Lavorare Stanga


«Si fa presto a parlare di moralità» 
– Gigi Stanga 

di CHRISTIAN GIORDANO ©
IN ESCLUSIVA per Rainbow Sports Books ©

Sede GLS Enterprises 
Milano, mercoledì 31 gennaio 2018 

- Gianluigi Stanga, lei ne ha passate di generazioni di corridori. Se le faccio fare un salto indietro nel tempo e le dico “Sappada ’87”, che cosa le viene in mente? 

«Eh, “Sappada”. È il famoso episodio di Roche, che attacca; ma attacca seguendo però un altro. E di Visentini che si fa prendere un po’ dal nervosismo. Forse un po’ troppo. E addirittura scende di bici e finisce per perdere il Giro d’Italia. Anche se bisogna però riconoscere che in quel Giro d’Italia – io mi ricordo – Roche ha tenuto la maglia rosa per tre quarti di Giro. E quindi l’aveva persa sì nella cronometro di San Marino, a favore di Visentini, Roche però andava forte. Quindi non so fino a che punto Roche avrebbe potuto veramente correre per Visentini, o comunque da compagno di squadra, tenuto conto anche che Visentini il Giro l’aveva vinto l’anno prima». 

- Lei era team manager della Supermercati Brianzoli. 

«Claudio Corti era ancora corridore. Era abbastanza davanti anche lui. Quell’anno lì, al Giro d’Italia, non abbiamo brillato». 

- Voi facevate corsa per Tony Rominger, anche se era ancora giovane. 

«Sì, sì, però quell’anno lì abbiamo fatto poco-poco. Avevo anche Milan Jurčo, slovacco, che si era difeso bene. E lui aveva fatto bene nelle cronometro. Mi ricordo che l’ultima cronometro, a St-Vincent, era finito secondo [in realtà terzo, a 45” da Stephen Roche, secondo fu Dietrich “Didi” Thurau a 14”, nda] Era un buon cronoman, poi lì il percorso era scorrevole, per cui si rilanciava, se vedi…». 

- L’avete portato anche al Tour, e si è difeso bene. Non lo finì ma fece quinto al cronoprologo di Berlino. 

«Sì, l’abbiamo portato anche al Tour e si è difeso bene, sì. È un corridore che veniva dalla Cento chilometri. E ho avuto il piacere di far correre anche il figlio». 

- Ah, questa chicca mi mancava: Milan Jurčo. 

«Anni dopo, ha corso anche il figlio[1], sì…». 

- Ho riletto qualche intervista, lei ai tempi era andato giù abbastanza duretto con Boifava per la gestione dei due galli nel pollaio, vero? Si ricorda, dopo oltre trent’anni? 

«Ma, sai, dopo trent’anni, non mi ricordo». 

- Era diventato non dico lo zimbello, però fra i direttori sportivi i sorrisini si sprecavano… 

«Sai, la cosa era stata abbastanza clamorosa. Perché tutti si aspettavano che… Adesso, secondo me, è anche difficile criticare, perché, sai, ognuno le cose le gestisce come… In quelle fasi si è trovato un po’ in difficoltà perché… Però alla fine il Giro lo ha vinto. Lo ha vinto la Carrera quindi bene o male non è proprio… Se Roche l’avesse perso, allora la cosa sarebbe stata grave, ma Roche l’ha vinto. E poi ha fatto una stagione eccezionale, voglio dire…». 

- Se però non avesse preso la maglia rosa per appena cinque secondi, saremmo qui a fare altri discorsi? E non parleremmo di Sappada oltre trent’anni dopo? 

«Sicuramente le cose sarebbero andate in modo diverso, no?». 

- A lei è mai capitato in carriera di dover gestire, o far gestire al suo diesse, due galli nel pollaio? 

«Ma no, guarda, io ho sempre avuto… Ho sempre puntato più che altro ad avere un leader. C’è stato il periodo Bugno-Rominger, quando mi sono accorto che anche Rominger era un corridore che avrebbe potuto vincere dei grandi giri, non solo la Tirreno-Adriatico o la Parigi-Nizza. Come poi ha fatto». 

- Parliamo del “primo” Rominger, perché poi è diventato un altro corridore: cronoman, record dell’ora eccetera… 

«No, primo Rominger. Però con lui ho parlato chiaro. Gli ho detto: Guarda… Siccome era il periodo in cui le squadre erano intorno ai sedici-diciotto corridori, l’attività non era l’attività di adesso. C’era un ciclismo – secondo me – più umano ma più bello. Vero. Vero ciclismo. E gli ho detto: Guarda, Tony, se vuoi andare via, se qualcuno ti fa delle offerte buone… E così è stato. Però lui, prima di andare via, l’ultimo anno [in realtà il penultimo, 1989, nda], ha vinto anche il Giro di Lombardia, quindi… Comunque, è sempre stato… Son sempre riuscito a gestire abbastanza bene sia Bugno, sia Rominger. Poi, sai, il ciclismo dopo si è un po’ evoluto. Le squadre han cominciato a diventare di trenta corridori; a mio modo di vedere, una cosa… che non fa bene al ciclismo. Secondo me». 

- È anche vero che per così tante corse, in un calendario così spalmato in dodici mesi, sarebbe improponibile farle con diciotto. 

«Sììì, ma è un calendario assurdo. Cioè: non è ciclismo professionistico». 

- E che cos’è, allora? Solo una macchina da soldi? 

«Ma è diventata la famosa “licenza unica”: quella che si voleva per poter partecipare alle olimpiadi e via, insomma. Non possiamo dire – e non potete dirmi – che una vittoria in Argentina vale la Parigi-Nizza, che una vittoria in Arabia, o negli Emirati Arabi, vale il Giro delle Fiandre. Cioè… Se ci sono voluti cent’anni per far diventare famose certe manifestazioni, tra cent’anni ne parleremo… E non ci sarà più neanche il ciclismo…». [Stanga la butta lì come provocazione, nda] 

- Lei ha avuto tante squadre e di vari livelli. Le chiedo: la forbice che c’era tra i grandi team dell’epoca, penso per esempio alla Carrera e forse anche la stessa sua Supermercati Brianzoli, e qui magari mi dirà lei… [Stanga neanche mi fa finire la domanda, nda] 

«Guardi, quando io sono partito, con la Supermercati Brianzoli, prima avevo fatto la Mareno-Wilier Triestina. Una squadra che – ancora mi ricordo – quando mi sono presentato da Renato Di Rocco[2], che era il segretario della Lega, e quindi anche lui era agli inizi, e gli ho detto: Guarda, io vorrei fare una squadra, avevano appena sfornato questo Maestri dello Sport, io avevo fatto la scuola dello sport anch’io a Roma, non il corso per Maestri dello Sport ma un corso che la federazione aveva fatto per…». 

- Questo prima di laurearsi alla Bocconi? 

«No, alla Bocconi ho fatto solo un corso di marketing sportivo, così…». 

- Di che anno stiamo parlando? 

«Io questo corso l’ho fatto nell’80-81. Perché io son stato tre anni in federazione. E la Federazione allora aveva emanato un corso per direttori sportivi d’élite, che durava un mese e si faceva all’Acquacetosa. È stata una cosettina interessante. Non era naturalmente in quello che han fatto i Maestri dello Sport…». 

- Le ha aperto delle porte? 

«Sì, da lì, dopo, io ho fatto tre anni in Federazione, poi dopo io ho cominciato a fare squadre. Ho fatto un paio d’anni con delle squadre dilettantistiche…». 

- E l’esperienza con la federazione greca a quando risale? 

