andavi a farti battere da Hinault! Chi ci sarebbe andato?!». 

- Sarebbe stato un controsenso.

«Eh!». 

- Invece la forbice tra le grandi e le medio-piccole dell'epoca, non era così ampia come invece è quella di oggi? La PDM, le squadre di Guimard, la Carrera erano tutte sullo stesso piano.

«È cambiato tutto: il World Tour, il ciclismo mondializzato, è tutto un altro sport. Adesso c'è il neozelandese, il sudafricano, la Colombia che è una potenza. Allora c'era Lucho Herrera al Tour, lo guardavamo come fosse un extraterrestre». 

- Visentini diceva: questi qui non sanno correre. Prima arrivano quelli dell'Est, poi i colombiani. Per fortuna io fra un anno smetto...

«Sì. E da giovane stava a metà corsa, fuori dal gruppo, quando c'era bagarre, per paura di cadere». 

- Decimo posto a destra...

«Faceva una fatica bestia, eppure resisteva».

- Che cosa si può fare per riportare il nostro movimento più vicino a ciò che era all'epoca?

«Trovare delle persone che facciano entrare della grande industria».

- Quindi dei grossi sponsor come avviene all'estero con la Movistar, la Lotto, la Bahrain-Merida, che ormai sono enti parastatali, non più semplici gruppi sportivi.

«Ma chi è che va da questi? Chi è che va da ENEL? ENEL sponsorizza la maglia rosa. Potrebbe fare una squadra, dico a caso, no? Ma chi è che va a convincere ENEL a fare una squadra?».

- Claudio Corti va dalle aziende e propone un progetto. Ma chi ti dà 12-15 milioni di euro e tu non puoi garantirgli se sarai al Giro, non sei proprietario dei cartellini, non hai né diritti tv né una struttura per cui puoi dire: ti vendo come immagine il gruppo sportivo. E ancora: serve un business plan. Per delle grandi aziende magari 15 milioni sarebbero anche bruscolini, ma tu in cambio cosa puoi offrirgli?

«Dovresti avere un grande manager che va a convincerle».

- Perché uno Stanga, al di là che ormai ha una certa età, o un Bordonali dicono di non vedere più nel ciclismo un'opportunità di business?

«Sì, ma son quelli che l'uva era acerba. Lascia stare. Bordonali va a convincere ENEL per il ciclismo, ma chi è? Con tutto il rispetto, eh. Manca questa figura. Visto che la cifra è così importante».

- Ma anche a trovarla, poi vai a scontrarti con realtà che ne spendono venti in più. Se anche ne strappi 15 e gli altri a budget ne han 35, dove vai? Patrick Lefevere, non proprio l'ultimo arrivato, per il 2018 cercava un secondo sponsor per la Quick-Step Floors e non lo trovava. La FDJ di Marc Madiot è diventata secondo sponsor dietro Groupama, sennò chiudeva.

«La grandi colpe ce l'ha l'UCI, che ha montato tutto questo teatro».

- Quindi il peccato originale è il World Tour?

«Sì. Ma lo stesso campionato del mondo: Vicenza non riesce a farlo, per il 2020, ma perché devi tirar fuori 12 milioni di euro e fai fatica a pareggiare? Con dodici milioni?! Per un mondiale?!».

- Infatti i norvegesi per Bergen 2017 ci son andati sotto.

«Certo. Ma ti sembra logico? È allucinante spender 'sti soldi qui. È tutta colpa dell'UCI, che, come giustamente dice Moser, ha montato una struttura così grande che deve far così sennò travolge tutto».

- Il problema è che non hanno i diritti televisivi e quindi, come mi ha detto Bordonali, è come se tu avessi una compagnia di attori e pagassi tu per farli recitare.

«Certo. Ai mondiali di Lisbona 2001 assegnarono quelli del 2004. C'erano quattro candidature italiane: c'era Cuneo, Verona che poi l'ha fatto, il Trentino e Imola. E poi lo fecero a Verona perché c'era dentro Sanson».

- E come ha fatto Verona a farne addirittura due in cinque anni, nel '99 e nel 2004?

«Perché Sanson conosceva Verbruggen... [ride] Ma ti dico: c'eran quattro candidature italiane. Adesso non riesci più a farlo. Quindi capisci che è tutto per questa cosa qui. Anche lo stesso Tour: per la Grand Départ chiede sette milioni. In Piemonte sono in tre o quattro in ginocchio che chiedono una tappa, e a me Christian Preudhomme ha detto: "Io prima di andare in pensione voglio partir dall'Italia, l'unico Paese che mi manca è quello di Coppi e Bartali: da lì non siamo mai partiti". E io: "Ma parliamone". E già allora, eravamo nel 2012, chiedeva cinque milioni di euro. Ma cazzo... Arriviamo lì mercoledì, giovedì, venerdì, sabato la prima tappa, domenica la seconda, lunedì partenza della terza. Mah, insomma... Son cinque milioni di euro! Düsseldorf gliene ha dati sette. Londra si è ritirata».

- Ricorderai che nell'87, due anni prima della caduta del Muro, il Tour partì da Berlino, in un caldo infernale e si corse in Germania per cinque giorni prima di entrare in Francia.

«L'unico che non ho fatto. Ma con la partenza da Gerusalemme, il Giro è passato avanti al Tour».

- Ti diverti ancora a guardare il ciclismo?

«Sì. Non più come una volta, ma fra calcio, ciclismo e sci, continua a essere primo il ciclismo».

- Non ci sono troppi soldatini, in gruppo, rispetto ai tuoi magici tempi? Non che quelli di oggi non lo siano, ma quelli di te più giovane intendo.

«Eh sì, certo. Ma ci sono gli auricolari, le radioline...».

- E nel ciclismo delle radioline, dell'Srm, dell'ossessione per il rapporto peso/potenza, una Sappada - o una La Plagne con Roche fatto rinvenire con la maschera dell'ossigeno dopo aver inseguito Delgado - oggi forse non succederebbero. Dall'ammiraglia gli direbbero subito, via auricolare: rallenta, sei dentro e domani hai la cronometro. Tu ci credi a una Sappada o a una La Plagne nel ciclismo di oggi?

«È molto più difficile. Per questi motivi, l'hai già detto tu».

- Non volevo pilotarti la risposta...

«No, ma è così. È così».

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