FINALI MONDIALI - Maracanazo: O Dia da Derrota


«Era scritto che dovessimo vincere,
non temevamo né dio né demonio»
– Omar Míguez

di CHRISTIAN GIORDANO ©
FINALI MONDIALI - Le partite della vita
Rainbow Sports Books ©

Non di finale si parla nella IV edizione della Coppa del Mondo, appena denominata Coppa Rimet, bensì di «girone finale», con gare di sola andata da disputarsi fra le quattro formazioni che hanno superato il primo turno. L’ultima partita del raggruppamento, però, sarà molto più che una finale.

Nella prima tornata, il 13 luglio, grazie anche alla strepitosa quaterna secca del centrattacco Ademir, il Brasile annichilisce per 7-1 la Svezia di Jeppson e Skoglund, mentre l’Uruguay impatta 2-2 rimontando la Spagna dopo essere andato in vantaggio. nella seconda i carioca umiliano gli iberici (6-1), mentre gli orientales piegano per 3-2 la coriacea formazione scandinava.

Nella terza e ultima giornata, il 16 luglio, la Svezia supera 3-1 le Furie rosse e prima di Brasile-Uruguay, la gara che chiude il torneo, la situazione è la seguente: in testa la Seleção, 4 punti e +11 di differenza reti (13 fatte e 2 subite); seconda la «Celeste», 3 punti e +1 nel computo dei gol fatti (5) e subiti (4). Morale della favola, alla nazionale padrona di casa basta un misero punticino per laurearsi Campione del Mondo dopo le uscite al primo turno nel ’30, agli ottavi nel ’34 e il terzo posto nel ’38.

Al Maracanã, davanti a 200 mila invasati, sembra una festa annunciata. Già, sembra.

I locali partono strafavoriti. Il Ct Flavio Costa ha trasformato l’imperante modulo WM in un ibrido che passerà alla storia come diagonal. Astruserie tattiche a parte, la macchina da gol brasiliana funziona così: il terzino augusto rompe la manovra avversaria, il fluidificante Juvenal inizia la propria; Danilo e Bigode, tecnica nulla, grinta e polmoni infiniti, sbrigano il lavoro sporco, Bauer (il futuro scopritore di Eusébio) fa il centromediano metodista, come si diceva (e usava) allora.

Alle ali, Friaça e Chico inventano e rifiniscono per il centravanti Ademir, fuoriclasse per il quale verrà coniato un neologismo destinato a fare epoca: punta de lanza, il vertice arretrato del triangolo d’attacco. 

Per farla breve, una sorta di erede di José Piendibene, «nove» tattico del Peñarol degli anni Dieci o un Nándor Hidegkuti ante litteram, ma più cannoniere. Subito alle spalle del grande Ademir giostravano Zizinho (“o Divino mestre”) e il funambolico mancino Jair da Costa.

La crudele limitazione a scendere in campo in undici costringe i brasiliani a privarsi del discontinuo gioiello Tesourinha, il grande escluso che caratterizza ogni edizione della Seleção e, secondo alcuni, il più grande dribblatore della storia, Garrincha escluso. in porta, il miglior portiere del mondiale, Moacyr Barbosa, uno che, incredibile a dirsi per un portiere brasiliano, non sbaglia mai. Almeno così è stato fino a quel maledetto, «storico» pomeriggio del Sedici luglio, O Dia da Derrota, il Giorno della Sconfitta.

Una delle cose che più ci dà fastidio ascoltare/leggere, specialmente dagli addetti ai lavori, è che «non ha vinto la squadra migliore ma la più intelligente», oppure che a spuntarla «non è stata la formazione più forte ma la più cinica». Ma scusate, quando una squadra vince non è perché è stata più brava e al limite fortunata a segnare almeno un gol in più o a subirne almeno uno in meno degli avversari? E questa superiorità non è forse la somma pesata di tanti fattori, tecnica, tattica, carattere, buona sorte, malizia e chi più ne ha più ne metta?