«Risale al ’78. Nel ’78 ho piantato lì l’Enel [ride, nda] e sono andato in Grecia a fare il tecnico, cazzo… [ride, nda], sì…». 

- Altri tempi. Non era facile, oggi magari… 

«Avevamo po’ di corridori però hanno impostato le cose bene, avevamo un po’ di robettine, tanto è vero che ero venuto alla Settimana Bergamasca con una squadra greca e avevamo vinto una tappa. Quando son andato da [Renato] Di Rocco e gli ho detto che volevo fare una squadra professionistica. C’era la Wilier Triestina che mi spingeva a farlo. E lui m’ha detto: Va bene, guarda, mi fa piacere, però prenderai dei giovani, no? 
- Comincio con dei giovani. 
"Va bene, quanti giovani prendi?".
- Cinque. 
"Va bene, allora io ti do anche cinque disoccupati". 
E questa è stata la prima squadra che ho fatto… Però io, nell’83, ho fatto il Giro d’Italia con la Mareno-Wilier Triestina. Quindi, capisci? C’era spazio anche per una squadra di giovani, una squadra nuova, uno sponsor appena entrato. C’era spazio per farsi…». 

- Ecco, quindi all'epoca qual era la forbice tra una squadra così piccola, giovane e magari un top team? 

«La forbice era che, naturalmente, con una squadra così giovane, facevi un’attività prevalentemente italiana. Anche se, anche se… Alcune gare all’estero sono andato subito a farle. E i risultati… Però poi ’sta gran differenza non esisteva». 

- Quanto c’era di budget, in proporzione: uno a dieci? 

«Mah, non so… Ma neanche. Guarda, io penso… Allora, una squadra come la Bianchi, la Bianchi di Ferretti – io credo che avrà avuto – allora un budget attorno ai due, metti due-due miliardi e mezzo di lire se c’arrivava. Ed io avevo un budget di 800-900 milioni. Parliamo di vecchie lire. Quindi…». 

- Bruno Reverberi sostiene che c’erano che squadre che se la cavavano, riuscivano a sbarcare il lunario con cinquecento… Quindi cinquecento contro due miliardi e mezzo, per dire… 

«Sììì. Sì-sì. Adesso devo star qui a fare un po’ mente locale. Lo stipendio medio era otto milioni di lire. E quindi tu avevi dieci corridori, erano ottanta-cento milioni. Un po’ di attività, un po’… Non c’erano pullman, non c’erano… C’era un camioncino, e due ammiraglie». 

- Perché la Carrera è stata la prima a farsi il pullman, no? 

«No, il pullman prima l’ho preso io con la Gatorade». 

- Qui c’è un conflitto di versioni… 

«No, no, no: io ho comprato il pullman nel ’90, l’ho acquistato dalla PDM, te capi’? Dalla PDM…». 

- Perché la PDM era stata la prima, vero? 

«Gli olandesi son stati i primi. PDM son stati i primi perché? Perché loro si spostavano col pullman…». 

- E quindi lei ha preso di seconda mano dalla PDM… 

«L’ho comprato da PDM… Nel ’90 l’ho portato in Italia. Tanto è vero che Saronni ha detto: «Maaahhh, forse faceva meglio a… [ne imita la voce, nda] Non mi ricordo se Saronni o Argentin, sarà stato quello “str...” di Argentin [scherza e ridiamo, nda] a dire: “Forse faceva meglio a prendere i corridori da affiancare a Bugno”. Invece ho comprato il pullman. Quando tutti han visto il pullman, han detto: “Cazzo, però… Questo qui c’ha il pullman…”». 

- Oggi altro che pullman, siamo al motorhome. 

«Eh, va be’, oggi siamo all’elicottero». [ride, nda] 

- Non prendiamo il Team Sky che forse non è un esempio calzante, perché con 35 milioni di euro di budget annuo è un pianeta a parte. Prendiamo altre big come Astana, Bahrain-Merida, che sono comunque quasi degli enti “parastatali”… 

«Ma, Giordano, secondo lei, venti milioni – o anche quindici – li vale? Cioè: li vale?». 

- Di primo acchito si direbbe di no, ma forse la risposta è "nì". Bisogna vedere quanto, o che cosa, quei 15-20 milioni poi portano… 

«Io le dico: prendiamo Nibali o Sagan e facciamogli fare una passeggiata in Corso Vittorio Emanuele. Vediamo quanta gente li ferma per un autografo. Poi prendiamo l’ultima riserva dell’Inter e gli facciam fare la stessa cosa…». 

- Sì, lo so, però… In questo ragionamento c’è una pecca: è un ragionamento troppo italiano. Loro ragionano… Capisce che cosa voglio dire? Con altri mercati, con un’altra lingua. 

«Sì, va bene. Ma tiriamo via il Belgio e l’Olanda. Il resto è come l’Italia. Il povero Lefevere ha girato tutta Europa, m’ha detto, non ha trovato una lira». 

- E parliamo di Patrick Lefevere... 

«Bravo. Se l’amico di [Eusebio] Unzué che è il direttore generale della Movistar che mi sembra che viene dalla Banesto, un giorno lo mandano via dalla Movistar, è finita anche per Unzué…». 

- Forse stiamo dicendo un po’ la stessa cosa. Perché la Movistar, la Lotto, l’Astana, la FDJ… La FDJ quest’anno cerca un secondo sponsor [la Groupama, che poi diventerà primo, nda]. Sono aziende di Stato. Non c’è più il piccolo mobilificio, il patron – Del Tongo o Scibilia che sia – che dice: per me è più importante il Giro di Puglia che il Tour. Parliamo di due mondi diversi. 

«Certo, però-però… Effettivamente questi soldi, secondo me, non sono sostenibili». 

- Quindi è una bolla: e prima o poi scoppierà? 

«Prima di tutto la gente – parliamo dell’Italia ma parliamo anche delle altre nazioni – comincia a parlare di ciclismo il giorno della Milano-Sanremo. La Tirreno-Adriatico non sanno neanche che esiste. Non parliamo dell’estero. Comincia a dire: “Ostia, domani la Milano-Sanremo…”. Poi qualche cosina delle classiche, ma tipo Fiandre, Roubaix e Liegi. Perché la Gand-Wevelgem nessuno sa cos’è…». 

- Neanche la Freccia... 

«Bravo. Qualche cosina poi il Giro d’Italia: “Ah, son rimasto bloccato tre ore, è passato il Giro d’Italia…”». 

- Comunque, il Giro d’Italia smuove grossi numeri – almeno per il nostro Paese… 

«Esatto, bravo. Comunque, il Giro d’Italia e così alla Vuelta e via. Poi, se c’è un corridore italiano che lotta al Tour, parli del Tour. Fine. Non parlano più neanche del mondiale. Cioè: è inutile che stiamo qui a girarci attorno. Questo è la sostanza del ciclismo, poi dopo possiamo inventarci tutto quello che vogliamo. Andare a fare il Giro in Cina…». 

- O in Israele…

«O in Israele. Ma il ciclismo “è” questo qui. Allora, io dico: per fare questo tipo di attività, bastano squadre di sedici, diciotto, venti corridori. Per fare risaltare uno sponsor, basta partecipare a determinate corse. Te capi’? Che sono: il Giro, il Tour, eventualmente la Vuelta, le quattro classiche in Belgio. Te capi’? E per dare un ritorno, a uno sponsor, cioè: non ditemi che la Movistar ha il ritorno ad andare a fare la Vuelta San Juan in Argentina. Non ditemi che la Movistar ha un ritorno ad andare a fare il Giro in Cina. Cioè…». 

