Fausto Bertoglio - Non sparate sul chitarrista


di CHRISTIAN GIORDANO ©
in esclusiva per RAINBOW SPORTS BOOKS ©

Il gregario che si risveglia campione. Partito come aiuto del predestinato Giovanni Battaglin, il 26enne Fausto Bertoglio arriva invece a vincerlo il Giro d’Italia del 1975. Un’edizione privata, per irripetibili e per lui fortunate congiunzioni astrali, del duplice fattore “M”. Merckx influenzato che rinuncia per febbre, e con lui l’intera Molteni. Moser che va al suo unico Tour in ripicca al duro percorso rosa che Torriani aveva disegnato per Baronchelli, secondo l’anno prima, da neo-pro’, a dodici secondi dal Cannibale. 

Negli ultimi dieci chilometri, sui 48 tornanti innevati dello Stelvio, il duello fra Bertoglio e lo spagnolo Francisco Galdós diventò un instant classic. E con quel nome, Fausto, che però nulla c’entrava col grande airone, le iperboli si sprecarono. Qualcuno, fatalmente, ci giocò. Forse troppo. «Fausto come Coppi» si leggeva sui cartelli dei tifosi. E dire che all’anagrafe Bertoglio fa Faustino, come lo zio.

Servivano personaggi, e nessuna delle tre B lo era, o comunque non lo era abbastanza: non l’incompiuto Baronchelli, né lo sfortunato Battaglin, talento vero che sei anni dopo avrebbe centrato la doppietta Giro/Vuelta, e tantomeno l’umile Bertoglio, che campione non era ma scalatore vero e puro sì. 

Inviso a Gimondi che l’anno dopo non lo avrebbe voluto in azzurro al mondiale di Ostuni, ma non a Moser al servizio del quale un Bertoglio ormai demotivato avrebbe chiuso la carriera, il bresciano di San Vigilio nel ’76 fece terzo al Giro e nono al Tour; un duplice canto del cigno per l’ex brutto anatroccolo prima dell’epilogo più scontato nel romanzo di un ex corridore: un negozio per ciclisti. 

Fausto quel giorno a Campobasso non vide né tradì il suo capitano in rosa che aveva forato. La maglia passò a Galdós, che poi la restituì a Battaglin primo nella crono di Forte dei Marmi. All’indomani del riposo, la cronoscalata: terreno di caccia per Bertoglio, grimpeur di vocazione che per hobby strimpellava la chitarra. La suonò anche quella sera in hotel al Forte, e a suo modo un po’ fece epoca. Altro ciclismo, altro mondo.

A differenza di Stephen Roche nella tappa di Sappada al Giro ’87 con Roberto Visentini, altro bresciano, ma di lago e compagno d’allenamento di Fausto, Bertoglio al Ciocco fece sì la propria corsa ma non attaccò mai il suo capitano in rosa. Semplicemente, andava più forte. E Battaglin saltò. Per favore, quindi, occhio al cartello: non sparate sul chitarrista.

“Bertoglio Sport”
Concesio (Brescia), martedì 4 dicembre 2018

- Fausto Bertoglio, impossibile sbagliarsi. Casa-negozio color rosa-Giro e sulla facciata che dà sulla stradina davanti, il monte dipinto e una scritta inequivocabili: «Stelvio ’75».

«L’ha fatto un mio amico pittore, Angelo Busacchini. Quando abbiam pitturato la casa, è venuto qua per qualcosa per la bicicletta e mia moglie gli ha detto: ma non potresti fare…? A mia insaputa, e poi l’ha fatta».

- Ah, come sorpresa? Perché è dipinto, no?

«Sì, sì. È dipinto».

- Stelvio ’75: le è cambiata la vita, vero?

«Sicuramente sì. Le soddisfazioni che ho avuto m’han dato… Non m’han dato tantissimo, perché i tempi non erano…».


- La casa, il negozio. Tutto sudato ma per davvero. Alla lettera.

«Sì, sì. Non m’ha regalato niente nessuno, perché ai tempi non era come oggi».

- Oltre ai pochi soldi, ai tempi c’erano anche dei signori corridori. Una generazione buonina, dai…». [sorridiamo, nda]

«Eh sì, signori corridori. E squadrette. Le squadre erano quello che erano. Non giravano tanti soldi».

- Lei com’è arrivato al ciclismo? Passione di famiglia?

«No, no. Ho cominciato con la bicicletta di mia sorella, a sei-sette anni, otto anni, giravo qua in paese. Una domenica son passate le corse, dilettanti o allievi, non mi ricordo più. Facevano il Passo della Forcella, qua da Gussago fino a San Vigilio. E la Forcella era sterrata. Mi ricordo che non era asfaltata. E quel giorno lì pioveva. Son passati tutti infangati, tutti sporchi…».

- E quel bambino ne rimase affascinato.

«M’ha colpito quel fatto lì. Prendevo la bicicletta fin su alla Forcella, però era una bicicletta con solo un rapporto, da pianura. La Forcella però è duretta. Si arrivava a un punto, tac, io mettevo il sasso lì, per vedere se riuscivo ad andar più su, ma bene o male arrivavo sempre lì. Invece a un mio compagno, lui aveva studiato, le superiori o non so cosa avesse fatto, gli han regalato una bicicletta con un cambietto. Però al tempo non si stava lì a guardare cambio o non cambio, non si sapeva. So che lui faceva qua, a cronometro, il giro del paese. C’è la strada che fa il circuito al paese, ed io li battevo… [ride] Però quando quel mio amico lì ha preso quella bici, “dai che andiam a fare la Forcella”…».