Ora, se al Brasile bastava un pareggio per aggiudicarsi la tanto agognata coppa del mondo, che bisogno c’era di gettarsi scelleratamente in attacco, tanto più trovandosi già in vantaggio di una rete? Forse per dare una lezione agli odiati «cugini»? Be’, signori, allora questa è presunzione. nessuna meraviglia che sia stata giustamente punita dall’Uruguay, che quindi, in quella circostanza, si è dimostrato superiore.

Lo stesso discorso è applicabile per Brasile-italia del 1938 o per Brasile-Italia del 1982. O no? Tra il 13 e il 16 luglio l’intero Paese si veste a festa, la grande festa. E si esagera. Vengono preparate undici limousine ciascuna delle quali reca sulla fiancata il nome di un titolare, dal numero uno Barbosa al numero undici Chico. E si sa quanto portino bene queste cose. 

Le sfilate lungo le strade di Río de Janeiro vengono organizzate nei minimi dettagli e ha inizio una guerra psicologica a base di «4» che campeggiano ovunque capitino gli uruguaiani, per ricordare loro il numero di palloni che il povero Máspoli avrebbe dovuto raccogliere in fondo al sacco il giorno del Grande evento.

Certi condizionamenti impressionano perfino i dirigenti della Asociación Uruguaya del Fútbol (AUF) che nella riunione pre-gara arrivano a dichiararsi soddisfatti se i loro ragazzi riusciranno a limitare il passivo a un paio di reti. Le reazioni del Ct López e di capitan Varela non sono pubblicabili. Ma c’è di più. alla vigilia della gara i giocatori brasiliani ricevono in dono un orologio con l’incisione: «Campioni del mondo». Ahi.

LA PARTITA

Più che una gara, lo si capisce prima ancora di cominciare, sarà una battaglia. Nel tratto che separa gli spogliatoi dal campo, Varela suona la carica ai compagni, prende in disparte il centravanti Míguez e gli sussurra: «Non vedi che faccia ha il loro portiere? Vorresti farmi credere che non sei capace di segnargli almeno due gol?».

Due giorni prima era toccato a “el mono” (lo scimmiotto) Gambetta, il mediano preferito a Juan Carlos González e deputato alla marcatura di Chico: «Se gli fai toccare anche solo un pallone, poi dovrai fare i conti con me». Dopo qualche attimo di suspense, ecco una fragorosa risata. Gambetta è così tranquillo che il giorno della gara, un’ora prima dell’incontro, si addormenta su una sedia.

Al lancio della monetina, lo stesso “el Jefe” (il capo) l’afferra al volo e si rivolge così alla giacchetta nera: «Signor arbitro, lasci ai brasiliani la consolazione di scegliere. Perché saremo noi i campioni del mondo». 

Gli uomini di Costa partono fortissimo, ma sono talmente spocchiosi da sottovalutare il palo colpito in contropiede da Míguez al 18’. Bigode e Ghiggia se le danno a colpi di sgambetti. Il terzino falcia un paio di volte l’ala ma al 25’ l’uruguagio coi baffetti da sparviero, lui pure memore del monito di capitan Varela, si fa rispettare cominciando a picchiare per primo. Un altro duello da scintille è quello tra Gambetta e Chico, una partita nella partita. in entrambi i casi il direttore di gara, il britannico Reader, interpreta il proprio ruolo «all’inglese» e assiste senza intervenire.

Il Brasile attacca a testa bassa ma al 38’ a salvarlo è un'avemaria di Schubert Gambetta, che respinge sulla linea a porta vuota un pallone che ha già superato Máspoli. Si chiude così un primo tempo ricco di emozioni ma senza lo straccio di un gol. Niente paura, vederne uno è questione di centoventi secondi.