- Allora quali sono le vere ragioni per cui il baraccone è così sovradimensionato e sopravvive a se stesso? 

«Massì. Ma perché si sono alzati in modo spropositato gli stipendi dei corridori. Perché una volta c’erano due direttori sportivi e adesso ce ne sono dieci. Perché una volta il direttore sportivo faceva anche il preparatore, adesso hanno il preparatore. Cioè: è figlio di questo passo. Il nutrizionista…». 

- E non vede anche un progresso in tutto questo? 

«Mah, tradotto in risultati, io non ne vedo. Cioè: che vincono son sempre i più forti. Cioè adesso, va be’, c’è questo discorso della Sky che sembra che facciano… Però, alla fine, se tu trovassi… Se oggi trovi un Gianni Bugno gli vai contro tranquillamente, anche al signor Froome e a tutta la compagnia». 

- La critica che tutti fanno è che loro ammazzano le corse… [non mi fa finire la domanda, nda] 

«…ammazzano le corse perché gliele lasciano ammazzare… Ci fosse un Chiappucci, voglio vedere la Sky… Deve tirare anche la Sky, tutto il giorno. Quando è una settimana che tira, ci pensiamo, eh». 

- Il punto è che con tutti quei soldi si prendono corridori che sarebbero capitani ovunque, li mettono davanti a tirare e poi, seguendo il loro famoso plan – che per loro è sacro – ammazzano la corsa. Perché la controllano dalla testa, e nessuno “osa” – o può – andar via. Non so se oggi un Chiappucci farebbe quell’impresa del Sestriere. Tra radioline, misuratori di potenza, diretta integrale, forse no… 

«Eh, beh, ma sai, le radioline… Io non do la colpa alle radioline. Le radioline ti servono per rimanere in contatto, come l’allenatore di calcio…». 

- Allora torniamo a “Sappada”: oggi succederebbe, con le radioline e gli srm e tutto il resto? 

«Mah, secondo me sì. Se Roche va, va. Non lo fermi né con la radiolina né con l’srm né con… Con una revolverata, magari, lo fermi… Se trovi il corridore forte, non c’è radiolina che tenga, voglio dire… Siam sempre qui: Froome vincerebbe anche senza radioline e senza srm». 

- Allora, su questo terreno, la porto su degli esempi pratici. Tour 2012, Chris Froome scatta in faccia a Bradley Wiggins. O meglio, lo aspetta: perché si vedeva che in salita andava il doppio. Però il suo team principal David Brailsford – metaforicamente – lo prende per un orecchio e gli ricorda che il plan, è di far vincere il Tour a Wiggins, e Wiggo vince. 
Tour 2017: in salita era Mikel Landa il più forte, ma il plan è far vincere Froome, e Froomie vince. E Landa poi cambia squadra. 
Forse gli manca il carisma del leader, o magari solo per provare a fare il capitano alla Movistar, che però con lui, Valverde e Quintana, di capitani ne avrà addirittura tre, e ancora non sappiamo come andrà a finire[3] [dal 2020 Landa correrà alla Bahrein del dopo-Nibali e Quintana all’Arkea, nda] O forse Landa è solo un ottimo scalatore e non uno che può vincere il Tour. 

«Eh, ma quello lì è uno che può fare. Se lo metti a posto bene… Cioè: alla fine rimane sempre il corridore, capisci? Secondo me si lasciano anche tanto intimorire da questa Sky…». 

- Non è che magari il “grano” sistema tante cose, no? 

«Ma penso di no. Insomma, non voglio crederlo». 

- Non nel senso di comprare o vendere le corse. Ma io corridore, pur di prendere quei soldi lì, accetto di fare il gregario di lusso anche se altrove potrei fare il capitano. 

«Sì, eh. Però, vedi, alla fine cosa è successo? È successo che i costi sono diventati insostenibili. Perché, a un certo punto, vedi, in Italia… ma addirittura i costi per fare una squadretta son diventati insostenibili, no?». 

- È assurdo che l’Italia non abbia una squadra World Tour. 

«A parte il discorso della miopia dei dirigenti che se non hanno ancora capito che stanno massacrandolo ’sto povero ciclismo. Noi non abbiam più neanche corse. Cioè: quando andavi a correre e vincevi il Giro di Campania era un corsone, il Giro di Calabria era un corsone. Pantalica e Etna: corsone. Andavi a fare il Giro di Puglia, la Tre Valli Varesine…». 

- Il Camaiore, il Baracchi, il Matteotti...

«Bravo! Avevi un bel calendario. Avevi dieci-dodici squadre, è logico che tiravi fuori un trenta-quaranta buoni corridori. Adesso, va be’, dalle quattro squadre Professional che abbiamo non viene fuori niente». 

- Allora mi spiega il fenomeno del gigantismo del Tour, che è una macchina da soldi tipo NBA, tipo NFL? È un controsenso storico, stando a ciò che ci siamo appena detti. 

«Il gigantismo del Tour è spiegato… dai francesi. Cioè: perché loro hanno il Roland Garros? Perché il Roland Garros è il Roland Garros, e il Tour è il Tour. È una cosa che i francesi sentono, perché quando tu vai…». 

- E che sanno anche “vendere” a tutto il mondo, non è solo una cosa che sentono solo loro in Francia. 

«Certo, però, sai, quando tu vedi sulle strade, un milione di persone, anche uno sponsor che viene dall’Australia dice: Cazzo, io vendo le patatine, va che vado a fare lo sponsor al Tour. Te capi’?». 

- Si è spiegato… 

«Ma l’hanno fatto i francesi. In Francia, quando presentano il Tour de France, anche il paesino che viene attraversato casualmente dalla corsa, si mette in pista e, per quel giorno lì, organizza tutto quello che può organizzare, fa le cartoline, “fa” la gente sulle strade, fa i ristori, son tutti felici. Qui il giorno che gli dici che il Tour de France [intendeva il Giro, lapsus freudiano, nda] passa da Zavattarello [la perla verde dell’Oltrepò Pavese, piccolo borgo dell'alta Val Tidone, nda], a quelli gli girano i coglioni perché c’è da chiudere le strade: “Ciama el vigile che…” Questa è la differenza tra il Giro e il Tour. E non cambierà mai, scusa. Sarà sempre così. Dopo, naturalmente son bravi. Perché fan le cose bene e vendono bene eccetera. Ma purtroppo è proprio la mentalità. I francesi ci battono in tante cose. E questa è una di quelle». 

- Un’altra cosa che le chiedo è magari qua me lo contesterà però è proprio una sua opinione. Si può parlare della Carrera di trent’anni fa come del Team Sky di quei tempi? Quindi una sorta di Team Sky ante litteram? Penso alla "internazionalità” dei corridori, a come fosse votata a quelle grandi corse…

«Era una bella squadra, sì-sì. Una bella squadra… Sì, ma guarda io mi ricordo che in quegli anni lì c’era la Panasonic con Peter Post, un’altra squadra che ha insegnato a tanti altri, capito? C’erano queste squadre importanti. C’era Delgado con la Reynolds. In Svizzera c’era Paul Köchli. C’era Roger Legeay con la “Z”. C’erano delle belle squadre. Io mi sono inserito abbastanza bene con Bugno e compagnia, e anche noi abbiamo sempre lottato. Certo, non sono mai riuscito a vincere un Tour. Però abbiamo avuto un secondo, un terzo e le altre corse le abbiam vinte tutte anche noi, eh? Due Liegi, due Lombardia, la Sanremo, il Fiandre, l’Amstel…». 