- Chi era quell’amico lì?

«Domenico Scaramuzza. Facciamo la Forcella. Andiam sulla Forcella, io bene o male arrivo al punto strategico e invece lui va su. “Lui è più forte di me!”, non si calcolava che aveva il cambio… Finché un giorno non è venuta ad abitare qua a San Vigilio mia sorella, che si era sposata sui Ronchi di Brescia, sulla Maddalena e poi è venuta ad abitare in paese, qua da noi. E mio cognato, suo fratello, dal Belgio ha portato una bici da corsa, manubrio da corsa e un cambio, niente di particolare: e fammela provare, dai, fammela provare… Me l’ha fatta provare, e vado su alla Forcella… [ride] La vetta era sempre quella lì. Su alla Forcella, sui Camaldoli, che è una strada sterrata che va sulla montagna qua sopra, su in cima, su e giù, su e giù, ormai avevo capito che c’era di mezzo qualcosa. Poi a sedici anni ho cominciato a correre». 

- Sfatiamo un falso mito: Faustino all’anagrafe ma non c’entra niente Fausto Coppi.

«No. Faustino era il nome del mio povero zio, allora mio padre m’ha dato il nome di suo fratello. E dopo…».

- …i giornalisti ci han un po’ ricamato sopra?

«Sììì. Han legato un po’ e via. È così».

- Giro del ’75, in maglia rosa c’era Battaglin. Che cosa successe?

«Allora: al Giro ’75 io partivo come comprimario di Battaglin, senza… con la pretesa magari di puntare a una tappa». 

- Il capitano quindi era Battaglin?

«Sì, sì, era lui. A Prati di Tivo prende la maglia Battaglin [che vinse con 21” su Francisco Galdós, nda]. A Campobasso, il giorno dopo, all’ultimo chilometro, Battaglin fora. Eravamo tutti in fila…».

- E quindi lei, da gregario, non doveva aspettare il suo capitano che aveva forato?

«Sì, però io non l’ho visto. Io ero in fila, lui s’è fermato. E il giorno dopo che aveva preso la maglia, l’ha persa. L’ha presa Galdós [per 23”, nda]. Io ero arrivato lì lì, ero quinto in classifica [a 1’55” con Bitossi, Baronchelli, Gimondi e Conti, nda]…».

- Quindi la gamba c’era…

«Sì-sì-sì. E dopo, lì, con la squadra era successo un po’ il patatrac, perché eran lì tutti… Eran lì tutti: eh, però, all’ultimo chilometro, ma come si fa a… Io ero per i cavoli miei, perché anch’io puntavo a qualcosa, però…».

- Ah, ecco: però c’è un però…

«…però io Battaglin non l’ho visto. Onestamente, non l’ho visto».

- Battaglin era dietro o davanti?

«Non mi ricordo se era davanti o dietro. Non mi ricordo, perché non l’ho visto. C’erano gli altri, c’era il resto della squadra».

- Il direttore sportivo chi era?

«Marino Fontana. La sera è venuto da me: ma sai, qua e là… E io: “Se mi credete, io non l’ho visto. Non so se ero davanti o dietro…”».

- Battaglin era arrabbiato di brutto?

«Mah… Non più di tanto. Perché d’altronde, oh, se fori… Anche se gli davo la mia bicicletta, che cosa faceva? Il gruppo passava fuori. Eravamo a uno-due chilometri dall’arrivo, non so…».

- Battaglin quindi la maglia l’ha persa a causa della foratura?

«E sì, eh. Sì, sì: l’ha persa per pochi secondi [23”, nda], e la sera c’è stato quel discorso lì. “Oh, se mi credete, altrimenti prendo la mia valigia e vado a casa. Non sto a discutere tanto, se mi credete…”. Difatti, è finita lì la storia. Si arriva alla cronometro di Forte dei Marmi [13ª tappa, 38 km, nda] e Battaglin vince la tappa e riprende la maglia».

- Vince con 13” su Gimondi, quarto nella generale a 3’20”. E lei in classifica sale da terzo a 1’24” a secondo ma a 1’42”, con Galdós terzo a 2’40”.

«Ecco, lì prende la maglia. Il giorno dopo [il 30 maggio], riposo. La tappa successiva, è Il Ciocco». 

- La cronoscalata.

«Una cronoscalata. Il giorno di riposo abbiamo fatto il trasferimento, siamo andati a Fornaci di Barga, in albergo».

- Il trasferimento era corto?

«Sì, e c’era da fare il Passo, in allenamento abbiamo fatto ’sto passo, arrivi in Garfagnana e andiamo a provare Il Ciocco. Siamo qua, proviamo Il Ciocco. Andiamo su col 25, il 24. Si va su: ta-ta-ta… E tra me e me dico: ah, la tappa è mia!».

- Ah, sì?

«Sì-sì-sì: la tappa è mia. La cronoscalata era il mio forte, eh, ancora da dilettante: le avevo vinte tutte…». 

- Lei era un fuscello, quanto pesava?