Al 2’ della ripresa, infatti, il Brasile va in rete e lo fa nella maniera più inattesa, in contropiede. La spinta di Zizinho è incontenibile e a beneficiarne è soprattutto la coppia Ademir-Friaça. ed è proprio su un loro scambio stretto che l’esterno va in gol sferrando una conclusione angolata sulla quale Máspoli non può arrivare. 1-0: il Maracanã, gigantesco impianto costruito in appena un anno, dieci mesi e sei giorni, sembra scuotersi sin dalle fondamenta.

La rete non ha motivo di essere annullata, eppure Varela va a raccogliere il pallone per precipitarsi a protestare dall’arbitro. Per riportare la palla a centrocampo impiega 73 secondi. Settantatré. “El Jefe” sa bene di non avere nulla a cui attaccarsi ma la sua sceneggiata ha lo scopo di raffreddare un’atmosfera già incandescente, come a dire: attenzione, prima di seppellirci accertatevi di averci accoppati.

Al quarto d’ora, altro duello rusticano: Gambetta e Chico scambiano il rettangolo (verde) per un quadrato (pugilistico) e andrebbero espulsi, ma Reader non se la sente.

21’: Varela serve largo sulla destra per Ghiggia, che si libera di Bigode e mette in mezzo per l’accorrente Schiaffino, l’uomo che nell’intervallo capitan Varela ha attaccato al muro dei vestuarios perché (sic) non lo aveva visto abbastanza convinto di vincere. 

La leggenda vuole sia volato anche un ceffone, accompagnato alle memorabili parole: «Il calcio è per uomini, smettila di fare la signorina». Il grande “Pepe”, liberissimo, prende la mira e fulmina Barbosa: 1-1. Nel tempio del calcio cala il gelo.

Con questo risultato il Brasile sarebbe campione ma in ballo c’è qualcosa di più che una semplice coppetta, anche se si chiama Rimet. E così continua ad attaccare, andando incontro al suicidio, che per qualcuno, sugli spalti (e nelle sale scommesse) sarà non solo metaforico.

A undici minuti dalla fine, avviene l’impensabile. Dopo avergli chiuso il triangolo Ghiggia vede Julio Pérez superare in dribbling un avversario e scatta sulla destra. Pataloca, gambe matte, se ne avvede e lo lancia in un corridoio vuoto. Non appena il terzino brasiliano Bigode gli si avvicina, Alcides, anziché crossare al centro (per Míguez e Schiaffino) come tutti si aspettano, e Barbosa in primis, chiude gli occhi e tira in porta. Quando li riapre è già gol. Il povero Moacyr, che si era spostato leggermente a destra per farsi trovare pronto a intercettare l’eventuale traversone, si lascia infilare sul suo palo. La palla va a colpire beffardamente la bambola-amuleto, regalatagli dalla sua donna, che il superstizioso portiere aveva sistemato, come sempre, dentro la rete. Apriti cielo. Il Maracanã vive un silenzio irreale. A quel punto gli uruguaiani sono – incredibilmente – campioni del mondo. 

Il Brasile non ci sta e tenta il tutto per tutto. Si gioca ad una porta ma Varela, che urla come un ossesso, tiene a galla la barchetta uruguagia, traghettandola in porto.

Al 43’, ennesima mischia nell’area «celeste»: Máspoli, già straordinario poco prima su Chico, salva il risultato compiendo un’altra prodezza su una conclusione di Ademir. A quel punto è davvero finita. Reader volta le spalle all’azione e fischia per tre volte. 

L’unico ad avvedersene è Gambetta che, in piena area, blocca il pallone con le mani e se lo porta al petto. Qualcuno invoca il rigore. I (pochi) tifosi giunti da Montevideo si riversano in campo, i brasiliani non riescono a credere ai propri occhi. L’uruguaiano Morán, 19enne ala sinistra all’esordio in nazionale, scoppia in lacrime. Nel marasma generale spariscono sia il pallone, sia la Rimet. 