- A quali corridori è rimasto più legato di quelle grandi squadre lì? O anche piccole-medie che ha guidato? 

«Io ho sempre cercato di avere dei buoni rapporti un po’ con tutti… vedo quella cosa che mi fa molto piacere è che adesso quando incontro qualcuno c’è sempre gente che viene e salutarmi». 

- Eppure, non tutti avevano preso bene l’idea del pullman, per esempio, no? [Ride, nda] 

«…Ho visto: una stupidata. Però…». 

- Chi, in particolare, non la prese bene? 

«Mi ricordo che qualcuno, forse Argentin, aveva avuto da dire: “Forse era meglio se prendeva dei corridori…”. Che è vero però voleva dire, per me, investire nella squadra, capisci? Cioè io per esempio ma tante piccole cose, il personale, per me è stato molto più importante il personale che i corridori, certo perché è il personale che ti fa la squadra, i buoni rapporti tra i meccanici e massaggiatori, metterli in condizione di lavorare bene. Allora, per esempio, andavano via con la carta di credito. Prima della carta-carburante c’era… – come si chiamava quella tesserina che ti dava modo di fare rifornimento all’estero in caso di rottura degli automezzi, la riparazione? Adesso non mi ricordo, mi sfugge, era addirittura internazionale. Ce l’avevano tutti i camionisti. Quando io mi sono accorto che questi camionisti facevano questi viaggi, l’ho presa per tutti i miei, che quindi andavano via e non pagavano più la benzina… Tutte cose che, sai, una volta era un casino… Perché tu andavi a correre in Olanda e dovevi partire con le lire, col franco svizzero, col franco belga e col fiorino olandese [ride, nda]. Quindi, anche lì, farli partire con la carta di credito voleva dire togliergli molti problemi. Quindi ho sempre cercato di mettere… E anche il pullman: quando ho visto gli olandesi, PDM e compagnia, che arrivavano… Eh, cazzo, ma il pullman è comodo. Il pullman, tu ci metti le docce, c’è la cucina… Il corridore viaggia tranquillo. E allora mi sono dato da fare e abbiam preso ’sto pullman. E infatti è stata una bella operazione. Era il ’90…». 

- Da chi l’ha preso il pullman? 

«L’ho preso dalla PDM». 

- Che fu la prima. Quindi lei rivendica che siete stati voi la prima squadra italiana a prendere il pullman, subito dopo la PDM? 

«Sì, sì. L’ho preso alla fine del ’90, nel ’91 con Gatorade avevano il pullman». 

- Quali erano i suoi compiti? 

«Mi ricordo che una volta non era così facile. Perché il pullman era olandese e l’ispettorato della motorizzazione, non so per quale motivo, ha voluto fare tutte le prove. L’ultima prova son state le… Messi non so quanti quintali di ferro sul tetto. A casa ho ancora la foto – se sapevo te la portavo – di ’sto pullman con sopra…». 

- Per la prova a pieno carico? 

«Prova-carico. E c’è lì anche Vittorio Algeri che guardava: Adesso si sfonda… Se gli parli, e gli dici: Ma è vero che avete messo il ferro sul pullman, han dovuto fare la targa italiana, son venuti da Milano e han dovuto fare tutte le prove…». [ride di gusto, nda] 

- Lei è stato quasi sempre general manager, ma ha avuto esperienze da direttore sportivo? 

«Ma io ho cominciato da... Una volta il direttore sportivo faceva tutto, cercava i soldi, general manager, proprietario della società, perché lo sponsor non voleva saperne, perché tu quando andavi da uno sponsor dicevi: “Guarda che bisognerebbe fare i contratti ai corridori eccetera”. “Per l’amor di dio, facciamo un contratto, mi dici cosa ti devo dare, io non voglio avere rogne coi corridori, meccanici, massaggiatori”. Capito? Dovevi costituire una società, poi piano piano la UCI si è data anche delle regole buone, voglio dire. La fidejussione, un minimo di garanzie per gli atleti. Io ho sempre mantenuto la società in Italia». 

- A differenza di altre con sede in qualche paradiso fiscale? 

«Ho sempre mantenuto la società in Italia, versato i contributi, pagato l’ENPALS ai corridori, tutto è sempre andato…». 

- E come faceva, al contempo, a gestire la squadra e magari procacciarsi lo sponsor per l’anno dopo o magari i due successivi? 

«Sì, sì…». 

- E magari si occupava pure della logistica. Perché ai tempi… 

«Prenotare gli alberghi, prenotare gli aerei, prenotare i viaggi…». 

- Franco Cribiori, per esempio, per la logistica si faceva aiutare dalla moglie. La “società” erano loro due. 

«All’inizio anch’io. Sì, c’era mia moglie che ogni tanto mi dava una mano. Poi ho cominciato a prendere un impiegato. Poi, piano piano, sono arrivati Vittorio Algeri e Claudio Corti che dalla bicicletta li ho portati sull’ammiraglia, allora ho cominciato ad avere un po’ più di spazio, poi, dopo, piano piano è venuta una buona organizzazione, è venuto tutto il resto. E con gli impiegati, l’addetto stampa…». 



«Sì. Sì, perché con Corti avevamo deciso e avevo detto: guarda che per sistemare un po’ ho detto. Guarda, tu ti occuperai più che altro di Bugno, no? Anche perché lì cominciavamo con Algeri e Corti a dividere un po’ le squadre. Si cominciava a dire: tu Adriatico, tu fai Nizza però si corre in Italia e si corre all’estero, e abbiam cominciato insomma a darci una… Io avevo un piccolo opuscolo dell’ultima squadra che abbiam fatto dove c’era comunque Algeri mi manda sempre il calendario aggiornato con le gare della stagione e mi scrive ancora Stanga. Questa qui è l’ultima con il «Peta« [Alessandro Petacchi, nda] che avevamo e l’abbiam tenuta. Questi eran gli uffici, il capannone…». 

- La sede dov’era? 

«La sede era lì a Bergamo. E questo era l’ambaradan. E già qui… E spendevamo sei miliardi delle vecchie lire, sarebbero tre milioni di oggi. Però avevamo venticinque corridori, due pullman, due camion, furgone e camper». 

- È vero che a un certo punto lo sponsor tedesco gradiva un management non italiano? 

«Sììì, un cretino di un olandese… Fino al 2007 e qui tutti i corridori che han vinto». 

- Con un certo numero uno. E parliamo di grossi nomi… 

«No lì c’era un olandese che era Gerry van Gerwen che aveva fatto un po’ da tramite per questa sponsorizzazione…». 

- E a un certo punto i tedeschi han detto teniamo tutto qui? O era una balla? 

«Sai, lui questo qui ha sempre voluto fare lui – la società era la Ciclosport S.r.l. Questo olandese ha fatto da tramite. Io l’avevo inserito nella squadra, addirittura anche la figlia e il genero. Poi, dopo, è successo il casino del salbutamolo di Petacchi. Lui [Gerry van Gerwen, nda] era un po’ vicino ai tedeschi, parlava il tedesco eccetera e… Secondo me, lui ha detto: Li portiamo qui, li controlliamo di più… Difatti poi così han fatto, però è andata avanti un anno e han chiuso. E anche lui non ha più trovato niente, quindi…». 

- Avete avuto grossi problemi con quel caso. Diego Ulissi nove mesi di squalifica, Alessandro Petacchi un anno. 