«Sessantasei chili».

- Per uno e…?

«Per 1,74». 

- Statura neanche bassissima per uno scalatore puro.

«Ho detto: la tappa è mia. Ma non pensavo che… Quando sono arrivato su, man mano che arrivavano gli altri guardo dietro, dietro, dietro, finché arriva Battaglin. Prima che arrivasse Battaglin, ancora all’ultimo chilometro, viene Guerrino Farolfi, il telecronista, che ha appena portato il tempo: il migliore è il mio, e via avanti. Passa un po’, arriva di nuovo De Zan, viene su, torna di nuovo Farolfi e dice: “[Bertoglio] ha vinto la tappa e ha anche la maglia…”. Ha cominciato a venirmi la pelle d’oca, ho tolto la maglia a Battaglin…».

- Dopo quanto successo due sere prima…

«Sì, però io ho fatto la mia corsa, lui ha fatto la sua». [Battaglin arrivò nono a 1’48” da Bertoglio, che gli prese la maglia per 6”, nda]

- Perletto secondo a 43”, terzo Baronchelli a 59”: non male come podio.

«Sì, infatti l’avevan fatto per Baronchelli quel Giro lì, perché l’anno prima aveva fatto secondo».

- A dodici secondi da Merckx e al primo anno da professionista.

«Da lì si va avanti e la tappa dopo si fa il Carpinelli, si partiva dalla Garfagnana e si arrivava ad Arenzano, poi per venire giù si fa il Bracco. E lì, sul Carpinelli, secondo me, c’è stata un po’ la coalizione Bianchi-Scic, Gimondi con Baronchelli: tutti lì davanti e a un tal punto c’è battaglia, tutti filati perché non era una salita impossibile…».

- Infatti, ad Arenzano siete arrivati in volata: Bitossi su Paolini e lo spagnolo Lasa.

«Sì, ma non in tanti. Eravamo in pochi in volata. Eravamo una ventina, non di più. In pratica cosa han fatto? I gregari facevano i buchi: tah-tah. O Scic o Bianchi. Tac-tac-tac, in pratica mi son trovato… Knudsen, il mio compagno di squadra, ha detto: alé-alé-alé, due tirate o tre, io e lui, siam rientrati io e lui. Dieci corridori davanti. Battaglin era dietro. In fondo alla discesa, ha cominciato a piovere, eravamo in dieci. Arriva l’ammiraglia e Fontana ferma Knudsen. Per aspettare Battaglin. Non poteva fermare me. Se fermava me era finito tutto, eh-eh…». [ridacchia, nda] Al Bracco, vedo che da dietro arrivan le ammiraglie: Baronchelli aveva attaccato. Baronchelli, un po’ uno e un po’ l’altro, comunque io andavo…». 

- Fontana quindi era tra l’incudine e il martello: tra Battaglin capitano e Bertoglio maglia rosa. Un po’ come Boifava con Visentini e Roche al Giro ’87.

«Sì, ma era più per Battaglin. Logico: avevan fatto la Jollj Ceramica per lui». 

- Anche se non era ancora il grande Battaglin…

«…però l’anno prima aveva vinto il Giro d’Italia da dilettante. Lo aveva vinto con la Jollj, e l’avevan fatta, ancora da dilettante, per portarlo al professionismo. Quindi…».

- …era un nome.

«Era un nome. E niente, rientrano le ammiraglie e ho detto: son qui e m’arrivano dieci-dodici corridori. Eravamo in nove davanti, perché Knudsen l’avevan fermato, quindi eravamo una ventina, non di più, in volata. Guardo: e Battaglin non c’è. Allora chiamo l’ammiraglia, e mi dice: guarda che Battaglin è saltato».

- Come mai era saltato, se il passo non era impossibile? Per via dei buchi?

«Han fatto tutto l’inseguimento. Tutta la squadra a tirare per rientrare sul Bracco. Dovevano rientrare sul Bracco perché sul Bracco è rientrato Galdós, è rientrato Bitossi. In dieci-dodici sono arrivati. In volata eravamo una ventina e lui non c’era. Avrà preso otto-nove minuti, non so…». [in realtà furono quasi dieci: 9’41”, nda]

- Saltato proprio…

«Saltato. E da lì dopo…

- …finalmente la squadra ha corso per Bertoglio?

«Da lì han corso, per forza…».

- Anche perché sennò addio Giro, con l’uno e con l’altro.

«Sì-sì-sì…». 

- Una situazione simile è successa fra Roche e Visentini al Giro ’87, ma a differenza sua…

«…io non ho rubato niente». 

- Lei non ha attaccato la maglia rosa, suo capitano e vincitore l’anno prima. Che differenze ci trova? Roche e il suo gregario Schepers quell’azione l’avevano preparata?

«Le colpe lì… Lì, ha attaccato. Ha attaccato. Il direttore sportivo quindi lì ha sbagliato qualcosa». 

- Boifava a un certo punto si è trovato nella stessa posizione di Fontana. 

«Le cose dopo gli sono andate a fagiolo perché Roche ha vinto Giro d’Italia, Tour e mondiale., quindi… Però a Visentini l’han fatta sporca».

- Ecco, questo volevo sapere. Vista da un gregario – per di più bresciano – che il Giro lo ha vinto diventando capitano, di fatto, su strada: l’han fatta sporca?