Per il primo, negli spogliatoi l’arbitro fa sapere che è bene salti fuori, lo vuole lui come souvenir. Il perfido Obdulio (la sua fama è tale che ancora oggi viene ricordato con il solo nome di battesimo) gliene porta tre. Il signor Reader, credendo di fare una furbata, vuole quello più consunto. Il sorriso beffardo del capitano la dice lunga: l’ambito cimelio - l'originale - farà bella mostra di sé nella bacheca della AUF, a Montevideo.

Per la seconda, Varela neanche si scompone: «Con o senza coppa, i campioni siamo noi». Il trofeo poi rispunta, misteriosamente come è stato trafugato. Il numero 5 della Celeste lo riceve - ma senza il consueto cerimoniale - dalle mani di Jules Rimet, l'ideatore della competizione, e Gambetta ci brinda dentro a champagne.

Rimet ha in tasca il discorso preparato in omaggio al Brasile campione, e là rimane. «Mi ritrovai solo, con la coppa fra le mani, senza sapere che cosa fare», racconterà. «Alla fine scorsi il capitano uruguagio e gliela consegnai quasi di nascosto. Gli strinsi la mano senza dire una parola». 

Gli spalti intanto non si svuotano. La gente è come paralizzata dalla delusione, dallo sconcerto. Si registrano una decina di decessi per infarto, le risse non si contano. Il Paese sarà funestato da un numero mai chiarito di suicidi - in tutta probabilità gente che sulla vittoria brasiliana aveva scommesso tutto. E quella notte a Río de Janeiro, anche per il continuo viavai di ambulanze, sono in pochi a prendere sonno.

Dopo il fischio finale, alla radio dicono si tratti della «peggiore tragedia nella storia del Brasile». Ary Barroso, il musicista autore di Aquarela do Brasil, che aveva appena finito di trasmettere la radiocronaca dell’incontro, decise che non si sarebbe mai più occupato di calcio. L’indomani, secondo la leggenda, gli addetti allo stadio trovano un ragazzo che, ancora singhiozzante, si tiene la testa fra le mani, incredulo.

Chi ne ha la forza chiede la Gazeta Esportiva, che titola: «Nunca mais», mai più. Qualcuno favoleggia di un intervento divino pro Uruguay, altri danno la colpa alla maglia bianca (da allora la Seleção adotterà i colori della bandiera brasiliana) e tutti, indistintamente, gettano la croce addosso al povero Barbosa, che vivrà da reietto e mai sarà perdonato.

Nel 1993, durante le qualificazioni per USA 94, volle fare gli auguri alla nazionale verdeoro. Si presentò al ritiro ma la CBD (la Federcalcio brasiliana) nemmeno lo fece entrare. «Da noi, la pena più severa per un crimine è trent’anni di galera. Io da quarantatré anni pago per un crimine che non ho commesso», disse. 

Nunca mais anche per te, povero Moacyr.


LA TATTICA

La vittoria dell’Uruguay «metodista» è l’ultimo colpo di coda del modulo a W prima della definitiva affermazione del Sistema (o «WM»), che vede nelle scuole svedese e inglese le sue migliori interpreti.

Secondo i dettami del Metodo, i due terzini non sono attesi da specifici compiti di marcatura, al contrario dei mediani, strettamente dirottati sulle ali, e del centr’half che però deve anche saper impostare.

In realtà una piccola contaminazione sistemista il Ct uruguagio López se la concede con i terzini che si allargano e i mediani che stringono, ben coperti da Varela che assomiglia più a uno stopper che al centromediano metodista classico.

Ma se Varela è il cuore della Celeste campione, Schiaffino ne è il cervello. Con la sua straordinaria visione di gioco e la precisione dei suoi lanci, e senza disdegnare la conclusione personale, per i tre là davanti (due ali pure, Ghiggia e Morán, e un centravanti tosto, Míguez) è una pacchia. 

Per il resto quintalate della tradizionale garra charrua (oggi insopportabilmente abusata da pseudo-relatores d'accatto), Gambetta in copertura davanti ai difensori e il back-escoba Matías González dietro, una fitta ragnatela di passaggi vagamente danubiana e via andare.