«Un anno, sì. E Petacchi aveva addirittura 1.350 [per la precisione 1352 ng/ml, nda], Froome aveva 2.000 [in realtà 1.190 ng/ml, il 19% in più del consentito e non il doppio, nda]. E le stesse, identiche, motivazioni che ha presentato la Sky, e che ho letto sui giornali. Son le stesse, identiche, cose che abbiamo detto noi. Noi abbiamo preso, attraverso i miei avvocati, un consulente della WADA australiano, il quale già dieci anni fa aveva detto: quando si deve considerare la quantità di salbutamolo bisogna cambiare la concentrazione nelle urine che usiamo per gli altri farmaci. Son le stesse cose che stanno dicendo… potrebbe esserci una concentrazione nelle urine, la concertazione che viene usata è questa, per certi prodotti non va bene, se quella concentrazione la cambiamo come diceva questo qui che era un consulente della WADA tanto è vero che vedrai che in primavera vedrai che verrà fuori e lo cambieranno – dice lui era ampiamente nella norma. Da 1350…». 

- Petacchi non l’ha mai mandata giù, vero?

«E chi la manda giù? Se vinci cinque tappe, son tutte a posto, una ti trovan fuori… abbiamo stabilito che c’era un determinato grado di umidità, una determinata temperatura, quel giorno lì, se ti ricordi, dopo l’arrivo cadevano tutti perché c’era appena bagnato. Eh». 

- Ah, era quell’anno lì? 

«Quell’anno lì, sì. Non stavano in piedi a piedi, quindi… E purtroppo è venuto fuori quel valore lì però non puoi tirargli via cinque tappe e neanche le altre». 

- Però il caso di Froome è diverso… 

«Però il problema…». 

- …nasce male: già con l’esenzione… 

«A parte l’esenzione. Tu devi dire a uno: o lo puoi fare o non lo puoi fare. Basta. O lo puoi fare o non lo puoi fare. Se lo puoi fare, è inutile che mi vieni a dire: lo puoi fare, ma fino a un certo limite. Perché fisiologicamente uno è diverso dall’altro, una giornata è diversa dall’altra…». 

- Per non parlare delle condizioni… Visto che lei è stato nel ciclismo per decenni, di quello col passaporto biologico, che impressioni ha? Son passati dieci anni e un bilancio possiamo farlo, no? 

«Allora, guarda, cominciamo col dire una cosa: che il ciclismo si è fatto disponibile a tutto». 

- Anche troppo. 

«Forse troppo. Io mi ricordo che quando non si riusciva a testare, attraverso le urine, l’eritropoietina, abbiamo fatto una riunione a Ginevra con [Hein] Verbruggen, con i medici, così. Ed è stato detto: Signori, corriamo dei rischi, sarebbe opportuno fare l’esame del sangue. Non c’è stato nessuno che ha detto di no. I calciatori l’hanno approvato un bel po’ di anni dopo, quel discorso lì. Quindi abbiam detto: Va bene, se serve per evitare che succeda qualcosa di grave, facciamo pure l’esame del sangue. E questo è stato stabilito dai medici dell’UCI: che si faceva questo esame del sangue, e che l’ematocrito doveva essere entro il famigerato livello di “50”. Perché? Perché avevano detto che qualcuno di suo aveva o poteva avere cinquanta, perché avevano detto che in una gara a tappe poteva esserci anche delle giornate calde, poteva anche salire, e chi passava il limite veniva fermato quindici giorni ma non considerato positivo, veniva fermato per la sua salute. Dopo 1uindici giorni poteva rifare l’esame, poteva ricominciare a correre. Noi siamo stati i primi a dare tutta la possibilità possibile e immaginabile. Poi, quando hanno introdotto il discorso della reperibilità, i primi a dire: va be’, facciamo la reperibilità, tutti devono presentare i loro programmi eccetera eccetera, le squadre anche. Poi è arrivato il passaporto biologico, facciamo il passaporto biologico. Sai io dico più disponibilità di così… Poi se tu mi dici: Ma c’è ancora qualcuno che prende dei rischi? Eh, probabilmente sì, perché vedo che ogni tanto beccano qualcuno. Non tanto in Europa quanto in giro per il mondo». 

- Be’, anche in Europa. Pensiamo alla Bardiani alla vigilia del Giro 2017, la sera prima della partenza da Alghero. 

«Bravo… Bravo. Quindi, secondo me, la disponibilità data dal ciclismo è stata massima, la presa di coscienza da parte di tutti c’è stata. Se poi dopo trovi ancora qualcuno che sbaglia, vabbè che paghi e buonanotte insomma, però non possiamo considerare il ciclismo uno sport più coinvolto nel doping di un altro». 

- Torniamo a quando lei era in ammiraglia: lei si è accorto che, a un certo punto, i cosiddetti “culoni”, gente di ottanta chili che in salita volava? Si è accorto che nel ciclismo italiano qualcosa non andava… 

«Sai, più che ciclismo italiano ciclismo internazionale. A un certo punto è stato questo “prodotto” che a un certo punto, sai, gente che vive di ciclismo vive utilizzando praticamente il suo corpo il suo fisico è difficile anche fare in modo che non succeda quello che è successo. Sai, si fa in fretta a parlare. Tu devi andare da uno che dice senti, io prendo lo stipendio mantengo la famiglia. Anche se faccio qualcosa e cerco di stare nelle regole perché me lo devi impedire? Non è così facile. Si fa in fretta a parlare di moralità o non moralità però…». 

- Tornando ai due personaggi da cui siamo partiti mentre Visentini è durato altri tre anni , lei ha notato delle differenze tra il “primo” Roche e il “secondo” Roche, quando è tornato in Carrera a inizio anni Novanta? 

«Io mi ricordo che quell’anno lì a Roche gli sono andate bene tutte». 

- Era andato forte anche prima del Giro però, eh. 

«Sì, sì, ma era un signor corridore, non era uno stupido, era un signor corridore. Sai, ti capitano quegli anni dove vai di più , hai la pedalata in più, cioè… Gran corridore. Sai, probabilmente non ci ho mai fatto caso, come Roche ce n’erano anche altri che andavano forte, in quel Tour, la lotta con Delgado… Adesso, sai, io, a distanza di trent’anni… Però, in quel Giro, lui la maglia rosa l’ha tenuta un bel po’ di giorni». 

- Quali erano le sue sensazioni invece nei giorni successivi dopo il “fattaccio” di Sappada. Voi facevate per Rominger come uomo di classifica, no? È cambiato qualcosa nel vostro paino gara giorno dopo giorno? 

«Ma no, perché, sai, comunque, checché se ne dica, la Carrera poi – secondo me – non era proprio così divisa, eh. Per un gregario vincere il Giro con Visentini o vincerlo con Roche, non gli cambiava la vita». 

- Con una distinzione, però: a Schepers magari sì, e parecchio. Visto che Roche l’anno dopo se lo sarebbe portato in Fagor… 

«Sì, Schepers sì. Ma anche gli altri. Se c’era comunque da dare una mano, stai tranquillo che la davano. Lasciamo perdere Visentini, ma gli altri non è che andavano a ostacolare Roche». 

- In questo ha ragione. Claudio Chiappucci, per esempio, veniva dalla gravissima caduta al Giro di Svizzera ’86. 

«E lì magari si è trovato un po’ nei casini. Ma se c’è da dare una mano te la do, hai capito?». 

- Prima lei parlava di armonia e buoni rapporti nel personale… 

«È determinante». 

- Allora mi viene in mente la figura di Patrick Valcke, l’ uomo-ombra di Roche. Qualcosa di più che il suo meccanico-tuttofare. 

«Non voglio arrivare a questo, lì è un caso-limite no?». 