«Sì-sì-sì, l’han fatta sporca. Sì-sì-sì».

- E difatti Visentini non l’ha mai dimenticata.

«È logico. È logico! Cioè: un conto è che uno ti attacca, com’è stato lì… Io nella cronometro [al Forte] ho fatto la mia corsa, lui [Battaglin] ha fatto la sua. E dopo ci siamo trovati lì, ma la maglia rosa e io eravamo lì a quaranta secondi, primo e secondo in classifica [Bertoglio a 1’42” da Battaglin dopo la 13sima tappa, nda]. Anche se poi c’era già un segnale. Quando eravamo sul palco, al Ciocco, sotto c’era Fontana. Era lì sotto il palco con Ferruccio Franceschini, il titolare della Jollj. Quando lo speaker ha detto: eeehhh Bertoglio, tappa e magliaaa… Eeeh…”». [fa il gesto di mettersi le mani tra i capelli, nda]

- Fontana si è messo le mani tra i capelli?

«Sì, e anche il titolare. Sì-sì-sì: io li ho visti. E mi son detto: io faccio quello che… mi sento di fare, e se mi dicono…».

- E in albergo la sera, dopo che ha visto quella scena?

«Niente. Niente, ho visto che anche Battaglin era un po’ giù di morale, però era secondo. Io poi dovevo essere suo gregario a quel punto lì, no? Perché a sei secondi, sì, c’è il mio compagno che è mio gregario, ha la maglia, va bene… Più bello di così, per la squadra… Invece loro si sono trovati non so cosa…».

- Tra lei e Giovanni però il rapporto era buono?

«Sì, sì…».

- Sì? E da lì è cambiato?

«No, no, ma dopo… È normale, lui era capitano. Era passato professionista con qualcosa, io ero un gregario. Avevo fatto due anni il gregario a De Vlaeminck alla Brooklyn. Quando ho vinto il Giro, ci siamo trovati alla Domenica Sportiva, c’era Cribiori, c’era Perfetti, il titolare della Brooklyn, il piccolino. Ho visto la foto. Me l’ha fatta vedere il Mantovani, Giovanni… M’ha fatto vedere la foto che ha fatto con Perfetti, con Cribiori… Il Perfetti viene là a farmi i complimenti, era là tutti i giorni al Giro, e mi dice: complimenti per il Giro, e pensare che eri qua con noi… Perché l’anno prima dalla Brooklyn ero andato alla Jollj». 

- E ci è rimasto tre anni.

«Sì, poi la Jollj è saltata. A metà stagione è saltata, ci ha lasciato nel ’77». 

- I soldi son arrivati tutti, o no?

«Abbiam preso il 40%, dopo cinque anni, di quello che dovevamo prendere. Han fatto un concordato. C’era ancora Pasquale Maisto presidente della Lega ciclismo. Al tribunale di Padova [il foro competente perché la Jollj Ceramica aveva sede a Casalserugo, nda]: voi prendete tutti i vostri soldi che dovete prendere. Non potevamo prendere un legale, noi».

- Perché?

«Perché eravamo tutelati dalla Federazione. C’era anche questo discorso qua». 

- Queste cose la gente non le sa…

«Eh-eh-eh! Invece se noi avessimo avuto un nostro avvocato, avremmo portato avanti i nostri…».

- Poi un avvocato l’avete preso lo stesso?

«No, non potevamo, perché c’era la Federazione. E dopo cinque anni son arrivati il 40%...».

- O questo o niente?

«O questo o niente. Prendiamo quello che c’è». [sorride amaro, nda]

- Poi, alla Selle Royal.

«Sì. E tornando al discorso di Perfetti: se avessi vinto il Giro con la Brooklyn, allora sì che il discorso sarebbe cambiato, e di tanto. Mentre lì alla Jollj…».

- Dopo quel Giro vinto, in squadra i rapporti com’erano? 

«Era sempre divisa ma…».

- Perché poi, l’anno dopo, al Giro lei ha chiuso terzo…

«Sì, io l’anno dopo ho fatto terzo e Battaglin non mi ricordo cosa ha fatto [si ritirò alla 16esima tappa, nda]. Ho fatto terzo al Giro e nono al Tour. E anche lì la squadra, un po’ per l’uno, un po’ per l’altro… Non c’era una squadra unita». 

- Fontana c’era ancora? L’ha avuto anche alla Selle Royal?

«No, no: solo i tre anni alla Jollj. Dopo, io lì ho cominciato ad andare un po’ più piano…».

- Alla Selle Royal il diesse chi era?

«Carlino Menicagli, che alla Selle Royal aveva fatto due anni [1977 e 1978, nda], e poi insieme con Primo Franchini alla San Giacomo». 

- Sempre qui nel Bresciano?

«No, era in Friuli: un mobilificio». [la sede è a Cecchini di Pasiano, Pordenone, nda]

- E lì chi aveva come diesse?

«Franchini. Abbiam fatto insieme un anno alla Selle Royal, poi ha trovato lo sponsor e l’anno dopo [nel 1980, alla San Giacomo-Benotto, nda] sono andati lì Visentini e Maertens ».

- Visentini che tipo era?