Una curiosità. Il fluidificante di sinistra, Víctor Rodríguez Andrade, è il nipote dello zio José Leandro, il leggendario Maravilla negra campione olimpico nel 1928 e mondiale due anni più tardi. Se l’Uruguay ha tre fuoriclasse (Varela, Schiaffino e Ghiggia) e un plotone di gregari, per il Brasile è il contrario.

L’ossatura della squadra poggia sul blocco Vasco da Gama: oltre al Ct Costa dal club cruzmaltino provengono infatti il centravanti Ademir Marques de Menezes (con 9 reti capocannoniere del torneo), Jair (solo omonimo del futuro interista), che funge da vertice sinistro nel triangolo rovesciato d’attacco, e la funambolica ala sinistra Chico.

Lo schieramento noto come diagonal altro non è che un antesignano del più moderno 4-2-4, il nuovo verbo che, dopo Svezia '58, si diffonderà un po’ dappertutto, come spesso accade quando si scambia la causa (l’inarrivabile tecnica dei solisti brasiliani) con l’effetto (il modulo adottato per esaltarla).

Il nome della nuova disposizione si deve alla particolare forma del quadrilatero di centrocampo. nel «WM», o perlomeno nella sua versione originale, i centrocampisti si schieravano secondo linee ideali parallele alla riga di fondocampo. Nella diagonal, tali linee ruotano di 90°, così da formare un rombo i cui vertici più acuti sono rivolti verso le porte.

La manovra nasce dai terzini e si sviluppa lungo, appunto, la diagonale maggiore: dal centromediano Bauer (che si cura meno della fase difensiva) alla punta de lanza, neologismo creato su misura per Ademir. A parte il verrou (chiavistello) messo in mostra dalla sorprendente Svizzera, da cui discenderà l’italico Catenaccio, nulla di nuovo sotto il sole.

Al di là di più o meno sterili elucubrazioni da lavagna però, il Brasile del 1950 era una straordinaria macchina da calcio che sul più bello si inceppò per presunzione. E per due felicissimi contropiede. Il resto, come le giocate di Schiaffino e degli interpreti del futébol bailado, è poesia.

CHRISTIAN GIORDANO ©

IL TABELLINO

Estádio Jornalista Mário Filho (Maracanã), Río de Janeiro (Brasile)
16 luglio 1950, ore 15: locali
Brasile-Uruguay 1-2 (0-0)
Brasile: Barbosa; Augusto, Juvenal; Bauer, Danilo, Bigode; Friaça, Zizinho, Ademir, Jair, Chico. Ct: Flavio Costa.
Uruguay: Máspoli; M. Gonzáles, Tejera; Gambetta, Varela, Rodríguez Andrade; Ghiggia, Pérez, Míguez, Schiaffino, Morán. Ct: Juan López.
Arbitro: George Reader (Inghilterra).
Marcatori: 47’ Friaça (B), 66’ Schiaffino (U), 79’ Giggia (U).
Spettatori: 200 mila circa (174 mila paganti).

Girone finale
 9/7/1950, Río de Janeiro (Maracanã) Brasile-Svezia 7-1
 9/7/1950, San Paolo (Pacaembú) Spagna-Uruguay 2-2
13/7/1950, Río de Janeiro (Maracanã) Brasile-Spagna 6-1
13/7/1950, San Paolo (Pacaembú) Uruguay-Svezia 3-2
16/7/1950, San Paolo (Pacaembú) Svezia-Spagna 3-1

Classifica del girone finale
Squadre  Pt G V N P RF RS
Uruguay  5    3 2 1 0 7 5
Brasile     4   3 2 0 1 14 4
Svezia     2    3 1 0 2 6 11
Spagna    1    3 0 1 2 4 11

Legenda
Pt: punti; G: gare; V: vinte; N: nulle; P: perse; RF: reti fatte; RS: reti subite. 

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