- In quella Carrera c’era una sorta di Stato nello Stato. 

«Bravo. Ecco, tieni conto che dell’atleta il massaggiatore è un po’ il confidente. Quando l’atleta arriva che fa il massaggio, sta lì quaranta-cinquanta minuti, un’ora, e magari le cose sono andate bene o sono andate male, il massaggiatore deve essere una persona capace. Deve essere una persona che non si fa coinvolgere… Come, per esempio, potrebbe essersi fatto coinvolgere…». 

- …Valcke. 

«…e che comunque mantiene un rapporto con il direttore sportivo. Cioè, non so se riesco a spiegarmi. Se lui deve venirmi a dire: Guarda che c’è questo problema… Io, per esempio, il fatto di Baronchelli a Foppolo[4] dell’86, lì un po’ ho fatto un errore anch’io. Però, se lì avevo un massaggiatore che, anziché fomentare la cosa, un po’ la smorzava, non sarebbe successo quel che è successo. Tanto è vero che poi di quel massaggiatore mi sono anche liberato». 

- Ecco, lei quindi non avrebbe permesso a Valcke di prendere così troppa autonomia? 

«No». 

- Gli avrebbe tirato un po’ le redini oppure… 

«Certo, sono anche rapporti che crei anche con gli anni. Con il personale. Come con i corridori anche con il personale capisci col passare degli anni qual è il meccanico che va bene, il massaggiatore che va bene, chi lavora nell’interesse della squadra e non del singolo. Lo capisci con gli anni, io ero riuscito a creare un bel gruppo di gente, che andava bene leale, insomma, che metteva al primo posto la squadra e non il singolo corridore». 

- Il 30 settembre a Caldiero… [non mi fa finire, nda] 

«Ci son stato». 

- Ah, ecco è stato a quella festa lì allora mi può raccontare. 

«E certo, figurati se Boifava non m’invitava». 

- C’erano quasi tutti tranne… 

«Eh, non è venuto. Eh, sai, la cosa andava preparata oramai quella frattura lì non si…». 

- ...ricompone più. È insanabile, vero? 

«Anche perché Visentini è uscito dall’ambiente. Se fosse rimasto nell’ambiente magari…». 

- E perché ne è uscito, secondo lei? 

«È uscito perché fa parte…». 

- Sarebbe uscito a prescindere da Sappada, vero? 

«Sììì, sì sì. Era uno di quelli che non avresti più visto nell’ambiente». 

- È perché lui era – ed è – innamorato della bicicletta ma non dell’ambiente del ciclismo. 

«Sììì…. Sì». 

- Mi racconta di quella festa? 

«Una bella festa. C’erano un po’ di corridori. C’era Perini. Son venuti quasi tutti. Una bella festa. Trent’anni, hanno ricordato la vittoria. E dopo, va be’, si è fatta un po’ di ironia, naturalmente, sulla mancanza di Visentini. No-no, però Boifava ha avuto piacere che sono andato…». 

- Mi tratteggia Roche e Visentini da un punto di vista tecnico, come corridori. E per quel tanto o poco che ha avuto di conoscerli, come rapporto, come persone? 

«Roche un corridore più completo, adatto anche a gare di un giorno. Visentini nelle gare di un giorno aveva qualche problema». 

- In volata, zero… 

«Infatti, noi – con Corti – lo abbiam battuto, in un campionato italiano, ad Arezzo, sullo Scopetone. E Visentini era così. Visentini però era comunque un corridore che quando... A cronometro, per esempio, molto forte. Forse anche più forte di Roche. E nelle gare a tappe si difendeva. Probabilmente era dotato di un gran recupero che gli consentiva di…». 

- E anche di un bel motore. 

«Be’, sì, il motore. Poi, sapeva anche concentrarsi per determinate corse. Roche più attento, bravo a legger le corse». 

- E anche a farsi degli amici? 

«Sììì. Ma poi anche più tattico, capiva il momento giusto. Sì, un corridore sveglio, eh». 

- In quella fuga a Sappada, era con Ennio Salvador e Jean-Claude Bagot. Roche, nei suoi tre libri, sostiene che lui non aveva in mente di attaccare… 

«È andato dietro a loro, lui dice». 

- E poi, però contraddicendosi, dice anche che con Schepers l’aveva “preparata” due giorni prima, quando aveva sentito Visentini dire in tv che al Tour non sarebbe andato. 

«Bah. Sì, lui dice che se l’era presa un po’ per quell’intervista dopo… Perché lui dice che era andato a veder la cronometro di San Marino e invece Visentini non era andato. Dice: No, sto qui, sto a letto. Poi quando è tornato si è fatto raccontare [da Roche] questa cronometro, però è andato come una bestia, ha preso la maglia. E lui dice che Roche era un po’ incazzato». 

- Roche però era caduto nella tappa di Termoli e aveva un ginocchio malconcio. 

«Però, dopo, sai…». 

- Ognuno la racconta un po’ come vuole. 

«A modo suo, hai capito?». 

- Sandro Quintarelli. Se lo ricorda? 

«È sanguigno. Cavolo, uno di quelli che ai corridori trasmetteva grinta. Simpatico…». 

- Mi dice una differenza tra campioni e gregari di quel ciclismo là e… 

«Più professionali. Cioè: tu parlavi, facevi la riunione, capivi che ti capivano, no? Si decideva cosa fare, poi le cose in corsa magari andavano in tutt’altro modo, per l’amor di dio. Però si andava via con l’idea che tu avevi trasmesso, quello che volevi trasmettere, alla squadra. Adesso io credo che non sia più così. La sera ti sedevi nella hall dell’albergo, avevi tre-quattro squadre per albergo, parlavi, scherzavi, ridevi. Si parlava di quello che era successo. Si parlava di tutt’altre cose. Adesso, mi dicono che sono nella loro camera, tutti con il telefonino, con l’iPad eccetera eccetera. Quindi si è perso un po’ anche questo...». 

- Quel cameratismo, il fattore umano? 

«Io mi ricordo che, anche coi direttori sportivi, si andava a cena…». 

- Con quelli delle altre squadre? 

«Sì, assolutamente sì. C’erano dei ristoranti, mi ricordo ancora, come da Januzzo, giù a Siracusa, quando si correva il Pantalica. La sera prima, si andava a cena tutti assieme. Altri posti, dove si andava a cena: al San Domenico di Imola. Si parlava. Mi ricordo che quando c’era qualcuno che diceva: Ragazzi, io qui non ho ancora vinto, magari se vi capita… Si facevano anche questo tipo di discorsi. C’era un rapporto molto più umano. Adesso mi sembra addirittura che non si parlino più. Poi, secondo me, non c’è più neanche il tipo di rapporto che deve esserci con il corridore: capire se sta bene, se sta male, se si è allenato, se non si è allenato. Mi dicono che è tutto schematizzato. Mandano la mail al preparatore, che ti dice quanti watt hai fatto… Insomma, non mi sembra più un gran ciclismo». 

- Quindi oggi non s’innamorerebbe più del ciclismo? 

«No, guarda, io per un po’ ho cercato di rimettere in piedi una squadra. Però devo dire che forse è meglio così. Mi occupo un po’ di calcio, un po’ di pallavolo, un po’ di ciclismo – perché ho fatto sponsorizzare Sanremo, Milano-Torino e Lombardia, Giro d’Italia Under 23 – Non lo so se, anche indipendentemente dal fattore economico, di trovare uno sponsor disposto a mettere sul piatto una certa cifra, non so se riuscirei ancora a ripartire con lo spirito che avevo un po’ di anni fa». 