«Con me è sempre stato… A parte che ha quasi dieci anni meno di me [Bertoglio è del 1949, Visentini del 1957, nda]… Ci trovavamo in allenamento. Io facevo spesso il Garda, lui è di Gardone Riviera ed io facevo il giro dei tre laghi: Brescia-Salò-Riva…».

- Vi trovavate apposta o v’incrociavate per strada?

«Io partivo con Alessio Antonini, che era il mio gregario. Io e lui, poi se c’era qualcun altro… Delle volte si usciva anche in sette otto, perché eravamo un bel gruppo di bresciani, allora lui si accodava. Facevamo: Gargnano-Gardone Riviera-Gargnano. È una salita, si faceva l’Idro, 140 chilometri però senza andar su fino a Gargnano la diga. La salita è una buona salita, lui due-tre chilometri, poi: “Ciaooo ragazzi”, tornava indietro. Sì-sì-sì… [ride, nda] Tornava indietro! Perché lui… A me invece piaceva anche in allenamento…».

- Voi eravate tutti scalatori puri, o no?

«No, c’era anche Antonini, c’era anche altra gente, Aldo Parecchini veniva. Venivano per fare… Poi io arrivavo su in cima, lì a Valvestino. E c’era una salumeria, facevano i panini. Arrivavo su e c’era una lavanderia, un lavatoio con due fontane che venivan fuori. Io entravo, facevo i panini per sei o sette, facevo i panini per tutti, portavo i panini là, mi facevo la mia acqua e poi arrivavano, uno alla volta arrivavano... [ride] Ecco, per dire. Son bei ricordi questi. Eran belle soddisfazioni. Il ciclismo era più alla buona, si correva per passione anche». 

- Ah sì, di grana non ce n’era tanta. Sicuro.

«No. Si doveva aver passione, adesso girano soldi. Almeno, io spero che li prendano. Si sente parlare di cifre spropositate».

- Soprattutto in certe squadroni.

«Però chi merita… Il discorso è sempre quello: è giusto che guadagni qualcosa anche il gregario. Tornando indietro un passo, io ho fatto quella scelta, di andare dalla Brooklyn alla Jollj, ma io alla Brooklyn guadagnavo bene, ed ero gregario: perché De Vlaeminck vinceva trenta corse l’anno».

- E le vinceva anche grazie a voi gregari. 

«Prendevo più di premi che di stipendi, eh».

- E quindi perché ha cambiato?

«Ho cambiato perché ho detto: io mi sento di dare qualcosa, di provare. Perché esser sempre a far il gregario, a star qua, corse in linea, per dire, a fare cento chilometri, spingere-tirare-mollare e poi andare in albergo, che soddisfazione hai? Non ha senso, allora ho detto: provo un anno. Se va, va. Altrimenti smetto, vado a lavorare». 

- E quindi ha provato.

«Ho provato e ho avuto le mie soddisfazioni. Anche se un grande appoggio, come squadra, non l’ho mai avuto».

- Perché, non era abbastanza personaggio?

«Mah, non so… Ripeto: se il Giro lo avessi vinto alla Brooklyn, m’avrebbero detto: allora, tu devi fare così e così, hai la responsabilità delle corse a tappe, della squadra… Così, era un altro discorso. Ma a me, alla Jollj, questo discorso non lo ha mai fatto nessuno. Ho fatto quello che è venuto, io logicamente mi son cercato… Però non è che m’hanno aiutato più di tanto, no?».

- Nelle sue interviste ha sempre tenuto un profilo molto basso.

«Sì. Logicamente, da gregario arrivare lì in un colpo è stato un bel passo, capito? Io mi son sentito sempre piuttosto “umano”, ecco, non…».

- A un certo punto si è trovato a dover sostenere un ruolo non suo, troppo più grande di lei?

«Sì, sì. Più che altro io cercavo una tappa, la tappa della Maddalena, qua, dove poi ho fatto secondo. Il mio punto in quel Giro lì era la tappa della Maddalena. Perché la conoscevo bene, mi ero prefisso il punto dove, se mi fossi trovato lì, sarei partito…».

- In quel Giro c’è stata anche una serie di circostanze per lei fortunate: non c’era Merckx, influenzato, non c’era Moser…

«Moser non c’era perché il Giro era troppo duro. Era andato a fare il Tour». 

- L’unico della carriera. Subito in giallo già dal prologo di Charleroi, poi perse la maglia anche per via di una caduta in discesa, chiuse con la bianca di miglior giovane e il settimo posto nella generale. Poi, nel 1980, lei passa alla Sanson e ne diventa il gregario per le salite.

«È il mio ultimo anno. Si arriva all’80, e io a dicembre ’79 ancora non avevo avuto alcuna…».

- Chi era il diesse lì, Giorgio Vannucci?

«Sì, con Valdemaro Bartolozzi». 

- Li aveva già avuti?

«No, mai».

- E come si è trovato?

«Son arrivato a dicembre e nessuno si era fatto vivo. Nessuno. È finita lì, la faccenda. Dopo il ’79 alla San Giacomo, cos’han fatto?, nel ’79 han preso [per l’80] Visentini e Maertens. Io sono arrivato all’inizio dell’80 e già stavo aprendo il negozio. Ero sulla statale, non ero qua [in centro a Concesio, nda]. Avevo cominciato a prepararmi il negozio e ai primi di febbraio una sera suona il telefono: “Pronto, sono Francesco…”. Ho detto: “Francesco chi?”. “Moser”. “Ah, ciao, ciao…”. La sera alle dieci. Mi telefona Francesco, sai, non è che mi chiamasse tutti i giorni».