- E uno Stanga, oggi, c’è? O ci potrebbe essere? 

«Ma, guarda, ci sono tanti miei ex corridori che fanno i direttori sportivi. Parecchi. Parecchi che son stati con me, adesso sono in ammiraglia. A parte Claudio Corti, Roberto Amadio…». 

- Corti ci prova ancora a mettere in piedi una squadra, però con questo mercato è dura. 

«Vittorio Algeri, Alberto Volpi, Valerio Tebaldi, Giovanni Fidanza, tanti, tanta gente che è stata con me fa oggi il direttore sportivo. Io ho sempre cercato di fare il meglio, di capire cosa potevo inventarmi per far sì che la squadra rendesse al massimo. Io, per esempio, anche con le squadre piccole, son stato uno dei primi ad andare a correre all’estero. Mi ricordo che già nell’84 con Alfredo Chinetti son andato a fare la Parigi-Roubaix. Ho fatto la Liegi-Bastogne-Liegi. Allora tu telefonavi, ti prendevano e andavi a correre. Quindi ho portato subito i giovani in Belgio. Perché ritengo che là sia la scuola, per chi vuole correre in bicicletta. Quindi con le squadre si andava su, si andava a correre, si stava un mese in Belgio: la Tre Giorni di La Panne, il Fiandre, la Gand-Wevelgem. E quindi ho sempre cercato di fare bene. Poi, probabilmente, sai, qualcosa avrò anche sbagliato, per l’amor di dio…». 

- Che cosa pensa di poter aver sbagliato? Ha qualche rimpianto o rammarico in particolare? C’è qualcosa per cui, se tornasse indietro, direbbe: farei così o cosà? 

«Sì. Ma, sai, per esempio, quel fatto di Foppolo che voglio raccontarti. Allora, Foppolo: Baronchelli, a Cosenza mette la sua unica maglia rosa [conquistata il giorno prima nella Villa San Giovanni-Nicotera, la quarta tappa, nda]. Secondo: Moser. Voglio dire: primo e secondo. E quell’anno lì Baronchelli, all’inizio di stagione, aveva corso poco. E sai, Moser, tipo sanguigno… Andiamo indietro un passo. I “Supermercati Brianzoli”, due fratelli e un cugino[5]… [sorride, nda] Li contatto attraverso un amico. Li contatto, vado a trovarli… Io avevo la Mareno-Triestina, però, sai… Avremo speso, non so, se Reverberi dice cinquecento milioni, io ne avrò spesi duecento…». 

- Già la metà rispetto una squadra piccola… 

«Sì, sì. Appena partito, sì. Vado a trovare i “Supermercati Brianzoli”. Entro dal primo, l’addetto agli acquisti, e gli dico: Senta, squadra di ciclismo… Mi fa: No-no-no, non m’interessa il ciclismo [ne imita la voce e ride, nda]. Esco dalla porta, entro dal secondo, dal secondo e dal terzo, due fratelli e un cugino. Entro dal fratello e me fa: No, guardi, a me interessa la Formula Uno. Vado dal terzo, il cugino, che però aveva il 51%...». [i fratelli Giuseppe detto “Peppino”, addetto agli acquisti, e Angelo Franchini, logistica, e il cugino Gianfelice, che dell’azienda era lo stratega, nda]». 

- Ah, quindi decideva lui, l’ultima parola era la sua… 

«Decideva lui, che era quello delle aperture, quello del… e gli dico: squadra di ciclismo, era l’82». 

- E che cosa gli ha fatto cambiare idea? E come mai lei ha insistito tanto nel passare dal primo al secondo al terzo? 

«Sì, li ho passati tutti. Ero lì. Ero a Cantù, e va be’.. [ride, nda] Va bene, e decidiamo di fare la squadra, però di dilettanti. “Se lei vuole, professionisti”. Proviamo. Abbiam fatto la squadra. Andiamo alla Milano-Sanremo dell’84. Dopo la Cipressa mi va in fuga un certo Ole Kristian Silseth che, credimi, io non so neanche come cazzo avevo fatto a prenderlo. Norvegese, questo qui guadagna un minuto. De Zan e Adorni in televisione cominciano a dire: …però, questo giovane della Supermercati Brianzoli… Elicottero su Silseth: “Supermercati Brianzoli”… Lo prendono in cima al Poggio, perché se vinceva Silseth la Milano-Sanremo non la organizzavano più… Te capi’? Non c’erano i telefonini, io carico alla fine, bravo Silseth, torno a casa, la sera alle nove suona il telefono. “Eh, pronto?”. “Son Peppino” – era lui il primo [dei tre fratelli] – “Peppino Franchini. Alüra, ma questa chi l’è una roba seria!” Te capi’? L’anno dopo siam andati a prendere Moser. Vedi come cambia, com’è la vita, no? L’anno dopo avevo Corti Baronchelli e Mantovani, tre uomini al campionato del mondo. Te capi’? Con dodici corridori…». 

- Quando è successo invece il “fattaccio” di Baronchelli… 

«L’anno dopo, certo. Dopo Baronchelli è andato alla Del Tongo. Baronchelli l’ho preso l’anno dopo [nell’85] e ha vinto una tappa alla Vuelta [la terza, la Orense-Santiago de Compostela, nda], sesto al giro d’Italia, è andato forte. Poi loro, sai, saputo che Moser si liberava, dice: ma no allora prendiamo Moser, per noi è un bel colpo… Prendiamo Moser, e han deciso di prendere Moser. E il vino e le mele per poterlo fare, te capi?. Han preso Moser e ho detto: “Tista, guarda che viene Moser quindi vedi te. Io so che voi non siete proprio amici-amici, però se rimani mi fa piacere”». 