- Quindi non solo se andava a sceglierseli ma li contattava anche di persona i suoi gregari…

«Dice: “T’ho chiamato perché mi serve una mano al Giro”. Eh, mi chiami adesso che non ho fatto preparazione invernale, non ho fatto niente, sto aprendo un negozio… “Eh, dai, c’hai tempo per prepararti…”».

- E i soldi almeno eran buoni, o no?

«Eh, insomma. Anche lì, l’accordo… Sono andato giù che già avevano cominciato a correre, avevan fatto la cronostaffetta a Pistoia, mi sembra».

- Moser perché l’ha chiamata a febbraio e non prima?

«Non so perché. Si vede che non trovava nessuno che andasse in salita. Però mi chiami a febbraio… Niente, ho cominciato e ho fatto: Giro del Trentino e Milano-Vignola. Basta». 

- Così, senza allenamento?

«No, ho cominciato ad allenarmi, però da zero, eh. Da zero. Dopo un po’ ho fatto il Giro del Trentino e la Milano-Vignola e subito il Giro. [sorride] E le tappe che ho fatto, pioveva. Era una sofferenza, perché non avevo la condizione. Però pian pianino, ha cominciato a venire bel tempo e ho cominciato a pedalicchiare, pian pianino. Corsa a tappe: era una manna, per me, poter correre tutti i giorni. Nelle corse in linea invece ero un po’ penalizzato».

- E in quel Giro lì, nell’80, c’era un certo Hinault.

«Sì-sì-sì, mi ricordo la tappa dello Stelvi. La sera prima, la tappa che si faceva le Palade o non so che passo, si arrivava in Val di Non [19ª e quartultima tappa, Longarone-Cles di 241 km, nda], l’ho tirato all’arrivo. Su in salita, Moser m’ha detto: vai, vai, vai! Io vado. Mi accodo a Hinault e ai primi. Davanti, a un chilometro, c’era Teofilo Sanson: «Bertogliooo, ’spéta Moseeer!» [sorride mentre lo imita in dialetto veneto, nda] E allora aspetto. Aspetto Moser, e comunque Hinault aveva sentito gridare Moser, e l’ho tirato all’arrivo. Ho perso trenta-quaranta secondi quel giorno lì. Il giorno dopo si parte e c’è lo Stelvio [20ª tappa, Cles-Sondrio di 221 km]. Si fanno di nuovo la Meldola, mi sembra, o le Palade, si va a fare lo Stelvio e si arriva alla famosa tappa di Hinault che, prima dello Stelvio, manda via Jean-René Bernaudeau [che poi vinse la tappa con 2” sullo stesso Hinault, nda]. La sera viene Bartolozzi e mi dice: “Guarda, domani sai cosa c’è? C’è lo Stelvio, ti ricorda qualcosa?”. “Sì, mi ricorda qualcosa. Però le gambe son quelle che sono. Però cercherò di fare del mio meglio”. Infatti ero lì coi primi. Ho mollato a sette-otto chilometri dalla cima. Ho detto: li prendo in discesa. In discesa sono entrato in una galleria scura. Non la conoscevo, non ho più visto niente. Mi son messo là così [mima una posizione di guida con presa sicura e concentrazione massima, nda], son uscito che vedevo appena appena un alone là in fondo. Sono uscito dalla galleria, ho dato una frenata e ho detto: ma chi lo fa fare… Ho già due figli, è l’ultimo anno che corro, per dare una mano a lui… che me ne frega a me di andare… Ho dato una frenata… Ho tirato fuori il panino, perché si arrivava fino a Sondrio, mangio il panino ad andar già e dietro, Roberto Ceruti, cremonese, arrivato non so da dove, mi fa: “Cosa facciamo?”. “Eh, cosa facciamo… Ma lo sai quanti ce ne sono davanti? Ci sono davanti sette-otto corridori, eh. Massimo, dieci corridori. Visentini, Schmutz, lo svizzero, e di questi qua non c’è nessuno, qualcuno arriverà…”».

- E la maglia rosa?

«In rosa c’era Panizza [che alla partenza aveva 1’08” su Hinault, nuova maglia rosa con 3’14” sullo stesso panizza, secondo nella generale, nda]. Si arriva giù a Bormio, e arrivano Visentini, Schmutz, non so cos’erano ma erano in classifica comunque [Visentini quinto a 5’07”, Schmutz era uscito dai primi dieci della generale già nella tappa di Cles, nda]. Ah vabbè, ci son quasi, perché da Bormio andare a Sondrio si viene giù ma c’è sempre il vento contro, è dura andare. Io sto mangiando il panino, tiro io e faccio il buco, e sto in coda, no? Mangio il panino e… Visentini torna indietro, la prima volta mi guarda, poi entra. Viene dentro la seconda volta, mi guarda, allora gli ho detto: “Roberto, adesso mangio il panino. Dopo, se ho voglia di tirare, tiro. Altrimenti sto qua dietro, me ne frega un tubo”. Io ero capitano, perché Moser era andato a casa la sera prima. Per quello. A Cles, il mattino viene Bartolozzi e mi dice: Guarda che così e così, perché Francesco è andato a casa. S’è ritirato».

- E perché s’era ritirato?

«Non andava, in salita si staccava. Non era brillante. Aveva qualche problema». 

- Moser pesava sette-otto chili in più rispetto a voi scalatori puri, in salita faceva fatica.

«Sì, faceva fatica. Era settanta e rotti chili [1,80 per 79 kg, nda] Quell’anno lì io ero 70 chili».

- Ah sì? Quattro di zavorra in più, figli di quell’inverno là?

«Se io avessi cominciato a gennaio la mia preparazione come facevo tutti gli anni…».

- E perché non l’aveva fatta da solo? Non sperava più di trovar squadra? O con la testa di fatto aveva già smesso?

«No, a un certo punto ho detto: ho trentadue anni… Non c’eran squadre, eh. Era dura. C’erano poche squadre, avevan fatto delle squadrette come la Intercontinentale [nel 1978], l’avevan fatta con Cribiori, aveva fatto una squadra piena di giovani».

- Ce n’era pure una di disoccupati con Miro Panizza e Giovanni Mantovani, vero?

«Sì-sì-sì. E ho detto: ma cosa vado a fare, perdo degli anni... Mantovani è stato qua la settimana scorsa. Si parlava della Selle Royal, era con me alla Selle Royal. Era l’uomo di punta. Quando arrivava la Sanremo era l’unico che batteva Saronni in volata. E invece cosa ha fatto? S’è rotto il femore con la slitta, col cavallo...».

- Me l’ha raccontata lui: impressionante. Un conto è leggerla, un conto è farsela raccontare da lui in persona. Da brividi.

«Era l’uomo di punta a inizio stagione e abbiam dovuto… Abbiam tribolato, anche lì: risultati poi, pochi».

- Impressionante la storia del cavallo che si era imbizzarrito, con Giovanni che anziché le staffe per attaccare la slitta aveva usato una corda... Dopo l’incidente, il cavallo è tornato nella stalla da solo e quando si è calmato sono andati a riprenderlo per caricare sulla slitta Giovanni. A Gudo Visconti c’era la neve e l’ambulanza era rimasta bloccata. E così hanno dovuto trainare Giovanni con la slitta a cavallo per portarlo fino all’ambulanza. Giovanni si era rotto il femore, ed è riuscito a girarsi la gamba in avanti da solo. Da svenire solo a sentirlo raccontare.

«Era in squadra con me. Doveva essere l’uomo di punta d’inizio stagione. E invece lì han tirato su le maniche e…».

- L’idea del negozio come le è venuta? Tanti ex corridori, una volta smesso, fanno quella scelta.

«Mah, così… Avevo fatto articoli sportivi e biciclette. Però avevo tutto, anche scarpe da ginnastica. Articoli anche per lo sci, per il tennis. Avevo un po’ di tutto».

- Poi invece, dopo che vi siete trasferiti, solo ciclismo?

«Sono stato venticinque anni là. Ancora prima di venir qua, qualche anno prima, ho detto: qua dobbiamo specializzarci sulla bici e basta».

- Anche perché c’erano già le grosse catene, no? La grande distribuzione: non sopravvivi.

«Sììì. No-no-no: fai i prezzi, e sei fuori. Loro hanno quantità enormi. Allora ho detto: lasciamo perdere, facciam solo ciclismo».

- E le cose vanno bene?

«Quattordici anni che son qua, quasi quindici. Quarant’anni di attività. E quasi quarantaquattro da quel Giro. Per il 45° voglio andare allo Stelvio. Ogni cinque anni andiamo allo Stelvio». 

- E lo farà in bici?

«Vorrei farlo ancora».

- In bici ci va?

«Sì, sì. Ci vado ancora. Ci vado in bici, eh. Quest’anno ho fatto due-tre mila chilometri, quindi non ho fatto tanto. Però ci vado. Per diletto».

- E il ciclismo lo segue sempre?

«Non tanto».

- Perché, si annoia?

«No, no, guardo le tappe in salita, tappe del Giro, del Tour. Le classiche, i mondiali. Corse importanti». 

- A proposito di mondiali, mi racconta i due suoi?

«Yvoir e Ostuni. A Yvoir, il mio primo, nel ’75, sono andato ma… Dopo il Giro dovevo fare il Tour e invece mi son fatto una bronchite, son stato malato. Ho recuperato pian pianino, ho fatto secondo alla Bernocchi [il 26 agosto, in volata dietro a Enrico Paolini e davanti a Giacinto Santambrogio, nda]. Ho fatto delle belle corse, m’han mandato lo stesso al mondiale, anche se c’erano Moser e Gimondi, era inutile andare al mondiale, io vado però… M’han mandato, e via. L’anno dopo, il ’76, ho fatto le premondiali, mi son comportato sempre bene, e Fontana mi dice: te e Battaglin siete dentro, siete in squadra. Bene. Arriviamo. Ultima premondiale, Coppa Placci, a Imola. Alla partenza viene Martini e mi dice: “Fausto, guarda che se non fai una bella gara oggi, sei fuori”». 

- Martini perché non credeva molto in lei?

«Eh, forse perché non andavo bene a qualcuno in squadra».

- Ah sì?