- Però lei col Tista è stato onesto… 

«“Massì, rimango. Massì, rimango, mi trovo bene. Rimango”. E fine. Baronchelli prepara il Giro, quindi in primavera lo risparmio. E Moser: allora dov’è Baronchelli? Corre Baronchelli? Eh, calma, Francesco, vedrai che poi al Giro Baronchelli va forte. Eh, speremo, speremo… Sai com’è il solito no? Moserone… arriviamo al Giro, Baronchelli va forte, mette la maglia rosa a Cosenza, poi la tiene un paio di giorni e la perde. Però siam lì ce n’ho tre nei primi cinque. Arriviamo a Foppolo facendo il San marco dalla Valtellina e arriva a Foppolo. Figüret: a Bergamo, io di Bergamo, Corti di Bergamo, tutto il personale bergamasco, Baronchelli di Bergamo, dico: cazzo, qui… Baronchelli è davanti, son davanti Corti e Baronchelli e altri cinque o sei, non mi ricordo più forse anche Visentini c’era... E Baronchelli tira, tira, io vado a dire a Corti: oh Claudio, digli di star calmo che vinciamo la tappa… Arrivo a Foppolo, cazzo, siam due bergamaschi, due minuti su Moser e Saronni. Ma no, dice che sta bene, sta bene, sta bene. E invece probabilmente non stava proprio benissimo, perché a un chilometro dall’arrivo Baronchelli si stacca. S’è piantato. Arriviamo a trenta-quaranta secondi, un minuto, non mi ricordo più. Comunque, tutti lì cominciano… Beppe Conti che rompe i coglioni. Gianfranco Josti: Ma dai, ha venduto la corsa. Ma no, non fate i cretini, cosa vuoi che abbia venduto la corsa, cazzo, s’è piantato, fine. Un casino della madonna, Beppe Conti… Arriva Moserone e fa: Allora, com’è andata? Eh, cazzo, s’è staccato… Va bè, s’è staccato, fine. Ti dico, avevo un mal di testa della madonna, quel giorno. Io non so perché. Siamo arrivati lì, un po’ di delusione, vado a casa a dormire. Io abitavo a Villa d’Almé [Bergamo], da Foppolo a Villa d’Almè un’ora di macchina. Vado a casa a dormire e lì, secondo me, ho fatto l’errore: di non fare il giro delle camere. Io tutte le sere facevo il giro delle camere. Dopo tutti gli arrivi tu devi fare il giro delle camere, parlare coi corridori, capire cosa è successo, chi ha vinto, chi ha perso, chi sta bene, chi sta male. Il direttore sportivo deve fare il giro delle camere. Tutte le sere. Son andato via, te capi’? Non so se il massaggiatore, o chi per lui, le parole riportate da uno, dall’altro… Sai, son tutte quelle cose che poi andare a… Eeehhh… Quando, la mattina dopo, sono tornato su, m’è venuto incontro il povero Enzo Moser, che era con me, mi dava una mano. E mi dice: “Tista non vuol più partire”. 
“Cazzo, come Tista non vuole più partire?” 
“No, Tista dice che non sta bene, non vuole più partire”. 
Era terzo in classifica, come cazzo fa a non partire? Passiamo da Alzano, passiamo dal suo paese. Non vuol più partire, non vuol più partire. Io ho provato in tutti i modi. Moser ha provato. 
“Nooo, non sto bene, non sto bene, non sto bene”. 
Però probabilmente qualcuno gli ha detto: Moser ha gridato, Moser… Cose… Penso io. Perché, ancora oggi, non… Dopo ci siam rivisti, per l’amor di dio, ci abbiamo riso sopra, siam stati assieme. Ogni tanto lo vedo a Bergamo, a qualche manifestazione, qualche cronometro, qualcosa che facciamo L’ho anche invitato a una premiazione, è venuto. Per i cinquant’anni della Coppa Bettoni abbiam premiato tutti i vincitori. È venuto, m’ha fatto molto piacere». 

- Baronchelli e Visentini hanno un po’ pagato questo mettersi contro gli Sceriffi del gruppo. O quella “dote” per cui, se avevano una cosa da dire la dicevano, e magari a caldo non era il caso? Oppure il fatto che Torriani disegnasse dei Giri “piatti”, su misura per Moser e Saronni, con quegli abbuoni pazzeschi? Visentini forse è rimasto un po’ in mezzo alle due epoche, e magari un paio di Giri avrebbe potuto vincerli. Per esempio, quello dell’83, come tempi effettivi su strada e abbuoni esclusi, l’avrebbe vinto lui. Anche se va detto che Saronni le volate le faceva (e vinceva) e senza abbuoni magari si sarebbe corso diversamente. Volevo chiederle se il Visenta è stato penalizzato per questo suo essere troppo “diretto”, diciamo così. 

«Ma ecco, in quegli anni lui era un po’ il… Sai, non era il più tenuto in considerazione. In quegli anni lui veniva dopo gli altri. E anche il Giro che ha vinto, secondo me, se l’è sudato fino alla fine, insomma, lui ha vinto un bel Giro…». 

- Era davvero forte, quell’anno lì. E il Giro l’ha corso con lo scafoide rotto. 

«Sì, è stato quel Giro lì che poi Moser è finito terzo e Baronchelli si è ritirato». 

- Poi lo Stelvio annullato nell’84, l’elicottero nella crono di Verona, le spinte... 

«Ogni tanto succedevano un po’ di robe così. Però, sai, devi mettere in preventivo un po’ tutto. La cosa vera, secondo me, era che lui sì buon corridore e tutto. Però, forse, è mancata proprio la determinazione che tanti altri hanno avuto. Sai, Saronni era un determinato. Saronni, cazzo, era… Argentin era un altro, cioè: Argentin non teneva i grandi giri ma, cazzo, quattro Liegi uno non le vince per caso… Sai, Argentin è Argentin, voglio dire… Furbastri no, sai. Era un periodo così». 

- “Troppo bello e ricco per correre”, “non aveva fame”… 

«Era ancora il periodo della fame; adesso non è più così ma prima era ancora il periodo della fame». 

- Bello, ricco, macchinone: suscitava invidia? Magari anche sana, non dico di no… 

«Ma nooo». 

- Sono state cose ingigantite? 

«Sì, ingigantite. In quel periodo i corridori erano non ti dico ancora a livello di sono arrivato uno, però era gente secondo me molto alla mano, anche chi aveva un po’ il panizza della situazione che faceva un po’… Però era gente molto alla mano, gente con la quale insomma parlavi, abituati a far fatica insomma». 

- Chiudiamo con Sappada, anche perché ne abbiamo parlato abbastanza. Secondo lei fu tradimento, o scelta di corsa? E a prescindere da questo, lei da che parte sta? Col cuore o, se preferisce, con la testa: Visentini o Roche? 

«Mah, io ti dico, analizzando quel Giro lì, che alla fine Roche non ha rubato niente a nessuno; perché Roche era andato forte prima, è andato forte dopo… Poi, sai, stabilire se lui abbia attaccato o se effettivamente sia andato dietro agli altri… La fuga c’era, quindi solo non era. La fuga c’era quindi poteva anche essere andato dietro gli altri, e forse Visentini s’è fatto prendere troppo dal nervosismo, magari poteva anche reagire. Secondo me, poteva anche reagire e vedere cosa succedeva». 

- E invece è andato in crisi: di nervi e di fame. 

«Ed è finita lì, capito? Secondo me, doveva essere più capace di mantenere più la calma. E poi sarebbe riuscito ancora a ribaltare la situazione». 

- Prima, a microfono spento, ci è venuta in mente una suggestione: Bugno è stato una specie di Visentini. Lo stesso Gianni ieri mi ha detto che lo ammirava tantissimo come corridore, e che, nonostante i soli sette anni di differenza, per lui era stato quasi un idolo. 

«Gianni forse ha avuto una carriera un po’ più consistente, un po’ più… Gianni era forte anche nelle gare di un giorno, capisci?». 

- Intendevo più caratterialmente che come corridore… 

«Caratterialmente un po’ gli si avvicina, sì». 

CHRISTIAN GIORDANO 


NOTE:

[1] Nel 2003 Matej Jurčo corse da stagista alla De Nardi-Colpack. Gianluigi Stanga era il manager, Orlando Maini, Antonio Bevilacqua e Oscar Pelliccioli i direttori sportivi. 

[2] Renato Di Rocco: per 14 anni Segretario della FCI, ne è stato presidente dal 2005 al 2020. Dal 2017 al 2020 è stato vicepresidente UCI. 

[3] Dal 2020 Mikel Landa Meana correrà alla Bahrain-McLaren del dopo-Vincenzo Nibali, passato alla Trek-Segafredo, e Nairo Quintana all’Arkéa-Samsic, nda. 

[4] Gianbattista Baronchelli, allora alla Supermercati Brianzoli, per motivi mai davvero chiariti non si presentò al via della Foppolo-Piacenza, 17ª tappa del Giro d’Italia 1986. Vincitore a Nicotera della quarta tappa, Baronchelli aveva anche conquistato la maglia rosa, lasciata poi a Beppe Saronni due giorni dopo a Potenza. 

[5] La Supermercati Brianzoli della famiglia Franchini: i fratelli Giuseppe detto Peppino, addetto agli acquisti, e Angelo, responsabile della logistica, e il cugino Gianfelice, che dell’azienda era un po’ lo stratega.

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