«Non faccio nomi». [ride]

- Però possiamo arrivarci…

«Sì-sì-sì. Eran due, eh: Gimondi o Moser. Ecco. Niente, lasciamo il dubbio».

- Gimondi perché non la poteva vedere?

«Così… Anche al Giro: ha detto che mi aveva aiutato». 

- L’ho letta dappertutto ’sta cosa qua. E invece non era vero?

«E invece non era vero. È stata una cosa un po’ particolare».

- Lo ha scritto anche Gino Sala: Bertoglio ha vinto il Giro con il fair play di Gimondi…

«Sì, sì, anche lui, però… A parte che Gino Sala sapeva le cose com’erano. Però l’anno dopo, allora, anch’io posso dire che abbiamo aiutato Gimondi, perché era caduto e lo abbiamo aspettato».

- Quello però è vero: il Giro ’76 lo vinse grazie anche alle alleanze che aveva in gruppo.

«Ci siam fermati, il gruppo si è fermato con Santambrogio davanti e la bicicletta così [fa il gesto della bici messa per traverso, nda], per fermare il gruppo. Quindi avrei potuto dire: lì, l’abbiamo aiutato. Ma la mia tappa, la tappa che m’han aiutato, sarebbe quella di Alleghe, la penultima. 

- Quindi è vero che lì l’hanno aiutata, oppure no?

«Allora: dopo varie salite si faceva il Pordoi. Quello lì era anche il giorno del Malga Ciapela. In salita m’ha attaccato Baronchelli, poi si scendeva a Canazei e si faceva il Pordoi. Nella penultima tappa, la Pordenone-Alleghe, si faceva il Passo Gardena. Allora, prima del Pordoi è andato via Galdós, è andato via De Vlaeminck [che poi vincerà la tappa, nda], chiamo l’ammiraglia: io cosa faccio? Perché eravamo lì non in tantissimi…».

- Il suo primo istinto non fu quello di andar dietro a Galdós, il più vicino a lei in classifica?

«Sì, però, son stato lì un momentino… Lì ho sbagliato un po’ io. Prima di tutto ha sbagliato il mio direttore sportivo: “Te devi correre su Baronchelli”. Come, correre su Baronchelli? Son stato lì un momento, perché Baronchelli era là, così… Allora ho preso e son partito ma eran già andati via Galdós e De Vlaeminck. Questi qua vanno, eh… Io ho la foto in cui si vede che vado su col 53, il primo tratto del Pordoi, e a ruota ho Gimondi: eccolo lì l’aiuto. L’aiuto è questo qua… che ho dato io a lui! Io stavo andando su e ho detto: prima di arrivare su li prendo tutti quelli davanti. C’era una fuga di otto-dieci, una fuga di comprimari. C’era Santambrogio con sette-otto corridori che erano andati via prima. Però quelli che interessavano me erano Galdós e De Vlaeminck, e c’era anche Tino Conti [poi secondo all’arrivo, nda]. Prima di arrivare su li prendo. E Tino Conti mi diceva: Fausto, vai regolare, ti do una mano in discesa. Ecco, e io ho abboccato. Ho abboccato lì e… Due volte ho sbagliato».

- Ha rischiato di perdere il Giro lì, eh...

«Sì. Ho sbagliato due volte. Ha sbagliato il mio direttore sportivo. Se mi avesse detto: oh, cosa fai? Vai a prendere Galdós. Chiuso. E allora lì cosa successe? Abbiam preso quegli otto-dieci nel tratto di falsopiano che c’è prima di prendere la discesa, che poi è una discesa tutta curve in pavé, per scendere ad Arabba. Conti quegli otto-dieci li ha passati, io non li ho passati. Son stato lì perché non si poteva, non c’era spazio. Mi son girato, io dopo li ho passati tutti, abbiam fatto tutto il Pordoi, lui cento metri avanti, io cento metri a inseguirlo. Ecco l’aiuto che m’ha dato in discesa».

- In gruppo c’era chi godeva di buona stampa, vero?

«Non potevo dire niente. E difatti all’arrivo c’era Gimondi e cos’ha detto a De Zan? “Un italianooo, ho aiutatooo un italianooo” [ne imita l’accento bergamasco, nda]. E io a De Zan ho detto: “Eh, devo ringraziare Gimondi che m’ha dato una mano…”. Cosa potevo dire?».

- Che cosa succedeva se uno alzava il capino, non faceva più i circuiti?

«Sì-sì-sì. Il discorso di Moser: Moser parlava chiaro».

- Se ti mettevi contro…

«Eh, ciaooo… Moser quante beghe ha fatto con Gimondi? Lui diceva la verità e quello là invece era come toccare Padre Pio». 

- O Garibaldi. Insomma i padri della patria…

«Sì-sì-sì. Così». 

- E invece quella storiella della chitarra, com’era nata? Faceva parte dell’anti-personaggio?

«Io suono… Strimpello un po’ la chitarra, e la strimpellavo anche allora. Dopo è capitata quella chitarra lì non so da dove. Eravamo a Forte dei Marmi e han fatto delle foto». 

- Quindi eravate al Giro del ’75?

«Sì, era la sera della cronometro vinta da Battaglin, ho preso la maglia. Poi è successo quel che è successo».

- La chitarra la suona ancora?

«Sì, la strimpello ancora, qualche volta. Sì-sì-sì».
CHRISTIAN GIORDANO


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